Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013 (parte 3)

Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013 (parte 3)

Questo articolo collettivo raccoglie una terza serie di contributi alla riflessione sulle conclusioni dell’Health check e sulle prospettive della Pac per il dopo-2013, introdotta da un articolo di Franco Sotte pubblicato nel numero 15 di Agriregionieuropa (Sotte, 2008). Nei numeri scorsi abbiamo già pubblicato le reazioni di altri autorevoli esperti (Cioffi, Corsi, De Filippis, Frascarelli, Salvatici, Scoppola, Agriregionieuropa, n.16, 2009; Boatto, Brunori, Henke, Mantino, Pupo D’Andrea, Sckokai, Agriregionieuropa, n.17, 2009). In questo numero della rivista pubblichiamo le opinioni di altri autorevoli economisti agrari. Tra di essi, anche quella di Erik Fahlbeck dell’Università di Uppsala, che ha inviato un suo commento su di una versione aggiornata in inglese dell’articolo di apertura del forum, scritta congiuntamente da Franco Sotte e Emilio Chiodo .

Ermanno Comegna (Consulente di politica agraria, Roma)

La mia convinzione è che ci stiamo avvicinando lentamente ma inesorabilmente al momento della definitiva chiusura dei conti con la Pac: all’archiviazione di questo fondamentale capitolo della costruzione dell’unità europea. A metà degli anni settanta, è maturata la convinzione che l’impostazione originaria non poteva reggere ed è iniziato un ciclo di successive riforme che hanno prima corretto e adattato l’arsenale degli strumenti utilizzati e poi, dalla fatidica operazione della mid term review del 2003, è iniziato il lavoro di consapevole demolizione, il cui definitivo compimento può essere indicato in una ancora poco precisata data successiva all’anno 2020.
Sono persuaso che dopo l’archiviazione della esperienza della Pac, ci sarà ancora una politica agraria, ma molto leggera e decisa a livello nazionale.
L’Unione europea si limiterà ad approntare il sistema della legislazione alimentare che, già in questi anni, sta aumentando in modo esponenziale la sua importanza: basti pensare al sistema delle disposizioni sulla food safety, sulla informazione ai consumatori e sulla etichettatura, sulle regole relative alle produzioni di qualità, commercializzate con marchi collettivi, così come alle norme per l’immissione dei nuovi prodotti sul mercato. Spetterà, inoltre, all’Unione europea definire ed attuare le regole per la tutela del mercato unico e della concorrenza, ad evitare che i Paesi membri attuino, in modo indiscriminato sul loro territorio, un surrogato nazionalizzato della vecchia Pac; nonché soprassedere al delicato ambito degli accordi internazionali, di natura multi e unilaterale.
Gli interventi di politica agraria veri e propri saranno programmati e gestiti a livello nazionale, con il contributo essenziale delle istituzioni che hanno il fondamentale vantaggio di essere più vicine al destinatario finale. Non ci saranno più gli strumenti che consociamo oggi, come le misure di mercato ed i pagamenti diretti non finalizzati. Avremo una politica agraria incentrata sui cosiddetti interventi selettivi, con particolare riferimento a quelli che compensano l’attività di produzione dei beni pubblici da parte dell’agricoltore, non altrimenti remunerati via mercato.
In pratica, nel lungo termine, si realizzerà quello che diversi economisti agrari europei, tra i quali si deve senz’altro annoverare anche Franco Sotte che ha provocato il dibattito sul futuro della Pac su Agriregionieuropa, da molto tempo auspicano: ovvero una quasi completa liberalizzazione del settore agricolo e, speranzoso aggiungo, un definitivo affrancamento dal micidiale controllo della burocrazia, nelle sue molteplici, variegate e subdole forme.
Arrivare a questo traguardo non sarà agevole. C’è bisogno di una lunga fase intermedia e forse la prossima riforma della Pac, ormai nella rampa di lancio, con la quale si stabilirà la configurazione dell’intervento pubblico in agricoltura per il dopo 2013 non sarà sufficiente e necessiterà qualche ulteriore passaggio.
In realtà, le imprese agricole europee ad oggi non possono prescindere dal sostegno della Pac. I soli pagamenti diretti, senza contare il non trascurabile impatto per alcuni delicati settori, come quelli zootecnici, delle barriere tariffarie alle importazioni, hanno una incidenza sul ricavo complessivo che varia da poco meno del 10% ad oltre il 50%, in funzione del prodotto considerato.
E’ evidente dunque che non è possibile una veloce transizione nella direzione della soppressione della Pac. Sarebbe troppo traumatica ed è difficile immaginare che esista una maggioranza politica disposta a favorire una tale impopolare evoluzione.
C’è bisogno di una lenta transizione. Alcune recenti decisioni politiche su comparti produttivi di primaria importanza, se non per l’intera Unione europea, almeno per alcuni Paesi membri e regioni, devono ancora essere completamente attuate e dispiegare per intero il loro prevedibile effetto di ridimensionamento, se non addirittura di completa cancellazione, del potenziale produttivo. Mi riferisco in particolare alle produzioni del tabacco, delle bietole, del latte e del vino, le ultime ad essere sottoposte al programma di revisione della politica di sostegno ed al ridimensionamento e, nei casi più drastici, alla soppressione delle misure di mercato, con il trasferimento dello sforzo finanziario equivalente sostenuto dall’Unione europea dentro quel contenitore a perdere che è il regime del pagamento unico aziendale.
Quando ciò che resterà di questi settori sarà entrato pienamente nel regime degli aiuti disaccoppiati, quando le altre forme di sostegno diretto e di intervento sul mercato saranno completamente eliminate e, infine, quando, per effetto dei progressi della tecnologia e dell’innovazione e, magari, dell’innalzamento generale del livello dei prezzi dei prodotti agricoli, conseguente ad una favorevole interazione tra la domanda e l’offerta, miglioreranno le ragioni di scambio per il settore agricolo, si potrà procedere all’atto finale dell’abbandono della Pac.
Non vedo soluzioni alternative, come la riedizione di un nuovo modello di politica agricola incentrata sugli strumenti di stabilizzazione del reddito e di copertura dei rischi di varia natura ai quali l’attività agricola inevitabilmente va incontro. Non mi pare che l’Europa intenda seguire l’esempio degli Stati Uniti che negli ultimi due Farm bill ha puntato molto sugli aiuti anticiclici e su altre forme di intervento per contrastare la variabilità dei redditi agricoli. Allo stesso modo, non mi pare verosimile l’ipotesi che, nel lungo periodo, in luogo dei due tradizionali pilastri di oggi, ne avremo uno solo, ovvero la politica di sviluppo rurale. Tutto quello che di buono si può fare in questo ambito potrà essere realizzato a livello di Paesi membri, con fondi nazionali, rispettando regole comuni stabilite dall’Unione europea per prevenire possibili distorsioni della concorrenza e limitando la tipologia e la varietà di strumenti utilizzati allo stretto indispensabile.
Interpreto le ultime riforme della Pac e, ne sono cero, anche quella che sta per iniziare, come fasi preparatorie al definitivo disimpegno, a tempo debito, dell’Europa nei confronti del settore agricolo.
L’Health check, ad esempio, nonostante qualche concessione alle variegate ed inesauribili esigenze nazionali va in tale direzione, giacché aumenta la spinta verso l’orientamento al mercato degli agricoltori; produce un ulteriore spostamento, seppur parziale, delle risorse finanziarie dagli strumenti non selettivi (misure di mercato e pagamenti diretti), verso quelli selettivi, come gli interventi per lo sviluppo rurale e, in questo ambito, le cosiddette nuove sfide; introduce un programma di liberalizzazione irreversibile per un settore sensibile come quello lattiero-caseario, l’unico a non essere stato ancora interessato dal processo di demolizione dei classici strumenti di sostegno del mercato; produce un ulteriore incremento del grado di autonomia degli Stati membri ed infine rafforza il regime del pagamento unico aziendale che, come accennato, è il “piede di porco” necessario per la definitiva destrutturazione della Pac.
A tale specifico riguardo, mi sembra assai convincente l’interpretazione fornita da Buckwell che, come ci ricorda Sotte nel suo saggio introduttivo, considera il pagamento unico aziendale come “assistenza transitoria al cambiamento”. Nella fase riformatrice intermedia, gli aiuti disaccoppiati sono presentati come il risarcimento per la riduzione del sostegno. Poi nella fase finale che precede il tramonto della Pac, si passa alla loro eliminazione, anche per via della palese scarsa difendibilità.
E veniamo alla riforma della Pac per il dopo 2013. Sarà un passaggio cruciale, il cui esito dipenderà dagli orientamenti politici e in particolare dalla figura del prossimo Commissario all’agricoltura, dalle sensibilità e dalla incisività del ruolo del Parlamento europeo e dalle priorità dei governi nazionali. Le condizioni economiche generali a livello globale avranno pure una importante influenza, così come l’esito del negoziato del Doha round e la pressione esercitata dai vari gruppi di interesse (ambientalisti, opinione pubblica, media, consumatori, lobby agricole).
Sebbene sia difficile immaginare quali scelte prevarranno, è possibile formulare qualche attendibile ipotesi. Non sono ancora maturi i tempi per la rinazionalizzazione della Pac e per abbandonare la classica impostazione basata sui due pilastri. Ci sarà un ulteriore rafforzamento della politica di sviluppo rurale, almeno in termini relativi. Oggi, per ogni tre euro spesi nell’ambito del primo pilastro, c’è ne uno disponibile per la politica di sviluppo rurale, contro un rapporto di dieci ad uno degli inizi degli anni Duemila2000. Intravedo degli spazi di sopravvivenza per determinate misure di mercato, ma solo per assicurare un livello accettabile di safety net in alcuni settori sensibili. Infine, ci si deve aspettare il mantenimento del regime del pagamento unico aziendale, ma con importanti cambiamenti, in termini di metodo di calcolo degli aiuti, del loro livello assoluto e delle condizioni di concessione a favore dei beneficiari.
La manovra sui tale cruciale capitolo sarà nel segno della semplificazione e della maggiore equità e difendibilità degli aiuti disaccoppiati. Si dovrà trovare il modo per eliminare le differenze tra Paesi della sponda orientale ed occidentale dell’Unione europea. Ha poco senso mantenere in vita i diversi sistemi di applicazione oggi disponibili a discrezione degli Stati membri. Ritengo che l’introduzione di un unico modello di disaccoppiamento valido per l’intera Unione europea sia una soluzione alla quale ben difficilmente si possa prescindere. Probabilmente, la Commissione europea si eserciterà in uno sforzo di erogare in maniera più selettiva e finalizzata gli aiuti disaccoppiati, facendoli apparire più come remunerazione per la produzione di beni pubblici che come generica forma di sostegno del reddito degli agricoltori.
Non mi aspetto dal prossimo ciclo di riforma una svolta radicale nella tipologia di strumenti utilizzati nell’ambito della Pac, come quella che c’è stata agli inizi degli anni novanta, con i pagamenti diretti ed il set aside e,d in occasione della mid term review, con il disaccoppiamento. Le complicazioni potrebbero intervenire in funzione delle decisioni che saranno prese nell’ambito della definizione del bilancio pluriennale e, quindi, dell’entità complessiva delle risorse disponibili per il settore agricolo e della loro ripartizione tra le due fondamentali voci di spesa della politica di sviluppo rurale e del regime del pagamento unico.

Geremia Gios (Università degli Studi di Trento)

Vi sono almeno due elementi che fanno sì che la montagna rappresenti un laboratorio naturale nel quale analizzare le conseguenze delle politiche economiche ed in particolare delle politiche agricole. In primo luogo, dopo secoli di evoluzione relativamente uniforme la montagna italiana si caratterizza, negli ultimi decenni, per una crescente diversificazione (Batzing, 2005). In effetti, all’interno delle aree montane vi sono territori che presentano una velocità diversa nello sviluppo generale e in quello del settore agricolo. Tale velocità non sempre è strettamente correlata con l’altitudine. In secondo luogo, la montagna appare come lo spazio territoriale dove più evidente appare il limite. Sotto un certo profilo, la traduzione in linguaggio moderno della necessità di fare i conti con il limite o i limiti si ritrova nell’idea di sostenibilità. Nonostante vi sia un accordo pressoché unanime sull’importanza dell’attività agricola e forestale nelle aree di montagna, se consideriamo l’evoluzione della stessa negli ultimi anni è facile osservare come la medesima risulti in contrazione. Contrazione che è rilevabile sia in valori assoluti (numero di addetti, superfici coltivate) sia in relazione al peso che l’agricoltura di montagna presenta nei confronti di quella di pianura (Batzing, 2005).
Le cause di questa perdita d’importanza relativa vengono generalmente fatte risalire ai maggiori costi che produrre in montagna comporta. Maggiori costi che sono da ricollegare, alle difficoltà di ordine naturale e di natura strutturale che caratterizzano le aree di montagna.
Tuttavia, al di là degli aspetti relativi alla competitività delle produzioni è opinione comune che l’attività agricola che è stata alla base, in molti casi, del popolamento della montagna stessa, rappresenti una componente fondamentale per lo sviluppo di tali aree sia dal punto di vista produttivo sia sotto il profilo ambientale sia in relazione agli aspetti sociali. Proprio tale molteplicità di funzioni ha spinto a parlare, in relazione all’agricoltura di montagna di agricoltura multifunzionale. In effetti a partire dalla seconda metà degli anni Novanta il riferimento alle funzioni multiple dell’agricoltura (multifunzionalità) è diventato sempre più ricorrente nei documenti dell’Unione Europea e si sono altresì moltiplicate le iniziative scientifiche volte ad approfondire analiticamente aspetti teorici e operativi di questo concetto (Raffaelli, 2005).
La consapevolezza dell’emergere di fattori strutturali quanto mai determinanti nel frenare lo sviluppo dell’ agricoltura di montagna ha portato ad ipotizzare interventi specifici per rivitalizzare tali aree ed in particolare quelle più deboli. Com’è noto, tali interventi sono stati attuati a vari livelli: comunitario, nazionale, provinciale. I risultati si possono definire interessanti, ma in una certa misura contraddittori e non risolutivi. Infatti, da un lato taluni provvedimenti hanno ottenuto risultati significativi, dall’altro la distanza, all’interno della stessa montagna tra aree deboli e aree forti non è sicuramente diminuita. Quello che emerge con sufficiente chiarezza è che vengono ad avere scarsa incidenza nella riduzione delle disparità territoriali i provvedimenti di carattere generale che prevedono, per le aree montane, condizioni di relativo maggior favore. Presupposto di tali provvedimenti è, in generale, l’idea che la differenza tra montagna ed altre aree sia da ricondurre semplicemente al maggior costo conseguente le più difficili condizioni geomorfologiche. Ma in un contesto dinamico non è più così. Proprio la circostanza che la montagna sia differenziata e che, di volta in volta, i vincoli che entrano in funzione siano diversi, comporta la necessità di una notevole flessibilità nell’individuazione degli interventi più opportuni.
Un secondo aspetto che va sottolineato è che, a differenza di quanto si è portati a pensare, i provvedimenti di politica agricola in essere non favoriscono, in generale, le aree di montagna rispetto alle altre aree. Una diversa convinzione è favorita dall’enfasi che viene posta in relazione ai provvedimenti relativi alla montagna e da una sottovalutazione delle differenze esistenti tra sostegno visibile e sostegno effettivo. In effetti, se si pone attenzione agli effetti complessivi dal punto di vista della redistribuzione territoriale – in questo caso per area altimetrica – dell’intervento pubblico si arriva a conclusioni opposte a quelle che intuitivamente si sarebbe portati a sostenere. Così, secondo i risultati di una recente indagine (Tarditi et al, 2007), l’insieme dei trasferimenti pubblici per il settore agricolo (trasferimenti visibili più trasferimenti invisibili, questi ultimi collegati con la protezione dei mercati) risulta inferiore nelle aree di montagna rispetto a quelle di pianura. Tale affermazione conserva validità considerando il sostegno sia per giornata di lavoro, sia per unità di superficie agricola utilizzabile.
Non risulta, pertanto, vera l’ opinione comune (1) per cui all’interno del totale dei trasferimenti che vanno al settore agricolo la montagna sia avvantaggiata. In realtà, come già osservato, non è così. Secondo la citata indagine di Tarditi et al. (2007) i trasferimenti complessivi per zona altimetrica sono ripartiti in modo opposti a quanto ci si aspetterebbe di trovare: quelli per le aree di montagna sono molto più ridotti rispetto a quelli destinati alla pianuracome mostra la tabella 1 seguente.

Tabella 1 - Sostegno tra montagna, collina e pianura - Anno 2002

Fonte: Tarditi et al (2007)

Risulta, allora, necessario ripensare agli interventi di politica agricola per la montagna. Tale ripensamento deve tener conto delle specificità della montagna stessa. Il medesimo. Tale ripensamento deve basarsi su almeno cinque pressuposti: (a) aumento della partecipazione delle popolazioni locali nel definire gli obiettivi dello sviluppo; (b) applicazione di regole flessibili; (c) controllo delle risorse naturali da parte delle popolazioni locali; (d) adeguato progresso tecnico; (e) marketing territoriale. In relazione al primo aspetto potrebbe essere utile far passare tutti gli interventi di politica agricola nelle zone di montagna attraverso progetti Leader o strumenti similari. In relazione al secondo aspetto una serie di normative comunitarie dovrebbero prevedere deroghe specifiche per le zone di montagna. In relazione al terzo aspetto dovrebbero essere trovate forme di compensazione monetaria per le esternalità positive prodotte dall’agricoltura di montagna. In relazione al quarto aspetto è necessario favorire le innovazioni in grado di esaltare il ruolo delle risorse locali. Infine l’ultima condizione parte dalla constatazione che le condizioni di debolezza delle aree montane derivano, fra il resto, dalle difficoltà che tali aree incontrano nel definire o mantenere una specifica identità nei confronti dell’esterno (Salsa, 2007). Al fine di porre rimedio a tale debolezza possono essere utilizzati una serie di concetti e di azioni messe a punto nell’ambito del marketing territoriale. In questa logica la creazione di un marchio relativo ai prodotti di montagna può consentire un significativo passo in avanti.

Francesco Musotti (Università degli Studi di Perugia)

Riflettere sulle prospettive di più lungo periodo della politica Ue di sviluppo rurale comporta almeno un paio di giri ricognitivi. Il primo, di natura strettamente definitoria, sulla nozione stessa di politica di sviluppo rurale e il secondo sul percorso strategico che, all’interno dell’Unione europea, si è snodato a partire dalla riforma dei Fondi strutturali degli anni Ottanta. Due giri, dunque, ben distinti sul piano concettuale, ma intimamente connessi, perché la messa a fuoco del primo è necessaria allo svolgimento del secondo.
La nozione di politica di sviluppo rurale costituisce giocoforza un artefatto problematico, difficile e diciamo pure ambiguo, perché si colloca all’intersezione di almeno tre diversi orizzonti della scienza economica: quelli dell’economia regionale mainstream, dello sviluppo locale e dell’economia agraria.
Se per sviluppo rurale, empiricamente, non si può non intendere il cambiamento socio-economico dei luoghi rurali, e in particolare, un cambiamento che sui caratteri della ruralità faccia in una certa misura e in un certo modo leva (trasformandola-conservandola), è del tutto scontato che esso formi oggetto di studio tanto per l’economia regionale mainstream, chiamata così a esplorare un terreno complementare a quello della urban economics, quanto per l’ambito teorico molto più recente dello sviluppo locale, derivante da una robusta generalizzazione della distrettualistica, ovverosia della conoscenza dei distretti industriali, italiani in primo luogo (Becattini, Bellandi, Dei Ottati, Sforzi, 2001), ma non soltanto italiani.
Per quanto è vero che nei luoghi rurali il peso dell’agricoltura sia relativamente grande, è non di meno scontato un approccio allo sviluppo rurale che si fondi sul punto di vista (settoriale) dell’economia agraria. In specie, dell’economia agraria quale si delinea attraverso la crescente contaminazione con l’apparato teorico dell’economia pubblica, per spiegare un’agricoltura sempre più orientata verso l’offerta di beni pubblici e la cura dei commons e quindi a conservare i saperi contestuali (incorporati soprattutto nei prodotti ad elevata tipicità), a salvaguardare gli equilibri idrogeologici, a presidiare la varietà biologica, a gestire-produrre-rendere fruibili le amenities paesaggistiche, a contribuire tanto alla salubrità delle risorse naturali quanto alla salute dei consumatori. In altri termini: se gli ambienti rurali si distinguono per il dominio dello spazio verde, il loro sviluppo (sostenibile) non può non avere, come vero e proprio fulcro, l’agricoltura, la cui vitalità economica e tenuta demografica di quello spazio rappresentano l’ovvia matrice.
Ma quali prescrizioni di policy derivano circa il mondo rurale da questi tre possibili approcci?
La politica regionale mainstream, attenta ai dislivelli con cui lo sviluppo si presenta e quindi interessata alla ruralità per quanto essa costituisca sinonimo di arretratezza, da un lato propone pratiche redistributive del reddito sic et simpliciter (breve periodo) e dall’altro legittima le agevolazioni agli investimenti laddove gli stessi sarebbero scoraggiati dal mercato (espansione della base produttiva - lungo periodo).
La scuola dello sviluppo locale, invece, parte proprio dal rifiuto della sinonimìa fra ruralità e arretratezza ed esplora i requisiti dei modelli di sviluppo delle aree rurali più avanzate per stimolare la formazione di analoghi requisiti nelle altre e, dunque, l’implementazione di investimenti concepiti in un disegno coerente e mirato di cambiamento delle realtà, piuttosto che al servizio di meccanismi agevolativi sostanzialmente automatici.
La politica agraria che, stante la sua natura distributiva e redistributiva (natura profondamente keynesiana come ci insegna la scuola francese della regulation), sostiene le aziende a prescindere dal loro radicamento territoriale, dovrebbe invece ampliare il focus (sia di breve che di lungo periodo) sui luoghi rurali e a svantaggio di quelli più urbani, dove, tendenzialmente, con tutte le eccezioni del caso, si colloca l’agricoltura cosiddetta omologata, ovverosia conformata ai modelli organizzativi e ai saggi di rendimento delle attività industriali (Basile, Cecchi, 2001, pp. 87-111).
Nel caso dell’Ue, la riforma dei Fondi strutturali introdotta dal primo “pacchetto” Delors” nel 1988 e sviluppata dal secondo nel 1993, e la riforma Mac Sharry del 1992 avevano messo in piedi una complessa “macchina” che, in qualche modo, adoperava tutte e tre le opzioni.
Il complesso di misure riguardanti le aree abbracciate dall’Obiettivo 5b, che si potevano avvalere di tutti e tre i Fondi disponibili (Fesr, Fse e Feoga) componevano una linea diretta di politica regionale convenzionale per i territori rurali a più basso reddito. E l’iniziativa Leader, sostenuta ugualmente da tutti tre i Fondi, rendeva addirittura possibile una prima sperimentazione di pratiche ispirate alla filosofia dello sviluppo locale. La riforma Mac Sharry, attraverso le misure cosiddette di accompagnamento dei regolamenti 2078/92 (programmi agro-ambientali) e 2080/92 (programmi di forestazione), che cercavano di imprimere una curvatura in senso ambientale all’attività agricola (meglio, al presidio agricolo dei territori), incastravano altri tasselli dentro il “mosaico” dello sviluppo rurale, perché le risorse fondiarie beneficiate o da incrementare (pascoli, foreste, terreni a vocazione produttiva biologica, superfici abbandonate) erano relativamente più presenti nei luoghi a minore pressione antropica e, quindi, tendenzialmente più rurali.
Nella seconda parte degli anni Novanta, con tutte le “frizioni” e “ruvidezze” istituzionali dovute alla sua novità, questo insieme di politiche poteva vantare un bilancio non effimero e la Commissione organizzò a Cork (1996) una Conferenza che definisse per il futuro la sua estensione a tutte le regioni dell’Unione (Saraceno, 1999).
La storia, viceversa, è andata molto diversamente. Cork, in effetti, ha segnato la chiusura di una vera stagione di riforme e l’innesco della controriforma (Musotti, 2006). Paradossalmente, il programma in dieci punti che ne uscì funzionò da catalizzatore degli interessi costituiti che le riforme avevano già eroso o potevano erodere (Saraceno, 1999). Da un lato, le organizzazioni professionali agricole (e le correlate “entrature” nella DG-agricoltura), che temevano il ridimensionamento della Pac a sezione di una politica regionale (intrinsecamente multisettoriale). Dall’altro, le amministrazioni centrali (nazionali e regionali), per le quali il metodo di governance decentrato e cooperativo dell’iniziativa Leader era come il fumo negli occhi.
Di più, dalla Conferenza prendeva forma l’ipotesi, assai infelice, di riunire tutto ciò che si definiva sviluppo rurale in un unico strumento di programma (su scala regionale), finanziato da un unico Fondo. Così la Direzione delle politiche regionali, intravedendo il nascere di una politica territoriale fuori del suo controllo, si aggiunse a tutti gli altri sostenitori della controriforma. L’iniziativa anti-Cork delle organizzazioni agricole, consapevoli comunque che la vecchia Pac fosse sempre meno legittimata ad assorbire una grande quota del budget dell’Unione e che una politica agricola per lo sviluppo rurale staccata dalle altre sarebbe stata dominata dalla loro influenza, si materializzò prima in sede di elaborazione di Agenda 2000 e poi con gli accordi di Berlino per i regolamenti del nuovo periodo di programmazione. Poiché lo sviluppo rurale si basa, per definizione, su un delicato rapporto fra substrati ambientali e attività dei gruppi umani in essi insediati e organizzati, l’idea-forza fu quella di rilanciare col massimo vigore il processo di transizione, avviato dalla riforma Mc Sharry, da un’agricoltura produttivistica ad un’altra che si facesse carico di presidiare la sostenibilità dello “spazio verde”. E di puntare ad una rottura in due segmenti di quella che era stata sino allora la politica rurale: uno, agrario, che avrebbe assorbito tutta in sé la definizione di rurale, e un secondo, extra-agrario, da consegnare alle altre politiche strutturali, finanziate da Fse e Fesr.
Fuori delle regioni Obiettivo 1, questo nuovo assetto doveva sostituire tutti gli interventi che negli Obiettivi 5a e 5b avevano riguardato l’agricoltura, fondendoli in una riorganizzata politica strutturale a robusto indirizzo multifunzionale, le cui numerose misure confluivano dentro un nuovo strumento di programmazione regionale: il Piano di Sviluppo Rurale (Psr), finanziato esclusivamente dal Feoga, addirittura tramite la sezione Garanzia, dotata ovviamente di meccanismi burocratici più snelli, e che copriva in modo indistinto la regione proponente, ossia senza specificazioni territoriali. Così tutta la politica extra-garanzia del settore agricolo, sotto, appunto, l’etichetta di sviluppo rurale avrebbe reso più presentabile, agli occhi del contribuente, la stessa Pac, offrendole un secondo pilastro. Gli interventi che all’interno dell’Obiettivo 5b avevano interessato la popolazione non agricola delle aree rurali erano spostati in un nuovo Obiettivo 2, a “concorrere” con quelli per altre aree, non meglio definite che “in riconversione socio-economica”, di declino industriale, o di disagio urbano. Anche se le Regioni fossero riuscite, nei loro programmi, a riservare per le aree rurali una porzione equa di risorse, non c’erano nitide premesse perché il loro impiego avvenisse secondo logiche coordinate con l’uso dei mezzi finanziari allocati nei Psr.
L’iniziativa Leader veniva a sua volta resa coerente con il nuovo regime: riproposta in versione Leader+, avrebbe continuato a sperimentare il principio di integrazione in una logica intersettoriale ma, per le sempre invocate esigenze di semplificazione tecnico-burocratica, si sarebbe avvalsa di una fonte di finanziamento unica: il Feoga-orientamento. Il ciclo di Programmazione 2007-2013 ha consolidato e portato avanti tale controriforma. Con l’assorbimento del vecchio Obiettivo 2 nel nuovo obiettivo “Competitività regionale e occupazione” è stato cancellato ogni residuo di indirizzo territoriale ex-ante. E riguardo allo sviluppo rurale-secondo pilastro della Pac, si è semplificato il vecchio doppio regime (regioni Obiettivo1 e altre regioni) in un regime unico, fondato sulla generalizzazione del Programma (ex Piano) di sviluppo rurale (Prosr) e sul suo finanziamento tramite un Fondo costituito ad hoc, il Feasr, subentrante al Feoga-orientamento. Cioè a dire: lo “sganciamento”, dal resto delle politiche strutturali, già sperimentato altrove, è stato esteso alle regioni che nel ciclo 2000-2006 appartenevano all’Obiettivo 1 e a pieno titolo piuttosto che di politica di sviluppo rurale, sarebbe molto più appropriato parlare e ragionare, come si accennava prima, di una sua drastica riduzione e dunque di politica agricola per lo sviluppo rurale. Le prospettive, oltre il 2013, su cui Sotte ci invita a riflettere sono, a mio avviso, ancora peggiori. Se è vero che la crisi in cui l’economia mondiale si è avvitata avrà, verosimilmente, una ricaduta non favorevole sulle risorse disponibili, in sede Ue, per le politiche strutturali (a vantaggio di quelle congiunturali) e se è vero che l’Health check ha prospettato per il secondo pilastro un ampliamento di funzioni (in tema di cambiamenti climatici, energie rinnovabili, gestione delle risorse idriche, declino della biodiversità) che potrebbe sensibilmente deviarlo dalla sua configurazione attuale (Mantino, 2008).
A Cork lo sviluppo rurale è diventato (politicamente) un fantasma (Saraceno, 1999). Adesso mala tempora currunt anche per il fantasma!

Roberto Pretolani (Università degli Studi di Milano)

Le domande poste dall’articolo di Sotte (Agriregionieuropa, n.15) e le risposte fornite da Sotte stesso e nei contributi dei colleghi intervenuti nel Forum hanno acceso un dibattito molto interessante sulla situazione attuale e sulle prospettive future della Pac. A questo dibattito vorrei aggiungere alcuni temi, sinora trascurati, che a mio avviso costituiscono, invece, elementi chiave per il futuro.
Prima di parlare del dopo 2013, vorrei però brevemente rispondere alla prima domanda di Sotte (l’Health check ha completato la riforma Fischler?).
La risposta non può essere che positiva, tenendo anche conto che alcune decisioni adottate a fine 2008 derivano da proposte di Fischler non approvate nel 2003. Si può, con buona probabilità, ritenere anche che l’Health check non solo abbia completato le decisioni prese dal 2003 in avanti ma costituisca il capolinea del processo di completa riforma dei meccanismi di sostegno iniziato da MacSharry nel 1992. Semplificando, forse in misura eccessiva, si potrebbe dire che l’Health check ha completato il processo di disaccoppiamento del sostegno che prima del 1992 era totalmente accoppiato e che dal 1993 in poi è passato attraverso fasi di progressivo disaccoppiamento. Il cammino per cambiare completamente il volto della Pac, sia del primo che del secondo pilastro, è stato però sin troppo lungo e faticoso, anche a causa delle resistenze da parte delle lobby dei beneficiari, come hanno sottolineato alcuni colleghi, e credo che il risultato cui si è giunti non corrisponda alle necessità odierne.
L’impressione è che oggi la Pac manchi di un disegno strategico (la continua ricerca delle giustificazioni della spesa ne è il sintomo più evidente) e che le decisioni vengano spesso prese in ritardo. Cito due esempi a tale proposito: il primo è l’abolizione delle quote latte, misura che condivido totalmente ma che è stata presa più sull’onda di una favorevole congiuntura di mercato che sulla base di affidabili valutazioni di scenario; il secondo esempio è quella della abolizione del set-aside, il riposo obbligatorio dei terreni, è stata a mio avviso una delle misure più assurde di tutta la storia della Pac, invisa ai produttori agricoli e a quanti conoscono i problemi della sottonutrizione di vaste aree del pianeta, tanto che si è tentato giustificarla anche con motivazioni ambientaliste; anche in questo caso la decisione prima di sospendere e poi di abolire il set-aside è stata assunta sulla base di un segnale di mercato, durato pochi mesi, e non sulla base di considerazioni di respiro ben maggiore.
Considerare l’Health check come capolinea di un percorso iniziato circa venti anni orsono comporta da parte mia una risposta negativa alla seconda domanda posta da Sotte (se l’Health check abbia indicato una soluzione per il futuro della Pac). Premetto che la considerazione negativa non è riferita al fatto che l’Health check possa essere una risposta, forse anche sostenibile in termini di risorse di bilancio post 2013, ma che a mio parere non può essere la risposta adeguata ad una situazione sociale, economica, culturale che a livello europeo e mondiale è fortemente mutata nell’ultimo ventennio e che richiede un grande ripensamento degli obiettivi, delle finalità dell’Ue e della Pac e, di conseguenza, degli strumenti da utilizzare per conseguirli.
Molto opportunamente Frascarelli nel suo intervento in questo forum ha ricordato le motivazioni economiche e tecniche per le quali è necessario il controllo pubblico sul mercato dei prodotti agroalimentari (rigidità sia dell’offerta sia della domanda, frammentazione dell’offerta, stagionalità produttiva e continuità dei fabbisogni, legame tra produzioni e caratteristiche pedoclimatiche); queste motivazioni sono aspetti particolari di una motivazione più generale, non espressamente citata ma sottointesa, vale a dire che la disponibilità di cibo è risorsa indispensabile per l’umanità, al pari dell’acqua e dell’aria, di importanza certamente superiore alle risorse energetiche. Il motivo per il quale i padri fondatori della Comunità economica europea svilupparono per prime una politica energetica comune ed una politica agricola comune era proprio quello di garantire all’Europa una sovranità energetica ed una sovranità alimentare, cioè cibo e lavoro, risorse senza le quali la libertà e la democrazia non avrebbero potuto crescere e consolidarsi.
Oggi si discute molto, specie nei paesi europei più poveri di risorse naturali, di sovranità energetica mentre è ben più raro discutere di sovranità alimentare, almeno riferita ai paesi sviluppati. Prima di affrontare i motivi di tale assenza, è utile ricordare che il termine sovranità non è, non può e non deve essere, sinonimo di autarchia ma indica la capacità da parte di un paese o di un’entità sovranazionale, quale l’Ue, di controllare e gestire efficacemente un settore strategico per i propri cittadini e, contemporaneamente, di poter giocare un ruolo politico internazionale senza sottostare a ricatti su una risorsa essenziale.
Se ripercorriamo gli obiettivi assegnati alla Pac nel trattato di Roma, nell’art.39, che ancora oggi è in vigore come art.33 del trattato di Amsterdam, possiamo vedere come essi rispondessero effettivamente alla necessità di garantire la sovranità alimentare ai sei paesi fondatori e a quelli che si sono aggiunti successivamente. La sovranità alimentare, indicata con il termine “garanzia degli approvvigionamenti”, doveva contribuire a “stabilizzare i mercati”, a “garantire prezzi ragionevoli ai consumatori” e “redditi equi ai produttori agricoli”. Per raggiungere tutti questi obiettivi i costituenti europei hanno indicato come mezzo “incrementare la produttività dell’agricoltura”. Oggi appare necessario chiedersi se l’incremento della produttività debba essere ancora alla base della Pac, oppure si debba ritenere superato, come sostenuto anche da alcuni colleghi intervenuti nel forum.
Alla base del ragionamento di chi lo ritiene superato vi è, probabilmente, un equivoco terminologico che confonde “produttività” con “produzione” e che, di conseguenza, addebita al primo punto dell’art.39 tanti mali della Pac (in realtà conseguenti al sostegno illimitato alla produzione europea attraverso l’intervento). Personalmente ritengo indispensabile proseguire nell’incremento della produttività dell’agricoltura, così come dell’efficienza dei processi di trasformazione e di conservazione degli alimenti, ricordando che il miglioramento della produttività del lavoro resta obiettivo fondamentale in una società come la nostra dove l’occupazione in agricoltura è estremamente ridotta e il ricambio generazionale costituirà sempre più un problema nei prossimi lustri. Ma anche l’incremento della produttività della terra -non tanto in termini di rese, quanto di qualità dei prodotti- e, ancor di più, dei capitali impiegati (sementi, fertilizzanti, fitofarmaci, ecc.) appaiono inevitabili per poter contenere i costi di produzione e rendere più competitive le produzioni europee. Come esempio emblematico di tale tendenza, stiamo assistendo nell’ultimo decennio ad una grande diffusione delle imprese agro-meccaniche che, dominando migliaia di ettari con poche macchine, ridotta manodopera e impiego standardizzato di tecniche produttive, portano ai massimi livelli la produttività. Nel settore zootecnico assistiamo alla crescita della soccida e, più in generale, alla separazione dell’allevamento dalla gestione dei terreni. Tutti questi fenomeni di “industrializzazione” o “terziarizzazione” dell’agricoltura hanno in comune la separazione dell’attività di impresa da quella di conservazione del patrimonio fondiario e costituiscono un mutamento sul quale riflettere. La rendita fondiaria data dal pagamento unico aziendale (Pua), con tutte le sperequazioni tra aree geografiche e zone altimetriche legate ad un riferimento storico ormai lontano nel tempo, contribuisce alla separazione sopra evidenziata, anche se non ne è certamente causa. La sostenibilità dopo il 2013 del Pua, sia pure regionalizzato e ravvicinato per eliminare le distorsioni più palesi, appare da questo punto di vista problematica: il Pua rischierebbe con il tempo di divenire una pura rendita per i proprietari fondiari, sempre meno anche agricoltori, e di fallire quindi lo scopo di sostenere i redditi agricoli. Contemporaneamente, gran parte delle produzioni agricole europee diverrebbe standardizzata e più esposta alla concorrenza internazionale. Il mantenimento della sovranità alimentare comporta quindi la necessità di mantenere la sovranità da parte dei produttori sul capitale fondiario.
Ritengo che tale obiettivo sia ineludibile in un contesto mondiale che mostra segni di forte mutamento proprio su questo aspetto: gli esempi, sempre più numerosi, di acquisizioni di terre nell’Africa sub-sahariana da parte della Cina (ma anche del Sudafrica) o di realizzazione in paesi emergenti di insediamenti zootecnici intensivi basati sulle importazioni di cereali, sono emblematici dei cambiamenti che la produzione alimentare attraverserà nei prossimi decenni.
Ma occorre considerare anche un altro aspetto: secondo i demografi nel 2012, con un anno di anticipo sulle previsioni precedenti, la popolazione mondiale raggiungerà i 7 miliardi di persone e prima del 2050 potrebbe superare i 9 miliardi. Dei nuovi 2,5 miliardi di persone rispetto ad oggi, 1,5 abiterà in paesi in via di sviluppo e uno nei paesi meno avanzati, con un potenziale tragico accrescimento della sottonutrizione. Altro elemento demografico di grande importanza è costituito dal recente (2006) superamento della popolazione che vive in aree urbane rispetto a quella che vive in aree rurali, che comporta maggiori problemi di approvvigionamento alimentare. Questi fattori demografici, unitamente agli effetti dei cambiamenti climatici, rendono necessario incrementare nei prossimi decenni la produzione globale di cibo almeno del 50%, migliorando nel contempo la conservabilità degli alimenti e razionalizzando la loro distribuzione per ridurre le cospicue perdite odierne. Questi sono compiti che non possono essere affrontati dalle sole agenzie internazionali o dai singoli paesi, ma debbono essere oggetto di scelte condivise a livello globale, come sottolineato anche nel recente G20 a L’Aquila e verranno affrontati anche con la ripresa dei negoziati Wto.
La globalizzazione dei mercati è ormai tale da richiedere un governo mondiale concertato delle risorse agricole. La folle altalena dei prezzi dell’ultimo biennio ha evidenziato l’estrema vulnerabilità di equilibri sempre più precari. Le risposte protezionistiche di molti paesi nel periodo di prezzi elevati (rapidamente rientrate con il tonfo delle quotazioni, dato più che dagli incrementi di offerta che dalla crisi della domanda legata alla crisi economica generale) potrebbero tornare in auge quando il Pil mondiale ricomincerà a salire e, probabilmente, saliranno anche i prezzi degli alimenti. Nella recente enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI afferma che, oltre ad un imperativo etico, “eliminare la fame nel mondo è divenuto, nell’era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta”; sempre secondo il Papa: “è necessario che maturi una coscienza solidale che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani”. Credo che le due affermazioni sopra riportate siano condivisibili da tutti, indipendentemente dalla posizione religiosa, ma non è per nulla scontato che possano effettivamente guidare l’azione politica dei singoli paesi e a livello internazionale.
Tuttavia questo mi pare sia il livello della sfida post-2013: affermare come finalità della Pac il mantenimento della sovranità alimentare europea, in un contesto internazionale che favorisca il raggiungimento di tale sovranità nelle diverse aree geopolitiche, renderà necessario trovare strumenti nuovi, sia all’interno dell’Ue sia nei rapporti con i paesi terzi. Non è facile individuare quali possano essere questi strumenti, ma essi dovranno anzitutto favorire la conoscenza e l’innovazione per promuovere un efficace trasferimento tecnologico: in altre parole occorrono strumenti che valorizzino sempre più il capitale umano, l’uomo come soggetto e non come oggetto delle politiche. In tale direzione vanno alcune attuali misure dello sviluppo rurale, ma certamente lo sforzo, e la fantasia, per costruire la nuova Pac dovrà essere ben maggiore.

Giacomo Zanni (Università degli Studi di Ferrara)

Partecipo volentieri al Forum sulla Pac dopo l’Health check, organizzato da Agriregionieuropa, nella consapevolezza che chi interviene in una discussione già avviata ha l’obbligo di evitare di ripetere concetti già affrontati e di privilegiare gli aspetti non ancora esauriti dai contributi precedenti (Aa.Vv, 2009). D’altra parte, non intendo eludere una questione centrale, tra quelle emerse dal dibattito, ossia se le prospettive della Pac oltre il 2013 meritino oggi di essere radicalmente ridisegnate o se richiedano più semplicemente un adeguamento dello schema tracciato dalla riforma Fischler. Come è apparso chiaramente dal dibattito, la complessità delle tematiche coinvolte è talmente profonda da rendere piuttosto superficiale la sua mera riduzione alla dicotomia tra l’opzione del miglioramento in continuità versus quella della rottura con il passato. Insomma, non mi sembra il caso, rispetto a questo problema, di dividersi tra “apocalittici” e “integrati”. Pur tuttavia, mi trovo d’accordo con chi reputa che le ragioni del contributo pubblico all’agricoltura vadano oggi riformulate con chiarezza e individuate prioritariamente nella produzione di economie esterne positive di natura sociale e, soprattutto, ambientale.
Secondo tale impostazione, il pagamento unico generalizzato (Pua) sarebbe uno strumento piuttosto inadatto, nel lungo periodo, ad assolvere a questo compito specifico.
È stato avanzato anche un altro argomento “forte” a favore del mantenimento del sostegno pubblico dell’agricoltura, cioè quello motivato dagli squilibri, in termini di struttura, che tante agricolture europee presentano ancor oggi, rispetto agli altri settori economici. Mi sembra che anche questo tema, pur meritando una grande attenzione dalla futura Pac, non legittimi automaticamente la necessità della persistenza del Pua, pur nella sua versione regionalizzata. Per contrastare le debolezze strutturali, infatti, appaiono più promettenti strumenti diretti, quali gli interventi a favore del credito, dell’assicurazione, della concentrazione dell’offerta agricola e, soprattutto, dell’innovazione. A quest’ultimo proposito, recenti indagini (per esempio, quelle in corso del progetto comunitario Cap-Ire) evidenziano la crescente necessità di potenziare l’agricoltura produttiva, anche rispetto a quella multifunzionale, con particolare attenzione alle misure tendenti a creare nuova imprenditorialità e a diffondere l’innovazione tecnologica e gestionale presso le aziende agricole (Viaggi, 2009). In quest’ottica, il miglioramento del capitale umano, quale motore di crescita endogena, dovrebbe essere posto al centro dell’attenzione del decisore pubblico (De Devitiis e Maietta, 2009).
Condivido l’idea che serve gradualità nella sperimentazione e nell’avviamento di strade nuove. Appaiono però un po’ deboli le argomentazioni a favore di politiche agricole di lungo periodo improntate al “realismo”, cioè ancorate all’impostazione dominante nel passato. Esse mi sembrano poggiare più su un obiettivo di minimizzazione delle rimostranze dei gruppi di pressione beneficiari, che non sul razionale perseguimento di obiettivi politici trasparenti e sull’implementazione di misure economiche coerenti. Infine, il fatto che anche le misure del secondo pilastro siano state spesso applicate con scarsi risultati rispetto agli obiettivi deliberati, rappresenta una prova per convincere il decisore politico a riprogettarne il disegno e le modalità di applicazione, ma non mi pare contribuisca molto a corroborare la tesi di chi vede di buon occhio una reiterazione del Pua.
Limitandomi a queste poche osservazioni sulla questione generale, colgo l’occasione per sollevare un aspetto specifico finora poco trattato, che giudico piuttosto rilevante per la nuova riformulazione della Pac. Credo che in prospettiva futura sarà sempre più necessaria una forte integrazione delle politiche delle risorse idriche nel disegno delle politiche agricole. Il mondo agricolo deve infatti essere responsabilizzato rispetto all’idea che l’acqua è un bene strategico scarso e che lo sarà sempre di più, visti gli andamenti delle temperature. Il fatto importante è che l’agricoltura gioca una parte fondamentale in questo processo. Il 60% delle acque derivate dai bacini idrici europei è destinato alle aziende agricole e, per ogni metro cubo distribuito, l’80% è assorbito dalle colture o evaporato dal suolo. Oltre a questo aspetto quantitativo, è indubbio che l’agricoltura influisce in misura non irrilevante sulla qualità delle acque, mediante la gestione dei trattamenti antiparassitari e fertilizzanti.
Per tutti questi motivi, uniti alle crescenti necessità irrigue legate al cambiamento climatico (in Emilia-Romagna, per esempio, si stima un aumento del 20-30% negli ultimi 10 anni), emerge un bisogno di coordinamento tra le politiche di gestione dell’acqua con le politiche agricole, in misura molto maggiore rispetto a quanto realizzato nel passato. Già in occasione della riforma della Pac del 2003 le Direttiva sui nitrati e sulle acque sotterranee sono state incorporate nei meccanismi di condizionalità. Questa inclusione è stata il riflesso di una crescente aspettativa dei cittadini europei nei confronti degli agricoltori: ricevere denaro pubblico derivante dai contribuenti significa accettare responsabilità pubbliche e una di queste responsabilità contempla lo sforzo di gestire in modo più appropriato le risorse idriche.
È pur vero che già l’attuale Pac sostiene i produttori agricoli in tale direzione, mediante talune misure di sviluppo rurale. Le aziende agricole sono incentivate ad andare oltre i minimi di legge attraverso i pagamenti agroambientali e sono previsti aiuti per conformarsi a nuovi standard, come quelli derivanti dalla Direttiva quadro sulle acque. Alcuni di questi orientamenti sono stati recentemente incorporati all’interno dell’Health check, di cui la condizionalità è esplicitamente un elemento significativo. Una novità in questo senso è l’obbligo di mantenere “fasce tampone” tra i campi coltivati e i corsi d’acqua. Un secondo requisito introdotto è la necessità di dimostrare di essere in regola con le autorizzazioni all’irrigazione.
Purtroppo si tratta di norme la cui incisività è tutta da dimostrare e che per di più saranno a regime solo nel 2012. La Direttiva quadro sulle acque, come è noto, è ben più ambiziosa. Coerentemente con la volontà politica dimostrata inserendo, nel novero delle sfide della Pac, l’obiettivo finalizzato della protezione delle risorse idriche, occorre che in futuro siano incorporate in essa molte altre regole di buona gestione idrica. Un grave ostacolo in questa direzione è l’attuale grado di recepimento della Direttiva, che risulta ancora molto basso. Vi sono oggettive difficoltà a condizionare i pagamenti degli agricoltori al rispetto di regole non completamente rodate e di programmi ancora incompleti.
Non è certo il caso di rallegrarsi per i ritardi di recepimento, nei quali il nostro Paese peraltro vanta un malinconico primato. Non può sfuggire, infatti, che in futuro la soluzione del problema idrico sarà probabilmente una delle chiavi principali anche per salvaguardare il reddito degli agricoltori.
Se questo è vero, è urgente la messa a punto e la sperimentazione di misure in grado di dare corso a questi obiettivi, al fine di concretizzare le future modulazioni a favore del secondo pilastro, specificamente orientate ai problemi delle risorse idriche.
È sempre più produttivo affrontare i problemi con tempestività, rigore e spirito innovativo piuttosto che indulgere a compromessi di retroguardia. Perciò, un ri-orientamento della Pac in questo senso potrà essere fronteggiato solo con istituzioni nazionali adeguatamente preparate. Solo per fare un esempio, occorre avviare al più presto il riordino dei Consorzi di Bonifica, adeguandone la governance e il management al fine di operare secondo i criteri di sussidiarietà ed economicità dettati dalla Direttiva quadro sulle acque. In particolare, occorre adeguare la perimetrazione territoriale, l’organizzazione e le tecnologie di distribuzione e di controllo.
Le leggi, gli incentivi e la buona volontà non sono sufficienti, se manca la possibilità di verificare l’ottemperanza delle regole. È certamente da condividere l’opinione, espressa di Mariann Fischer Boel, che nella gestione dell’acqua la carota deve avere la priorità sul bastone. Ma è altrettanto vero che il rispetto della condizionalità, come elemento a giustificazione del sostegno pubblico, non può pretendere di assumere alcun peso, se privato della ragionevole certezza che le norme di buona gestione idrica siano rispettate.

Erik Fahlbeck(Sveriges lantbruksuniversitet, Uppsala, Svezia)*

 

English Version

 

Raccolgo in questa nota alcune riflessioni sul testo di Sotte e Chiodo, con i quali concordo per la maggior parte delle idee espresse. Questa condivisione della loro analisi origina probabilmente dal fatto che, come economisti agrari, condividiamo gli stessi punti di vista, poiché impostiamo le nostre analisi e interpretazioni, anche riguardo alla Pac, sulla teoria economica.
In altre parole, credo che l’analisi che essi presentano costituisca sia una buona descrizione delle problematiche attuali della Pac, sia del modo in cui, con il cosiddetto Health check, esse sono state affrontate. Sono completamente d’accordo sul loro giudizio sulla riforma Fischler. Partita soltanto come riforma di medio termine, essa ha prodotto dei risultati anche più interessanti di quelli che ci si sarebbe potuti aspettare (tuttavia bisogna essere consapevoli del fatto che, all’interno della Commissione, si stava lavorando da tempo per cambiare la Pac verso il disaccoppiamento).
Quantomeno è dal tempo della riforma McSharry che da più parti si esprimeva l’intenzione di eliminare la complessa regolamentazione di mercato e i sostegni alla produzione, e credo che Sotte avrebbe potuto sottolineare meglio questo legame con la riforma del 1992. Personalmente ho trovato particolarmente equilibrata l’analisi nella parte che fa riferimento allo sviluppo rurale ed in particolare alla politica agro-ambientale e credo che Sotte sollevi una questione importante quando sostiene che la differenza più rilevante fra i diversi stati membri stia nella capacità di adattarsi e riorganizzarsi rapidamente per attivare nuove iniziative e usare bene i relativi fondi. Inoltre credo che il testo di Sotte offra degli spunti per la discussione e per degli ulteriori approfondimenti in merito alla politica di sviluppo rurale, specie quando richiama la necessità di valutare le politiche in base alla loro efficienza ed efficacia e sugli effetti concreti che producono e non in base ad assunzioni ideali e sulla semplice indicazione degli effetti che si desidererebbero. Si dovrebbe adottare anche in questo caso quella metodologia che nella scienza medica si definisce “medicina basata sulle prove di efficacia”.
Quanto alle decisioni assunte con l’Health check, mi lascia perplesso soprattutto la scelta di ridurre i pagamenti ai beneficiari che ricevono maggior sostegno (oltre i 300 mila euro, ndt), poiché le motivazioni e gli scopi del sostegno non sono correlati alla capacità finanziaria delle imprese agricole. D’altra parte, è possibile che le imprese reagiscano a questa misura modificando le proprie dimensioni, frammentandosi o riorganizzandosi. Si tratterebbe, in tal caso di modifiche conseguenti più a stimoli politici, che economici e per questo motivo probabilmente non positive né per la società, né per la competitività.
Inoltre credo che Sotte abbia una valutazione sul futuro dell’Ue più pessimistica della mia, quando discute della reazione alla crisi finanziaria. Nella discussione in Svezia su questi temi, mi sembra che il pericolo che nell’Ue la Pac si dissolva, non sia emerso. Condivido invece il concetto espresso da Sotte sul rischio di isolamento dell’agricoltura. Invece di difendere alcuni privilegi che l’attuale politica assicura loro come residuo delle scelte del passato, è particolarmente importante e di sicuro un vantaggio per l’agricoltura che gli stakeholders agricoli aprano il dibattito su quale ruolo avrà il settore agricolo nella società futura, nel quadro dello sviluppo complessivo dell’Unione.
Sono completamente d’accordo infine quando si critica il pagamento unico aziendale e si sostiene che esso dovrebbe essere abolito, dal momento che si capitalizza nei prezzi della terra, che attualmente manca di legittimazione e che il settore agricolo, nel lungo periodo, non trarrà beneficio da un suo mantenimento. Le lobby agricole potrebbero invece trarre vantaggio dal fatto di concentrarsi più chiaramente nel formulare una visione dell’agricoltura europea senza pagamento unico aziendale. Altrimenti il rischio è, esattamente come viene preconizzato, che il budget riservato alla Pac sia tagliato in modo sostanziale in sede di definizione del bilancio, senza che si sia pensato ad azioni e misure alternative per aiutare l’agricoltura ad adeguarsi ad essere più pronta ad affrontare le sfide del futuro.

Note

*Traduzione di Silvia Coderoni
(1) Così Franz Fischler, Commissario per l’agricoltura dell’Unione Europea rispondeva ad un’interrogazione parlamentare nel 1996: “Da oltre 20 anni ormai la Comunità conduce, con il sostegno di tutti gli Stati membri, una politica attiva a favore dell’agricoltura di montagna e delle zone svantaggiate. Nella Comunità a quindici sono considerate zone agricole svantaggiate 78 milioni di ettari di terreni agricoli, di cui poco più di 27 milioni sono situate in zone montane”.

Riferimenti bibliografici

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Commenti

Ottimo. Estremamente qualificato il partèrre degli autori ed i contenuti che essi hanno rappresentato.

Commento originariamente inviato da 'Santoni' in data 08/10/2009.