Health check e la PAC dopo il 2013 (parte 2)

Health check e la PAC dopo il 2013 (parte 2)
a Università di Padova, Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali
b Università di Pisa, Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali
c Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA)
d Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA)
e Università Cattolica del Sacro Cuore, Dipartimento di Economia Agroalimentare

Questo articolo collettivo raccoglie una seconda serie di contributi alla riflessione sulle conclusioni dell’Health check e sulle prospettive della Pac per il dopo-2013, introdotta da un editoriale di Franco Sotte pubblicato nel numero 15 di Agriregionieuropa (Sotte, 2008). Nel numero scorso abbiamo già pubblicato le reazioni di altri autorevoli esperti (Cioffi, Corsi, De Filippis, Frascarelli, Salvatici, Scoppola, 2009). La varietà e la qualità delle posizioni espresse stimola ulteriori riflessioni e approfondimenti. Agriregionieuropa è particolarmente interessata ad offrire il suo spazio per questo confronto, auspicando che possa coinvolgere anche altri soggetti. Con il nuovo Parlamento europeo; presto con la nuova Commissione europea e con l’entrata in vigore auspicabile del Trattato di Lisbona, il dibattito sulla futura Pac avrà nuovi protagonisti e nuove regole. È questo il modo migliore per non giungere impreparati all’appuntamento.

Vasco Boatto (Università degli Studi di Padova)

La recessione mondiale in atto sta mettendo a dura prova la capacità di tenuta economica e sociale di gran parte dei paesi e pone seri interrogativi sul modello di sviluppo sin qui adottato (Costi, 2008). La discussione coinvolge tutti i livelli istituzionali da quelli internazionali a quelli comunitari e nazionali e tutti gli ambiti dell’azione economica dai mercati monetari a quelli dei beni di consumo e investimento, ai servizi, e tocca profondamente le regole del loro funzionamento. Le questioni poste riguardano principalmente gli aspetti relativi all’analisi delle cause, rispetto alle quali si sono delineati alcuni indirizzi interpretativi prevalenti, mentre rimane aperta la discussione sulle soluzioni da adottare e, conseguentemente, la valutazione sulla durata del fenomeno. In particolare, per quanto attiene all’esame dei riflessi che la crisi può determinare sui mercati agroalimentari e più in generale sulle possibili ricadute sull’economia agricola, si riscontra la mancanza di un chiaro quadro operativo. Ne è un esempio il modo con cui si sta affrontando a livello comunitario l’applicazione dell’Health check, e le prime proposte sul futuro della PAC dopo il 2013 (De Filippis F., 2009).
In particolare la discussione in corso dà per scontato che i mercati agroalimentari possano evolvere secondo una dinamica di fondo sostanzialmente immutata rispetto alla crisi (Commissione Europea, 2009). È questo invece un approccio che non si ritiene opportuno seguire, considerando che le attuali difficoltà dell’economia siano, come molti osservatori sostengono, il portato di una crisi di sistema. In questa prospettiva andrebbero quindi ridiscusse alcune posizioni assunte dell’Ue in ordine al ruolo che essa riconosce all’agricoltura nello sviluppo economico dei paesi membri e più in generale di quello mondiale. Qualche spunto in questa direzione è emerso anche nel recente vertice dei ministri dell’agricoltura G8 allargato poi ai G16 di Cison di Valmarino. Al riguardo, è stata affermata la necessità di un maggior coordinamento a livello internazionale delle istituzioni preposte alla gestione della politica agricola proprio per mitigare gli effetti dovuti alla crisi e soprattutto per permettere di conseguire senza tentennamenti alcuni obiettivi fondamentali per l’umanità quali la sicurezza alimentare, lo sviluppo sostenibile dell’agricoltura, sia dal punto di vista economico sociale che ambientale, e la lotta alla fame nel mondo. La presa di posizione dei ministri agricoli lascia intravedere il riavvio della discussione in sede Wto ed una conclusione rapida del negoziato.
Il rafforzamento della dimensione internazionale contrasta invece con i segnali che si colgono sul versante comunitario dove il condizionamento delle vicende interne dei singoli stati e i problemi del nuovo trattato hanno il sopravvento sulle questioni di merito delle singole materie, compresa quella agricola. Nei fatti, le cose sembrano muoversi in modo da mantenere le mani libere per azioni protezionistiche variamente mascherate. In questo clima, sembra prevalere lo spirito del quaeta non movere, ossia di una politica del minimo rincrescimento. La crisi in atto dovrebbe spingere a ricercare da subito una soluzione ad alcune questioni di fondo, per il futuro della politica agricola comune, come quelle del finanziamento e della giustificazione degli interventi, senza attendere la scadenza naturale dell’attuale programmazione.
Se, infatti, come molti osservatori ritengono, dati i vincoli del patto di stabilità e sviluppo, si andrà inevitabilmente incontro ad un quadro economico di rigida disciplina di bilancio, le risorse disponibili si ridurranno inevitabilmente in modo più ampio rispetto a quanto previsto. Aumenteranno quindi le difficoltà operative per l’azione comunitaria anche per la diminuita disponibilità degli operatori pubblici e privati a cofinanziare la politica europea. Oltre a ciò, proprio perché le risorse pubbliche disponibili tenderanno a rarefarsi, si accentuerà ancor più di quanto non accada oggi la questione della giustificazione della spesa comunitaria a favore del settore agricolo.
In questo quadro, gli interventi dovranno essere molto più selettivi del passato sia perché vi sono meno risorse, sia perché diminuisce la disponibilità al cofinanziamento. Probabilmente anche i criteri di scelta dovranno mutare dando una maggiore importanza all’efficacia delle risposte, in termini di ricadute che interessano la collettività rispetto ad iniziative che presentano un elevato beneficio per il privato. Questo porta a privilegiare progetti che hanno un’ampia base di partecipazione collettiva. In questa ottica l’intervento comunitario dovrebbe cercare di assumere sempre più i connotati di un intervento finalizzato al sostegno della componente “di bene pubblico” (valore di esistenza) delle attività agricole più che alla parte economica delle produzioni, già regolate dal mercato.
Operando in questo modo si soddisfano due esigenze: permettere di poter avere maggiore condivisione da parte della pubblica opinione, secondariamente sostenere interventi che, pur avendo una grande rilevanza economica di carattere generale, non trovano un sostegno diretto dal mercato. Rientrano in questo ambito una vasta gamma di attività come quelle legate alla multifunzionalità, che già ora sono considerate dalla politica agricola comune come ambiti di attività da privilegiare. Non si tratta quindi di proporre nulla di nuovo ma piuttosto di selezionare tra le diverse potenziali aree di intervento quelle che rivestono un maggior grado di priorità.
Si dovrebbe inoltre cercare di adottare una agenda con obiettivi flessibili che permetta di adeguare le decisioni di intervento alle condizioni di contorno e alla effettiva disponibilità di risorse, piuttosto che seguire un programma prestabilito.
Seguendo questo approccio, nell’applicazione dell’Health check andrebbero privilegiate le opzioni che lasciano maggior grado di flessibilità e comunque quelle che risultano coerenti con uno scenario che anticipa l’evoluzione dell’economia agricola che si ritiene possa esserci dopo il 2013. Si darebbe in questo modo maggiore coerenza all’azione politica e, al tempo stesso, si offrirebbero anche agli imprenditori elementi utili di scelta, proprio in queste delicata fase economica.
In merito poi agli ambiti dell’azione comunitaria, alla luce della prevedibile dotazione di risorse, si ritiene utile privilegiare due aree di intervento. La prima è rivolta a favorire il mantenimento delle risorse naturali, basilari per l’esercizio dell’agricoltura: dall’acqua al terreno, dalla biodiversità alla fertilità dei suoli e in definitiva alla salvaguardia e tutela del territorio. Si tratta di interventi che le imprese agricole incontrano difficoltà a realizzare perché non danno reddito e comunque il rendimento è modesto. Per contro, essi assumono un’importanza rilevante per la collettività soprattutto in una realtà come quella italiana che si caratterizza per un territorio estremamente fragile dal punto di vista della sua conservazione. In questo senso, nell’applicazione dell’Health check andrebbe quindi riconosciuto un impegno significativo per le misure a favore della conservazione e tutela dello spazio rurale. In particolare, andrebbero rafforzate le misure per la cura dei fondi agricoli e per il miglioramento dell’ambiente, aumentando i pagamenti per evitare l’abbandono dei territori. E’ inoltre opportuno, in fase di revisione del piano strategico di sviluppo, focalizzare l’obiettivo in funzione delle esigenze della tutela e salvaguardia del territorio e delle risorse naturali. Andrebbe infine delineato un quadro organico di interventi di medio termine sempre rivolto alle componenti agroambientali e territoriali, anche con la quantificazione delle risorse necessarie, in modo da supportare e orientare la discussione del dopo 2013, che risulta di fatto già avviata come attesta la presentazione della recente proposta del Ministro dell’agricoltura francese Michel Barnier (Ministère de l’agriculture e de la pèche, 2009).
L’altro punto di intervento che si ritiene debba essere ugualmente posto in massima evidenza nell’agenda agricola comune riguarda gli aspetti relativi alla volatilità dei mercati agricoli, che è risultata molto elevata negli ultimi mesi e che sembra destinata a crescere nel medio termine. L’aumento del rischio per i produttori penalizza nel breve periodo la dimensione produttiva e nel medio-lungo termine i flussi di investimenti e quindi la tenuta del sistema produttivo. Una prima risposta da dare va nella direzione della trasparenza dei mercati: migliorando la diffusione e l’accesso all’informazione e accrescendo la dotazione dei servizi e della logistica. A questo scopo andrebbero utilizzate le risorse dell’art. 68 previste dall’Health check. Un’ulteriore linea di azione andrebbe rivolta alla messa a punto di nuovi strumenti per il contenimento dei rischi come quelli assicurativi, che non interferiscono con il funzionamento del mercato, e quindi sono compatibili con le regole del commercio internazionale, di cui molto si è scritto, ma poco si è fatto (Cafiero, Capitanio, 2007). Si potrebbero sfruttare le esperienze già fatte da diversi paesi. Esse evidenziano i vantaggi economici per i produttori ma anche le ricadute positive per la tenuta del sistema produttivo, in particolare per le produzioni di maggior valore più esposte alle fluttuazioni dei prezzi. Trattandosi di un intervento che potrebbe interessare una vasta platea di produzioni agricole di qualità, potrebbe trovare una buona condivisione da parte dell’opinione pubblica.
Va da sé che comunque il vero nodo da sciogliere, nella prospettiva di medio termine, rimane quello finanziario, rispetto al quale sulla scorta della crisi, è necessario fare una scelta coerente con l’impianto dell’Ue (Monti, 2009).

Gianluca Brunori (Università di Pisa)

Accolgo molto volentieri l’invito di Franco Sotte ad intervenire sul tema della PAC dopo il 2013, non solo perché ritengo che questo sia un nodo centrale per le sorti della nostra agricoltura e delle nostre campagne, ma anche perché il tema è di quelli che consentono di sviluppare riflessioni di carattere teorico, che credo siano particolarmente necessarie in questa fase.
Sono d’accordo con chi ritiene opportuno impostare il ragionamento senza farsi intrappolare dal pur necessario realismo. La fase che viviamo e in particolare l’intreccio delle crisi ambientale, energetica, alimentare ed economica sollecitano un ripensamento radicale di tutti gli strumenti di governo e di governance. Questo ripensamento non può limitarsi alla ricerca di nuove giustificazioni per mantenere un’opzione business as usual, risultato probabile di un dibattito concentrato sulla legittimazione. Il realismo – corroborato da una approfondita analisi dei vincoli al cambiamento – dovrebbe piuttosto aiutare nell’identificazione delle strategie necessarie a rimuovere tali vincoli e ad accelerare la transizione.
D’altronde, ipotesi di riforma radicale sono già nell’aria, in larga parte ispirate a quelle di stampo neo-liberista già adottate negli anni ’80 in Australia e in Nuova Zelanda. Poiché ritengo che queste ricette siano profondamente sbagliate per i costi sociali e ambientali che hanno provocato e che, se applicate, provocherebbero in Europa, credo sia necessario contrapporre ad esse una visione alternativa, in grado di affrontare in modo adeguato i grandi problemi oggi al centro dell’attenzione pubblica come l’alimentazione, l’ambiente, la vitalità delle campagne, l’equità nella distribuzione dei costi e dei benefici.
Questa visione alternativa non può che partire dalla centralità dell’intervento pubblico in un equilibrato rapporto tra Stato (nelle sue articolazioni), mercato e società civile. A questo proposito mi chiedo se, come economisti agrari, siamo dotati degli strumenti giusti. In che modo il discorso sui “fallimenti del mercato” ci aiuta, quando il fallimento è soprattutto delle politiche? E siamo sicuri che l’alternativa sia tra mercato e regolazione, o non sia piuttosto tra regolazione buona e regolazione cattiva?
Per affrontare in maniera appropriata il problema, dovremmo prima di tutto chiarire le rispettive posizioni su alcune domande di fondo: a) è vero o no che l’attuale modello produttivo non risponde alla domanda sociale in termini di qualità, salute, salvaguardia ambientale? b) è vero o no che l’attuale regime di aiuti genera profonde diseguaglianze tra agricoltore ed agricoltore e tra agricoltori nel loro complesso e altri attori del sistema? Personalmente, la mia risposta è si, ed è su questa base che avanzerò alcune riflessioni per una visione alternativa della PAC.
La PAC non è stata neutrale rispetto agli effetti negativi del nostro modello agricolo, anzi in alcuni casi ha contribuito ad aggravarli. Il sostegno alle imprese è stato concepito sulla base di un’impostazione iper-produttivista, la stessa che ha favorito la crescita di un sistema agro-industriale imperniato sull’agri-business e sulla concentrazione industriale e commerciale. Il passaggio ad un orientamento post-produttivista, imperniato sulla multifunzionalità e sulla sostenibilità, non ha dato luogo finora che ad aggiustamenti e correttivi apportati ad una macchina creata per altri scopi. Per fare uno degli esempi più attuali, le norme sulla condizionalità, esito di una precedente fase di rilegittimazione della PAC, sono largamente inefficaci, oltre che fortemente osteggiate dai produttori, in quanto agiscono sulle loro azioni piuttosto che sulle motivazioni, e dunque fanno più leva sui vincoli che non sulle opportunità.
Uno degli aspetti spesso sottovalutati nel dibattito, ma oggi ritornati prepotentemente in primo piano dopo la pubblicazione del documento Iaastd (2008), sono quelli relativi ai sistemi di conoscenza e al loro rapporto con i sentieri evolutivi delle imprese e le politiche agricole. Creati negli anni ’70 in un contesto del tutto diverso, strutturati sulla scia della “rivoluzione verde” con un forte concorso pubblico, i cosiddetti servizi di sviluppo sono stati progressivamente ristrutturati o smantellati attraverso la privatizzazione e la partecipazione dei produttori ai costi.
Con la ristrutturazione si è affermato, implicitamente ed esplicitamente, il principio secondo cui la domanda di innovazione viene dalle imprese e che i sistemi di conoscenza si devono orientare sulla domanda sulla base di un “mercato delle conoscenze”. In questo modo si legittima un sistema autoreferenziale, difficilmente in grado di affrontare in modo efficace i problemi posti al settore dall’emergere di una nuova domanda sociale.
Io credo invece che si debba partire dal presupposto che la domanda di innovazione dipende dal contesto competitivo all’interno del quale l’impresa si trova. Un’azienda multifunzionale, ad esempio, richiede conoscenze, istituzioni e mercati profondamente diversi da quelli dell’azienda convenzionale, e le condizioni per la sua crescita dipendono dalla capacità delle politiche pubbliche di creare contesti cognitivi, istituzionali e di mercato adatti. Per questa ragione non si può lasciare al mercato la selezione dei paradigmi tecnico-economici a cui l’agricoltura si deve ispirare, e un adeguato regime di regolazione deve affrontare direttamente il problema dell’intreccio tra politiche, sistemi di conoscenza, contesto competitivo per le imprese.
Anche se i documenti ufficiali si riferiscono in modo ormai diffuso alla multifunzionalità, il divario tra obiettivi e comportamenti effettivi dei produttori è oggi molto ampio. Molti attori del sistema agro-industriale sono prigionieri di un’identità professionale – fatta di conoscenze accumulate, investimenti materiali e relazionali – basata sul paradigma della modernizzazione, che impedisce loro di guardare alle opportunità offerte dalla diversificazione. Questo ingabbiamento, che riguarda tanto gli agricoltori quanto i centri di ricerca, i tecnici, le imprese fornitrici di tecnologia, le organizzazioni attive nel campo della distribuzione, frena la transizione verso altri modelli più adatti alle nuove esigenze.
Veniamo al punto dell’equità. Come noto, questo problema è stato tradizionalmente affrontato in ambito Pac con la proposta, a forte valenza simbolica, di fissare un tetto agli aiuti, poi accantonata o attenuata al momento delle decisioni. Ma il tetto agli aiuti affronta solo la superficie del problema, che è invece ben più ampio. Il fatto più rilevante, a mio avviso, è che parlare di settore agricolo come qualcosa di omogeneo internamente non è più, se lo è mai stato, giustificabile.
Sotto il profilo politico, una visione indifferenziata dell’agricoltura e degli agricoltori, mettendo da parte le discussioni sulle diseguaglianze che tale modello generava, ha consentito il consolidamento di un modello neo-corporativo che ha potuto drenare una consistente massa di fondi pubblici a favore del settore. Questa visione non regge più, e con essa non regge più il modello neo-corporativo.
L’agricoltura è oggi un’entità estremamente complessa, risultante dal concorso di una molteplicità di soggetti con obiettivi diversi. L’aiuto disaccoppiato, anche laddove si arrivasse ad un pagamento regionalizzato, non discriminerebbe tra agricoltori professionali e agricoltori della domenica, tra agricoltori che producono beni pubblici e agricoltori che non ne producono, tra agricoltori che creano occupazione e agricoltori che affidano tutto ai contoterzisti, tra agricoltori che producono prodotti di qualità e agricoltori che producono commodity standardizzate. Uno dei nodi da risolvere sta proprio qui: per garantire efficacia alle politiche pubbliche bisogna essere in grado di distinguere le differenze e di intervenire in modo differenziato. Ma i tentativi di tradurre in politiche efficaci ed efficienti la necessità di modulare gli interventi sono in gran parte fallimentari.
Lo stesso ragionamento vale, a maggior ragione, per il secondo pilastro, per il quale è evidente l’incongruenza tra gli obiettivi, in gran parte in linea con la domanda sociale espressa negli ultimi anni, e i risultati effettivi. Anch’io concordo con coloro che dubitano della capacità delle amministrazioni di utilizzare bene eventuali risorse aggiuntive, soprattutto se ingenti. A fronte di territori rurali e di situazioni aziendali estremamente diversificati, i piani di sviluppo rurale non riescono a proporre altro che misure “a menu”, pensate per accelerare la velocità di spesa piuttosto che ottenere reali miglioramenti, peraltro distrattamente verificati attraverso meccanismi di valutazione molto poco integrati con i processi decisionali. Il principio della concentrazione viene meno di fronte a processi decisionali che ottengono consenso attraverso l’allentamento dei criteri di selezione. Le analisi a supporto degli strumenti di intervento del piano sono in gran parte superficiali e non sono in grado di identificare la specificità dei diversi contesti. Gli esperti esterni sono chiamati ad operare in tempi brevi su domande non sempre chiare, mentre sarebbe necessario un coinvolgimento costante, specie delle istituzioni pubbliche di ricerca, in grado di dare continuità e creare un’adeguata rete di conoscenze capaci di creare, per dirla con Becattini, un rapporto di simbiosi tra amministrazioni e ricercatori.
Quali sono le cause di questi fallimenti? Funzionari incapaci? Meccanismi di concertazione inadeguati? Troppe regole e sproporzione tra regole e dimensionamento degli apparati amministrativi? Separazione tra ambiti normativi? Strumenti tecnici proposti in ambito scientifico troppo complessi per essere effettivamente implementati?
Questo giudizio negativo sulla capacità delle amministrazioni di gestire le risorse in modo adeguato non può trasformarsi in una semplice presa d’atto del presente stato delle cose, che non farebbe altro che giustificare la conservazione dello status quo.
Una nuova centralità della regolazione pubblica richiede un salto di qualità all’altezza di quella che oggi chiamiamo “società della conoscenza”. La regolazione pubblica non deve sostituirsi al mercato, ma creare la cornice istituzionale in cui il mercato opera. Deve privilegiare il controllo a distanza piuttosto che il controllo diretto. Deve favorire l’apprendimento istituzionale piuttosto che lo sviluppo di settori amministrativi autoreferenziali. Deve garantire la partecipazione alle decisioni senza che questa precluda la definizione di chiare opzioni strategiche e di priorità. Mi rendo conto di essere andato un po’ fuori tema. Ma sono convinto che se non si affrontano questi problemi difficilmente potremo dare un valido contributo ad una vera riforma della Pac. In particolare, sono convinto della necessità di guardare con maggiore sistematicità al tema dell’implementazione delle politiche, che al momento rappresenta una vasta zona d’ombra tra obiettivi e risultati.

Roberto Henke (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

Ringrazio Franco Sotte per avere dato avvio, con il suo articolo, al dibattito sulla Pac dopo l’Health check e per il suo invito a continuare a discutere del tema su Agriregionieuropa. Naturalmente chi interviene in una seconda tornata ha, da un lato, il vantaggio di aver letto e riflettuto su quanto detto dai primi interventi – tutti di grande interesse – ma ha anche l’evidente limite di potersi inevitabilmente ripetere su alcune delle questioni già ampiamente discusse.
Detto questo, vorrei contribuire al dibattito in corso soffermandomi su un aspetto che mi sembra ricorrente, con sfumature diverse, in questa discussione sul futuro della Pac: il rapporto tra il sostegno all’agricoltura, così come ridisegnato dall’Health check, e la multifunzionalità dell’attività primaria.
Come è noto, la recente revisione della Pac è intervenuta in modo molto netto sulle politiche ricadenti nel primo pilastro e in maniera molto più indiretta sul secondo (De Filippis, 2009). In pratica, ci si trova di fronte ad un pagamento unico aziendale disaccoppiato che rappresenta quel che resta delle politiche di mercato e che ormai costituisce buona parte del sostegno del primo pilastro; questa componente del sostegno potrà, in un prossimo futuro, essere regionalizzata, con notevoli effetti sulla redistribuzione territoriale degli aiuti (Pupo D’Andrea, 2009). D’altra parte, la politica del secondo pilastro non è stata modificata se non in modo marginale, con l’individuazione di “nuove sfide” che possono dare vita a misure ad hoc da integrare nei programmi di sviluppo rurale e da finanziare con le risorse derivanti dalla modulazione. Le motivazioni del sostegno pubblico all’agricoltura, attualmente e, a maggior ragione, nel futuro, ruotano attorno all’idea della multifunzionalità, cioè alla capacità del settore primario di produrre esternalità positive non remunerate o solo parzialmente remunerate dal mercato.
Il concetto di multifunzionalità ha creato due opposte fazioni tra chi lo liquida come un’invenzione a giustificazione del sostegno e chi, invece, lo legge come un nuovo paradigma interpretativo del modello di sviluppo del settore primario. Per i secondi, l’agricoltura multifunzionale include tre funzioni centrali, che riguardano le relazioni con lo spazio (ambiente, paesaggio), con la produzione (salubrità e sicurezza degli alimenti e una loro maggiore riconoscibilità attraverso il legame con il territorio) e con i servizi (gestione delle aree rurali, biodiversità, amenità) (Durand, Van Huylenbroeck, 2003; Oostindie, Renting, 2005). La combinazione e l’intensità con cui si legano queste funzioni con l’attività primaria vera e propria stabilisce un continuum di comportamenti in agricoltura, per cui ciascuna azienda esprime un certo “grado di multifunzionalità” e la mono-funzionalità rappresenta un estremo non più proponibile come modello di sviluppo per il settore (Wilson, 2007 e 2008).
Se ciò è vero, allora la domanda da porsi è: quanto l’attuale set di politiche comunitarie per l’agricoltura è in grado di incentivare la multifunzionalità delle aziende agricole? Questo è un punto su cui vale la pena riflettere e ribadire delle valutazioni già in varia misura espresse. A mio avviso, attualmente, né il primo né il secondo pilastro della Pac sono tali da valorizzare appieno la produzione di esternalità e da giustificare, di conseguenza, l’esistenza di un così corposo sostegno.
Riguardo al primo pilastro, è bene sgombrare il campo da un equivoco che può sembrare banale ma che genera ancora qualche incomprensione: disaccoppiamento e multifunzionalità non vanno necessariamente insieme, e non è detto, naturalmente, che al crescere del disaccoppiamento aumenti la produzione di esternalità; anzi, in teoria è semmai vero il contrario, come dimostra il fatto che l’ex articolo 69 e oggi l’articolo 68 consentono di ri-accoppiare una piccola parte del sostegno per assicurare l’esistenza di alcuni tipi specifici di agricoltura. Il problema del futuro del primo pilastro si ingenera proprio dal disaccoppiamento: che cosa rappresenta oggi il Pua?
Si legge spesso che il Pua rappresenti una sorta di compensazione (o remunerazione) per la condizionalità, che a sua volta rappresenta lo strumento principale, nell’ambito del primo pilastro, per la valorizzazione delle esternalità prodotte dall’agricoltura. In primo luogo, il rapporto tra obiettivo e strumento, così come è concepito oggi, è molto complesso, per cui invece di “pagare chi fa qualcosa” si finisce per “non pagare chi non rispetta una regola”, il che è ovviamente molto diverso. Inoltre, la condizionalità non è sufficientemente strutturata e vincolante da poter motivare l’esistenza del sostegno garantito dal primo pilastro della Pac. Ancora, si può evidenziare un problema di livello istituzionale, per cui la regolamentazione degli standard viene lasciata agli Stati membri, i quali hanno poco interesse a renderla più stringente, facendo aumentare i costi (o ridurre i ricavi) dei propri agricoltori. Paradossalmente, poi, la condizionalità è stata resa ancora più blanda dall’Health check, con un cedimento sia sul fronte degli standard obbligatori da rispettare sia del sistema di controllo.
Se la strada della conservazione del Pua come forma di sostegno al reddito deve passare per la condizionalità, come forma principale di valorizzazione della multifunzionalità, allora è necessario riscrivere completamente questa pagina della Pac. Su questo punto si è espressa molto chiaramente anche la Corte dei Conti europea (2008), che nella sua relazione sulla condizionalità ha messo in rilievo che: 1) le norme relative alla condizionalità, sostituendo il criterio delle “buone prassi” agricole differenziate per zone omogenee, che rappresentavano degli standard minimi da superare per poter accedere agli aiuti agroambientali, hanno reso meno efficiente il legame tra pratica agricola e tutela dell’ambiente; 2) il rispetto della condizionalità dovrebbe avere un effetto non secondario sul livello dei premi assicurati dalle misure ambientali. Inoltre, per quei temi a cavallo tra condizionalità e misure agroambientali (ad esempio la tutela della biodiversità, la cura del paesaggio) dovrebbero essere gli obblighi derivanti dalla prima a determinare i confini in cui opera il contratto stipulato all’interno del programma agroambientale e non viceversa, come spesso avviene.
In relazione al rapporto tra multifunzionalità e secondo pilastro, è necessario scardinare il luogo comune secondo cui le politiche di sviluppo rurale siano di per sé più adatte alla valorizzazione della multifunzionalità di quelle che albergano all’interno del primo pilastro. Una tale visione ha, a mio avviso, contribuito all’affannoso tentativo di rafforzare il secondo pilastro senza che a ciò corrispondesse un progetto profondo di revisione degli obiettivi, degli strumenti e anche dell’assetto istituzionale delle politiche di sviluppo rurale. Questo processo ha cominciato a mostrare i suoi limiti quando, con l’Health check, è apparso chiaro che la corsa al travaso di risorse dal primo al secondo pilastro avrebbe subito un rallentamento, questa volta non solo a causa degli attori tradizionalmente sostenitori delle politiche di mercato, ma anche a seguito dello scarso sostegno dei soggetti generalmente favorevoli a tale passaggio: il Regno Unito, che ha preferito difendere la propria modulazione volontaria, o in Italia le Regioni, spaventate dall’ammontare di risorse potenzialmente trasferite senza un preciso programma di spesa.
Il rafforzamento finanziario del secondo pilastro non è stato mai seguito da una sua vera ristrutturazione e ciò ha contribuito anche a generare una certa ambiguità sul concetto di multifunzionalità. All’interno del secondo pilastro, infatti, trovano collocazione misure molto diverse ed eterogenee, di natura settoriale, ambientale e di diversificazione delle attività. Gli interventi settoriali possono avere o meno un effetto sulla produzione di esternalità a seconda di come vengono implementate; quelli agroambientali producono esternalità in funzione dei vincoli imposti e dei territori su cui agiscono; infine, gli interventi di diversificazione attivano processi di ricollocazione dei fattori produttivi tra attività agricole e non agricole mirando ad un riequilibrio tra l’attività primaria vera e propria ed altre fonti di reddito in ambito rurale. In sintesi, il passaggio di risorse dal primo al secondo pilastro non garantisce, di per sé, che il sostegno venga finalizzato alla valorizzazione delle funzioni secondarie dell’agricoltura. Anche all’interno del secondo pilastro è necessario un più efficace processo di selezione riguardo: le aree su cui intervenire, le funzioni da valorizzare, l’individuazione degli attori da coinvolgere, le risorse finanziarie necessarie. Se anche in futuro si continuerà a trasferire risorse al secondo pilastro, attivando contemporaneamente nuove misure poco coerenti tra loro e che accrescono l’eterogeneità dei programmi, si rischia di valorizzare solo in apparenza l’approccio bottom-up della politica di sviluppo rurale, senza che a ciò corrisponda né una maggiore efficacia né una reale efficienza della spesa. Venendo ad un esempio concreto che riguarda l’Italia, la ripartizione delle risorse aggiuntive all’interno dei Psr non sembra particolarmente ispirata alla multifunzionalità: l’obiettivo che sembra prevalere è la “somma zero”, ovvero il mantenimento delle risorse negli stessi territori, agli stessi settori e possibilmente anche alle stesse aziende da cui sono state distolte. Inoltre, si tende a privilegiare le misure a premio, la cui gestione, senza una accurata zonizzazione e selettività, diventa del tutto simile a quella del primo pilastro. In questo modo, l’obiettivo non dichiarato diventa quello del mantenimento dello status quo, aggirando la vera sfida insita nel rafforzamento del secondo pilastro. In conclusione, per il futuro potrebbe essere utile ragionare a prescindere dalla struttura attuale della Pac e provare a riformulare la ripartizione dei fondi per grandi obiettivi. È evidente che già da qualche tempo si è avviato un processo di rimescolamento delle carte tra gli obiettivi delle misure della Pac e la collocazione degli strumenti tra primo e secondo pilastro (sostegno ai mercati agricoli, sostegno al territorio, valorizzazione della qualità, tutela dell’ambiente, e così via). Questo processo sarà ancora più evidente dopo l’Health check, ma non è ancora messo a fuoco il legame tra sostegno e valorizzazione delle esternalità positive prodotte dall’attività primaria. Credo che sia su questo doppio binario che si gioca il futuro della Pac dopo il 2013.

Francesco Mantino (Istituto Nazionale  di Economia Agraria)

Accolgo con molto interesse l’invito di Franco Sotte a discutere sulle sue riflessioni sulla Pac che vorremmo dopo il 2013. Trovo che sia necessario intensificare la discussione su tali questioni dopo l’Health check. Penso anche che egli abbia colto i punti essenziali del dibattito in corso, ma che, in generale, più che disegnare la Pac che vorremmo, dovremmo sforzarci a discutere e cercare di capire in quali direzioni la Pac può realisticamente incamminarsi. Nel far questo, cercherò di sviluppare alcuni dei punti del dibattito in corso, ripresi anche dall’intervento di Franco Sotte.
I punti nodali mi sembrano essere i seguenti:

  • a) la riforma del budget Ue e la quota di risorse per la politica agricola;
  • b) gli obiettivi della nuova Pac e le funzioni delle due componenti (primo e secondo pilastro);
  • c) i rapporti tra la Pac e le altre politiche, e quindi anche i rapporti tra il mondo agricolo e gli altri soggetti economici e sociali nella formulazione e gestione delle politiche;
  • d) la capacità di adottare politiche selettive e concentrate, che condiziona fortemente l’efficacia degli strumenti di intervento disponibili.

Vorrei dire subito, a proposito di questi nodi, che:

  • i) non sono nuovi nella discussione sulla Pac;
  • ii) non sono stati affrontati, a mio avviso, in modo efficace da Agenda 2000 in poi;
  • iii) i cambiamenti che si sono registrati sono stati sempre condizionati fortemente dalla situazione pre-esistente (path-dependency);
  • iv) in alcuni casi, anzi, tali cambiamenti si sono rivelati nettamente peggiorativi, come nel caso del secondo pilastro, che è stato separato dalle politiche di coesione e progressivamente “riempito” di funzioni poco coerenti con la sua missione fondamentale;
  • v) infine, come si usa dire, “i nodi tornano al pettine” oggi, ma in una situazione molto più complessa, con una posizione del mondo agricolo più debole sotto il profilo del potere contrattuale (per le forti pressioni degli attori non agricoli sul budget Ue).

Budget Ue e risorse per la Pac

Al pari di Franco Sotte, sono del parere che la questione non si porrà tanto sull’eventualità di tagliare la spesa agricola, ma sulla dimensione del taglio. Sembra del tutto ovvio che le lobby agricole si riservino lo spazio necessario per dare battaglia sulla conservazione della quota agricola al livello attuale, ma nello stesso tempo appare del tutto irrealistico pensare che questo possa essere un obiettivo praticabile. Non solo, ma ancora più pericoloso è il non attrezzarsi fin da ora sul terreno dell’elaborazione di possibili scenari di riforma.
L’esperienza delle più recenti riforme ha fornito preziosi insegnamenti sull’importanza di costruire una forte strategia, nei contenuti e nelle alleanze che la sostengono. L’analisi della riforma Fischler, ad esempio, raccontata con un approccio alla political economy da Johan Swinnen (2008), ci dice quanto sia stato importante, da parte di Fischler, la scelta dei tempi, delle strategie negoziali e delle alleanze per superare tutti gli scogli che si sono frapposti al disegno di riforma. Tra l’altro, l’esperienza della riforma Fischler ci dice anche che il nostro paese ha svolto un ruolo del tutto marginale e comunque non da protagonista nella definizione degli orientamenti della riforma. In realtà vi sono state altre circostanze in cui il ruolo è stato del tutto diverso. Si consideri, ad esempio, il negoziato sulla definizione delle prospettive finanziarie 2007-2013 (l’attuale budget Ue), che offre interessanti elementi di riflessione proprio sulle strategie negoziali per il bilancio. In quell’occasione, infatti, la proposta italiana di co-finanziamento della spesa del primo pilastro ruppe l’impasse in cui il negoziato si era arenato a causa dell’ostruzionismo del Regno Unito. Questo paese richiedeva una maggiore riduzione della spesa e soprattutto pretendeva una sostanziale conservazione della quota di rimborso. Quella circostanza evidenziò anche l’importanza di una forte concertazione tra diverse amministrazioni coinvolte (in questo caso il Ministero dell’economia, il Ministero degli esteri e quello delle politiche agricole). La posizione italiana infatti fu preceduta da un lungo e intenso lavoro preparatorio che servì a costruire una strategia forte ed efficace.
Le variabili da cui dipende l’esito di un negoziato sono molteplici e difficilmente prevedibili, soprattutto in un contesto di importanti cambiamenti istituzionali come quello odierno. Ma la costruzione di una strategia negoziale richiede tempo e una forte concertazione tra attori istituzionali e sociali. Per tale motivo vorrei sottolineare con forza la necessità di un ruolo più attivo e propositivo del nostro Paese e di un dialogo inter-istituzionale che esca dagli ambiti strettamente settoriali.

Obiettivi della futura Pac e rapporti con altre politiche

Al momento attuale mi sembra che stiano emergendo dal dibattito in corso in Europa due principali visioni del futuro della Pac: una visione che potremmo definire «gradualista» e una orientata alla sicurezza alimentare e ambientale (Mantino, 2008).
La prima è definibile «gradualista» in quanto mira a definire un percorso di riforma in continuità con la riforma Fischler e con la recente Health check. Questa visione, in buona sostanza, vede una Pac ancora articolata in due pilastri, con il primo ancorato al principio del disaccoppiamento e forse più orientato di oggi su un sistema di pagamento unico regionalizzato e il secondo imperniato sullo sviluppo rurale e articolato nelle priorità attuali (competitività, gestione del territorio e ambiente, diversificazione), ma con un maggior aggancio ai grandi obiettivi comunitari (cambiamento climatico, risorse idriche, energie rinnovabili). Non è del tutto chiaro di quante risorse dovrebbe disporre il secondo pilastro, ma è presumibile pensare che non si possa scendere al di sotto delle dotazioni attuali. Su questo punto, credo che la conservazione delle risorse attuali (in termini reali) non dovrebbe essere vista come un passo indietro o addirittura una vera e propria sconfitta del processo di riforma. Il risultato effettivo, infatti, va valutato in rapporto all’entità del taglio complessivo della spesa agricola, ai vincoli posti dalla continuazione del processo di allargamento, alle nuove funzioni che si intendono attribuire al secondo pilastro.
La seconda visione che sta emergendo è orientata ad un cambiamento più sostanziale, che vede prevalere gli obiettivi di sicurezza alimentare (sia food security sia food safety) e di sicurezza ambientale. Secondo questa visione, sostenuta principalmente da economisti come Allan Buckwell (2008), la divisione in due pilastri perderebbe di significato in quanto il sostegno delle nuove funzioni dell’agricoltura verrebbe assicurato da un unico pilastro. Dall’altra parte, tutte quelle misure di sostegno al territorio tipiche degli Assi III e IV degli attuali Psr verrebbero trasferite nell’ambito delle politiche di coesione. Ciò avrebbe la duplice funzione, da un lato, di chiarire e specializzare la nuova Pac e, dall’altro, di lasciare alle politiche di coesione il coordinamento degli interventi per le aree rurali. Non è chiaro invece su quali strumenti si appoggerebbero gli obiettivi di sicurezza alimentare e ambientale, ma sembra probabile una qualche forma di pagamento unico disaccoppiato ancorato più fortemente al rispetto della condizionalità ambientale. Questa seconda versione verrebbe sostenuta non solo da alcune lobby agricole, ma potrebbe ricevere una favorevole accoglienza da parte delle lobby ambientaliste.
Tornando ora ai temi proposti da Franco Sotte, mi sembra che la visione «gradualista» sia più in linea con i caratteri di una Pac sostenibile e con l’esigenza di una minore separatezza dell’agricoltura dal resto del mondo rurale. Inoltre, va sottolineato il fatto che, nel discutere sul tema della riforma futura, non si può confondere “la Pac che vorremmo” con “la Pac che si potrebbe concretamente riformare”. Non vorrei peccare di eccessivo realismo, ma non credo che il processo di riforma possa prendere una strada radicalmente diversa da quella intrapresa da Agenda 2000 (e forse anche da prima) e procedere per salti. In altre parole, non si riparte da zero, ma è del tutto probabile che la prosecuzione di un processo sia più praticabile e accettata dagli attori in gioco.

Governance delle politiche e efficacia degli strumenti

Un tema certamente rilevante, sollecitato sia da Franco Sotte che da altri interventi, è quello della necessità di una maggiore selettività/concentrazione degli interventi Pac. Ciò si pone in modo diverso, a mio avviso, a seconda che si consideri il primo o il secondo pilastro. Ma è pur vero che gli strumenti del secondo pilastro, pur essendo per definizione maggiormente selettivi e manovrabili, appaiono sotto-utilizzati in questo senso e quindi richiedono uno sforzo ulteriore in termini di capacità di concentrare e discriminare gli interventi pubblici.
Ma occorre precisare che la selettività di una politica, una volta resa possibile dai regolamenti comunitari, dipende in gran parte da chi gestisce quella politica direttamente, vale a dire lo Stato o le Regioni, a seconda del quadro istituzionale prevalente. Nel caso italiano, se i criteri per la condizionalità ambientale sono piuttosto “annacquati”, ciò è dovuto in larga parte agli orientamenti generici concertati tra Stato, Regioni e lobby agricole. Nello steso modo, se i criteri di selezione dei progetti di investimento nei Psr sono in diversi casi piuttosto “laschi” e non finalizzati a territori/settori/tipologie aziendali, ciò dipende esclusivamente da una precisa strategia regionale, concertata con il partenariato interno alla regione, che privilegia una logica distributiva. Spesso, nelle discussioni sulle esigenze di riforma, si confondono erroneamente i problemi che hanno una dimensione più generale e che richiederebbero una revisione dei regolamenti da quelli che invece sono di dimensione nazionale e/o regionale e che potrebbero essere affrontati più “semplicemente” con scelte politiche diverse. In altre parole, in diversi casi, se le politiche non sono sufficientemente selettive, ciò non è un difetto dell’impostazione comunitaria, ma è una precisa scelta in chiave distributiva fatta in casa nostra. Pertanto non ha alcun senso discutere sulla opportunità di introdurre o meno una maggior dose di selettività senza distinguere i livelli di governance cui ciò compete.
Ha senso invece pensare che in futuro la riforma contribuisca a rendere la Pac una politica più mirata? Entro certi limiti sì, se questo vuol dire, ad esempio, nell’ambito del primo pilastro rendere la regionalizzazione obbligatoria e subordinare la condizionalità ambientale a regole e criteri più cogenti ed efficaci. Oppure, nell’ambito del secondo pilastro, introdurre regole e orientamenti che obblighino gli Stati membri ad andare verso una vera programmazione strategica, una selezione di priorità territoriali e/o settoriali, una scelta delle misure e dei criteri di selezione più efficaci alla realtà su cui intervengono i Psr. In tal senso si stanno orientando le proposte di riforma della futura politica di coesione (Rapporto Barca, 2009): verso una politica place-based, cioè fortemente differenziate in relazione ai territori e fortemente concentrata su tre-quattro core priorities. Su questa strada converrebbe puntare più nettamente anche per riformare il futuro approccio del secondo pilastro.

Maria Rosaria Pupo D’Andrea (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

Da ormai lungo tempo trovo ospitalità su Agriregionieuropa nell’angolo privilegiato della Finestra sulla PAC. Accolgo quindi con entusiasmo l’invito di Franco Sotte a partecipare al dibattito sul futuro della politica agricola comunitaria, che mi permette di tracciare un quadro unitario delle riflessioni che hanno trovato spazio in maniera necessariamente frammentaria nella rubrica on line.
La forma che assumerà la Pac nel prossimo futuro sarà a mio avviso influenzata dall’esito dello scontro di due forze contrapposte. Da una parte, la capacità della politica agricola di perpetuare se stessa; dall’altra, la pressione del dibattito sul bilancio comunitario verso un ridimensionamento del peso finanziario della Pac nel contesto delle politiche comunitarie.
Guardando alla prima forza, è sintomatico il fatto che quando si parla di futuro della Pac, quali che siano le soluzioni proposte “dall’interno”, esse non siano quasi mai poste in relazione agli obiettivi della politica agricola sanciti dal Trattato di Roma e confermati nel Trattato di Maastricht, che dovrebbero rappresentare il fine ultimo che guida la scelta degli strumenti da adottare. Se non è così, ciò è dovuto alla consapevolezza che alcuni di questi obiettivi, fissati nel lontano 1957 e per un’Europa a Sei, sono stati abbondantemente superati dai tempi. Una loro revisione sarebbe necessaria non solo per rendere la Pac più attuale, ma anche per dare maggiore coerenza alla politica agricola.
A questo proposito, la più recente dichiarazione sul futuro della Pac rilasciata dal Direttore generale della DG Agri (Demarty, 2009) è piuttosto eloquente. Demarty sostiene, infatti, che anche in futuro la Pac potrebbe fondarsi sugli attuali due pilastri, con il primo fortemente basato sui pagamenti diretti disaccoppiati, il secondo mirato agli attuali obiettivi dello sviluppo rurale (che rimarranno rilevanti anche dopo il 2013) e con una dotazione finanziaria non più bassa di quella attuale.
Focalizzando l’attenzione sul primo pilastro, dalle dichiarazioni di Demarty emerge in maniera piuttosto evidente il percorso di legittimazione dell’attuale struttura della Pac anche dopo il 2013 attraverso il contributo del suo processo di riforma alla riduzione delle distorsioni del passato.
Pur trattandosi di aspetti significativamente positivi – maggiore riorientamento al mercato attraverso la conferma del principio del disaccoppiamento, ridimensionamento dei classici strumenti di intervento, abolizione del sistema delle quote latte – non sono a mio avviso sufficienti a consentire il perdurare dell’attuale Pac oltre il 2013. Vediamo perché. Il pagamento unico aziendale disaccoppiato sembra essere destinato a rappresentare il futuro della Pac, in quanto esso viene considerato lo strumento migliore per sostenere il reddito degli agricoltori. Pur senza entrare nel merito di questa affermazione, basta fare riferimento alla ormai ampia letteratura sulla giustificazione economica del Pua (si veda, ad esempio, Sotte, 2005), per chiedersi se esso assolve in maniera efficace ed efficiente alla sua funzione.
Demarty sostiene che dopo il 2013 non è detto che il sistema degli aiuti disaccoppiati rimarrà esattamente così come oggi lo conosciamo e cita la possibilità di procedere ad una distribuzione più equa dei pagamenti diretti che alcuni Stati membri hanno già intrapreso. Arriviamo, così, alla questione della regionalizzazione. Come si ricorderà, la riforma Fischler ha consentito ai Paesi che hanno voluto farlo di procedere alla regionalizzazione dei pagamenti diretti, cioè alla corresponsione di aiuti di uguale valore ad ettaro nell’ambito delle regioni di riferimento individuate. Nonostante le attese e le enunciazioni iniziali, le decisioni del novembre 2008 al termine dell’Health check hanno mantenuto il carattere volontario di questo passaggio. Sembra, invece, rimandata al 2013 una sua applicazione obbligatoria. Al di là dei tempi con cui si attuerà, siamo sicuri che la regionalizzazione rappresenti il “miglior” futuro dei pagamenti diretti e che essa costituisca un passo avanti verso una loro maggiore efficacia ed efficienza?
Il modello di pagamento unico regionalizzato è sicuramente più equo del modello basato sugli aiuti storici, che ha consentito di far accettare, in alcuni Paesi, il principio del disaccoppiamento totale degli aiuti, ma che è non sostenibile nel medio periodo. Questo perché, grazie al disaccoppiamento, che permette di slegare il sostegno che si riceve dalle produzioni realizzate, e all’allontanarsi del periodo di riferimento rispetto al quale sono calcolati gli aiuti, sarà in futuro sempre più difficile giustificare il fatto che aziende che presentano lo stesso orientamento produttivo, la medesima organizzazione aziendale e che usano le stesse tecniche di produzione, ricevano un sostegno differente a causa degli eventuali aiuti ricevuti in un passato sempre più lontano.
Il modello regionalizzato, invece, supera questa difficoltà in quanto, nell’ambito della regione di riferimento, determina una riduzione della disomogeneità dell’aiuto ricevuto dalle aziende e, di conseguenza, una più o meno marcata (a seconda della percentuale di regionalizzazione) redistribuzione degli aiuti tra aziende e territori.
Il modello regionalizzato, dunque, è più equo del modello storico ma non risolve il problema della iniqua distribuzione dell’aiuto tra le regioni e gli Stati membri, determinata, ancora una volta, dal sostegno ricevuto nel periodo storico di riferimento. Inoltre, la regionalizzazione non è di per sé neutrale, in quanto è influenzata da come vengono definite le regioni e, di conseguenza, da quali sono gli effetti redistributivi che si vogliono ottenere. In Germania, ad esempio, è stato adottato un modello a forte contenuto redistributivo, che risponde alla volontà del governo federale di introdurre dei criteri di solidarietà tra i Länder e tra i territori. In Inghilterra, al contrario, è stato adottato un modello poco redistributivo, che mantiene separate le aree più produttive da quelle meno produttive definendo le regioni sulla base del potenziale agricolo (Kroll, 2008).
Ma anche ipotizzando di arrivare ad un aiuto forfetario ad ettaro per l’intera Ue, e quindi di superare la questione della distribuzione del sostegno tra paesi, la redistribuzione è un bene di per sé? È una giustificazione sufficiente al mantenimento di un sistema di aiuti al settore agricolo? Non comporta, forse più di prima, la necessità di giustificare, o meglio motivare, perché si concede l’aiuto, perché un aiuto di una certa entità, perché differenziato tra regioni (o Stati membri), perché uguale nell’ambito della stessa regione? Se manca una chiara giustificazione, come si fa a misurare l’efficacia e l’efficienza di tale aiuto?
Un aiuto regionalizzato è più equo ma, paradossalmente, non è più giustificabile di un aiuto erogato su base storica. Quest’ultimo, infatti, potrebbe trovare giustificazione nel non danneggiare aziende che, in virtù della politica in quel momento esistente, hanno effettuato determinate scelte che hanno comportato investimenti finanziari, in alcuni casi consistenti. Non è il criterio di distribuzione – storico o regionalizzato che sia – a rendere un aiuto più o meno giustificabile, ma le finalità a cui esso risponde. Il sistema di aiuti che si intende applicare dopo il 2013 sarà in grado di fornire questa giustificazione?
Questo quesito conduce alla seconda forza in campo a cui si accennava in apertura, quella della pressione per una riduzione delle risorse finanziare dedicate alla Pac. Come ha rilevato Sotte (2008), la stragrande maggioranza di coloro che hanno risposto all’invito della Commissione ad esprimere il proprio parere sulla “struttura e gli orientamenti delle future priorità di spesa dell’Unione” nell’ambito della revisione del bilancio comunitario ha esplicitamente chiesto la diminuzione della spesa per la Pac, il trasferimento di fondi dal primo al secondo pilastro, il ridimensionamento del pagamento unico, il cofinanziamento nazionale. Nonostante non siano mancati interventi in favore della Pac per il ruolo che essa svolge in numerosi ambiti di intervento strategici, credo che sia utile chiarire una volta per tutte perché si distribuiscono soldi agli agricoltori (indipendentemente da quale sia il pilastro da potenziare e le misure da attuare), perché ad alcuni si e ad altri no, evitando di rimandare il problema della legittimazione della Pac ad un tempo e una sede in cui forse non ci sarà più margine di manovra per limitare gli effetti di una riforma voluta e guidata da esigenze e attori estranei al mondo agricolo, o addirittura a questo ostili.
Ma, soprattutto, le risposte dovranno essere in grado di rassicurare la società civile, e anche gli stessi agricoltori, sul ruolo dell’agricoltura e dei pagamenti erogati a questo settore, pagamenti che, svincolati dalla produzione, sono rimasti orfani di una valida giustificazione al loro mantenimento nel tempo. Tutto ciò tenendo conto della necessità di dotarsi di una chiara strategia nazionale, visto il ruolo crescente dei singoli Paesi che sempre più sono chiamati ad impegnarsi in prima linea nel decidere se, come e quando applicare sul proprio territorio nazionale il menù di strumenti messi a disposizione dalla Pac, non solo nel secondo ma anche nel primo pilastro.

Paolo Sckokai (Università Cattolica, Piacenza)

Accolgo volentieri l’invito di Franco Sotte a proporre alcune riflessioni su quelle che potrebbero essere le prospettive della Pac dopo l’approvazione dell’Health check e in vista del dibattito sulla verifica di bilancio e sulle prospettive finanziarie dopo il 2013. Il fatto di partecipare a questo secondo giro di interventi mi ha ovviamente dato la possibilità di leggere la prima parte del Forum: in questo mio contributo cercherò quindi di non ripetere concetti e opinioni già ampiamente illustrate da altri colleghi ma, per quanto possibile, di proporre qualche spunto di riflessione in più.
Anch’io, come Franco Sotte e come molti dei colleghi intervenuti successivamente, credo che la recente approvazione dell’Health check possa essere valutata in modo positivo relativamente all’obiettivo di consolidare gli elementi cardine della riforma Fischler, in particolare per il principio del disaccoppiamento del sostegno agli agricoltori. Anche se il compromesso finale ha indebolito tutti i tentativi di attuare una redistribuzione significativa del sostegno tra aziende e territori, il pacchetto approvato rimane sostanzialmente coerente rispetto all’obiettivo appena richiamato. Il problema è ovviamente quello delle prospettive di lungo periodo e in particolare della sostenibilità di un modello che, seppure con strumenti molto meno distorsivi che in passato, riconosce all’agricoltura una forma di sostegno generalizzato. Il quesito non è certamente nuovo e devo confessare che, negli ultimi anni, nel tentare di dare una risposta a questa domanda mi sono spesso rifugiato in quella, che credo essere una sorta di “ricetta” comune a molti di noi, che traspare, seppure con articolazioni diverse, sia dall’articolo di Franco Sotte che da diversi interventi del Forum. In sintesi, molti di noi ritengono che le motivazioni per il sostegno pubblico all’agricoltura vadano ricercate nella produzione di esternalità positive di tipo ambientale e sociale (inclusa eventualmente, anche se credo si tratti di un’eventualità molto remota, la produzione di alimenti in situazioni di grave crisi) e che queste ragioni mal si concilino con uno strumento di sostegno generalizzato come il Pagamento unico aziendale (Pua). La soluzione sarebbe dunque quella di eliminare gradualmente il Pua e introdurre e/o rafforzare strumenti di sostegno “mirati” che premino certi comportamenti virtuosi e che siano quindi proporzionati ai benefici sociali che essi generano e/o ai costi aggiuntivi che le aziende devono sostenere. Il superamento del Pua sarebbe ovviamente il viatico principale per risolvere la questione del riequilibrio del bilancio Ue, visto che esso assorbe la stragrande maggioranza delle risorse attualmente destinate all’agricoltura, mentre gli strumenti mirati sarebbero inevitabilmente meno costosi. Che queste affermazioni di principio si debbano per forza tradurre nel travaso (parziale) di risorse tra quelli che siamo abituati a chiamare “primo e secondo pilastro della PAC” credo sia meno scontato, soprattutto alla luce dei risultati tutt’altro che esaltanti di molti strumenti del secondo pilastro, come diversi colleghi partecipanti al Forum hanno ampiamente documentato. Ma i principi di fondo di questa “ricetta” conservano la loro validità.
Credo però che non ci si debba accontentare di questo e invece, per capire se c’è davvero ancora bisogno di una Pac, e con quali caratteristiche, si debba ripartire dal quesito fondamentale che ha portato alla sua istituzione. Esistono ancora i motivi per sostenere l’esistenza di una “debolezza intrinseca” dell’agricoltura rispetto ad altri settori produttivi? Angelo Frascarelli ci ha richiamato le ragioni che i “sacri testi” di economia agraria riportano a sostegno di questa tesi e che noi tutti ci siamo trovati ad insegnare ai nostri studenti. Non c’è dubbio che la domanda di alimenti continui ad essere rigida e condizionata dalla limitatezza biologica del bisogno alimentare, così come l’offerta agricola continui ad essere rigida nel breve periodo e subordinata all’andamento climatico. Ed è sicuramente ancora vero che la stessa offerta è estremamente frammentata tra un numero enorme di aziende di piccole e piccolissime dimensioni. Ma deve essere chiaro che la conseguenza di queste “debolezze strutturali” non è più la necessità di un sostegno al reddito degli agricoltori: molte indagini statistiche relative ai paesi Ue-15 mostrano chiaramente come i redditi delle famiglie agricole siano spesso nettamente superiori a quelli delle famiglie non agricole (per il caso italiano, si vedano i dati pubblicati in Rocchi, 2009). Come ha giustamente sottolineato Margherita Scoppola, il problema della povertà rurale è ormai assolutamente residuale, almeno nei paesi Ue-15, e non può certo essere evocato come giustificazione per un sostegno generalizzato a tutte le aziende.
Dove sta allora il problema? Non c’è dubbio che la volatilità dei prezzi agricoli, il tema cruciale del dibattito di questi mesi, che deriva dalla rigidità della domanda e dell’offerta menzionate in precedenza, possa avere effetti estremamente negativi in caso si manifesti una fase prolungata di squilibrio tra prezzi e costi di produzione, quali ad esempio la cessazione dell’attività da parte di un numero significativo di imprese, con l’abbandono delle terre e le conseguenze ambientali e sociali che sono facilmente immaginabili, specialmente per le aree marginali. Ma, nonostante ciò, resto convinto che questa non sia una giustificazione sufficiente per godere di un sostegno generalizzato, erogato sia nelle fasi di prezzi alti che in quelle di prezzi bassi, come potrebbe essere un Pua regionalizzato secondo le ipotesi circolate in questi mesi.
La mia convinzione nasce semplicemente dal fatto che altri settori sperimentano problemi simili. La volatilità dei prezzi agricoli è poi così diversa dalla volatilità degli ordini che tante piccole e medie imprese operanti nei settori dei beni di investimento (ad esempio nella meccanica) sperimentano ciclicamente, e in modo particolarmente forte in questi mesi di grave crisi generalizzata? E la concorrenza di prezzo del pomodoro cinese è poi così diversa dalla concorrenza che i paesi emergenti esercitano nei mercati delle commodity non agricole, come ad esempio i prodotti tessili? Eppure nessuno dei settori citati gode di un sostegno pubblico universale e costante nel tempo, ma semmai riceve un aiuto dallo Stato, che può assumere varie forme (ammortizzatori sociali, sostegno al credito, ecc.), nelle situazioni di crisi conclamata, aiuto di cui godono tipicamente le aziende più in difficoltà.
Credo quindi che, in presenza di famiglie agricole che hanno redditi mediamente superiori a quelle non agricole e in presenza di molte aziende solide dal punto di vista patrimoniale, grazie in particolare al valore della terra, le fasi di squilibrio tra prezzi e costi di produzione possano essere affrontate con strumenti diversi, ad esempio con strumenti assicurativi che coprano i rischi di reddito. Su di essi la letteratura discute da diversi anni e a mio parere meriterebbero più attenzione e approfondimento, anche per capire meglio quale ruolo possa giocare il decisore pubblico e quale invece debba essere il ruolo dei privati. In aggiunta, dovrebbero ovviamente continuare ad esistere quegli strumenti che premiano i comportamenti virtuosi delle aziende agricole in relazione alle peculiarità del settore che tutti regolarmente sottolineiamo, in particolare quelle relative alla produzione di esternalità positive.
Ma una Pac fatta di strumenti di assicurazione del reddito e di strumenti “mirati” che premino le esternalità ambientali e sociali prodotte dall’attività agricola non credo sarebbe sufficiente a garantire lo sviluppo e la modernizzazione dell’agricoltura. Credo che serva qualcosa di più e che ciò debba derivare in modo particolare da un’altra delle cause “tradizionali” di debolezza strutturale dell’agricoltura, quella dell’estrema frammentazione dell’offerta. La forte concentrazione dei settori a monte (ad esempio l’industria produttrice di input chimici e meccanici) e a valle (in particolare la distribuzione alimentare) pone sicuramente l’agricoltura in una posizione di svantaggio derivante dal potenziale esercizio di potere oligopolistico/oligopsonistico da parte di questi soggetti. Ma anche in questo caso la risposta non credo stia nell’erogare un sostegno universale a tutte le aziende. Ritengo invece che siano necessarie politiche che aiutino le imprese a superare questa situazione. Da un lato è necessaria una seria politica della concorrenza che punisca gli abusi derivanti dalle varie forme di potere di mercato, politica in cui il nostro paese certamente non brilla. Altri paesi Ue sono molto più avanti, basti pensare al caso britannico, dove i colossi della distribuzione alimentare sono costantemente nel mirino dell’autorità antitrust nazionale. Dall’altro, sono necessarie politiche più incisive per favorire le varie forme di concentrazione dell’offerta. Se qualcuno dei partecipanti al Forum ha giustamente lamentato i risultati non esaltanti di molte politiche del cosiddetto secondo pilastro, credo che anche sul successo della cooperazione agro-alimentare e delle Organizzazioni dei produttori (si veda ad esempio il caso dell’ortofrutta) ci sarebbe molto da discutere, specialmente con riferimento al nostro Paese.
Eppure questa è la strada: come non possiamo fare a meno di strumenti mirati che premino le esternalità positive, così non possiamo fare a meno della cooperazione e dell’associazionismo agro-alimentare come strumenti di concentrazione dell’offerta. Si dovrà ovviamente cercare di imparare dagli errori del passato, avendo ben presente che il problema della frammentazione non riguarda soltanto l’agricoltura, ma anche l’industria alimentare, specialmente in Italia, dove la dimensione media delle imprese di trasformazione è decisamente più bassa rispetto alla media europea.
Credo che il mix di politiche che ho cercato di illustrare possa entrare a pieno titolo nel capitolo “competitività” degli obiettivi di lungo periodo dell’Ue, avendo ben presente che non tutto potrà essere sviluppato a livello europeo. Ad esempio, nella politica della concorrenza il ruolo dei singoli Stati membri è ancora molto rilevante, così come, vista anche la situazione estremamente diversificata all’interno dell’Unione, penso che le politiche per la concentrazione dell’offerta debbano godere di un significativo contributo a livello nazionale. Forse, uno degli elementi della nostra riflessione dovrebbe proprio essere questo: se fino ad oggi abbiamo delegato alla Pac il ruolo di politica chiave per il sostegno e la modernizzazione del sistema agro-alimentare, oggi è probabilmente giunto il momento di ripensare ad una politica agro-alimentare nazionale, che entri a pieno titolo tra le politiche industriali del nostro paese a che integri e completi una Pac rinnovata.

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