La cooperazione agroalimentare in Italia: prospettive e strategie di sviluppo

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La cooperazione agroalimentare in Italia: prospettive e strategie di sviluppo

Introduzione

Nel mese di giugno di quest’anno è stato presentato il secondo Rapporto, per il biennio 2008-2009, dell’Osservatorio della Cooperazione Agricola Italiana (2011), organismo promosso e istituito dal MIPAAF a cui partecipano tutte le organizzazioni di rappresentanza del movimento cooperativo di settore.
In questo lavoro si analizzano i dati del Rapporto per fare un quadro dello stato di sviluppo della cooperazione agroalimentare nel nostro paese per poter, e quindi, discutere i problemi dell’organizzazione dell’agricoltura italiana di cui la cooperazione è una parte molto importante.

Alcune conferme sulla cooperazione agroalimentare italiana

I dati del Rapporto 2008/2009 (AA.VV, 2011) confermano, in gran parte, quelli del biennio precedente. La cooperazione agroalimentare associata in Italia è rappresentata, soprattutto, da piccole imprese, ben il 63% ha un fatturato inferiore e 2 milioni di euro e solo il 2% supera i 40 milioni. E’ una realtà molto diversa tra Sud e Nord perché il 42% delle cooperative si trova nelle regioni settentrionali e realizza quasi l’80% del fatturato totale (34.362 milioni. di euro) , mentre il 43% presente nelle regioni meridionali ne realizza solo il 14%. Questi dati non si discostano significativamente da quelli del biennio 2006/2007, salvo un piccolo aumento dell’incidenza del fatturato al sud dal 13% al 14%, che è il risultato, però, di un incremento del 22% nel triennio 2006-2008. Questa dicotomia tra la struttura della cooperazione agroalimentare al nord e al sud del Paese non consente, tuttavia, di esprimere un giudizio immediatamente negativo sull’esperienza cooperativa in questo settore.
La dimensione media delle cooperative agroalimentari al nord supera gli 11 milioni di fatturato (2,2 milioni al sud), oltre quindi la media europea, con circa 24 addetti (9,1 addetti al Sud), per una produzione per addetto di circa 450 mila euro (241 mila euro al Sud). Da questi dati si evince subito la minore efficienza produttiva delle cooperative meridionali, ma se si calcola la produttività per addetto (fatturato/addetti) dell’industria alimentare secondo le stime diffuse da Federalimentare (2010)1 nel 2009 e 2010 si può accertare che questa si aggira sui 300 mila euro, per cui si può concludere che la formula cooperativa, quando lo “strumento” impresa è gestito correttamente, non è la causa dell’inefficienza. Pur con i limiti che sono stati rilevati di dimensione delle imprese e di distribuzione territoriale, la cooperazione costituisce un canale privilegiato della valorizzazione della produzione agricola italiana, perché assorbe il 36% della PLV agricola nazionale tra conferimenti e acquisti di input e sviluppa il 24% del fatturato dell’industria alimentare. Ovviamente la diversa distribuzione e concentrazione delle imprese cooperative a sud e a nord del paese incide anche sul ruolo che la cooperazione svolge a supporto dell’agricoltura delle due parti d’Italia: 57,3% della PLV agricola è assorbita dal canale cooperativo nelle regioni settentrionali, mentre solo il 15,2% in quelle meridionali.
Un dato molto importante è rappresentato dal fatto che l’86% degli approvvigionamenti della cooperazione agroalimentare è costituito dal conferimento dei soci. Questo dato, oltre a confermare largamente la natura mutualistica della cooperazione agroalimentare italiana, testimonia il forte rapporto della cooperazione con il territorio (82% degli approvvigionamenti ha origine nazionale) e, quindi, il controllo di filiera esercitato nei confronti della produzione e la naturale mission della cooperazione agroalimentare a difesa e valorizzazione dell’origine2.
Il canale cooperativo presenta ancora qualche debolezza sul mercato perché soltanto il 46% del fatturato viene realizzato attraverso canali di accesso diretto - la GDO (31%), il dettaglio tradizionale (9%), l’HoReCa (Hotel, Ristorazione e Catering) (6%) - con prodotti a marchio proprio o a marchio commerciale (private label), mentre la parte restante viene collocato attraverso l’intermediazione di grossisti o come semilavorati ad altre imprese. I comparti dove la cooperazione riesce a raggiungere maggiormente il mercato con prodotti finiti a marchio proprio sono il vitivinicolo e il lattiero caseario, dove parte del prodotto viene distribuito confezionato.
La ridotta dimensione di molte cooperative non consente di intrattenere rapporti stabili con la GDO In base ai risultati dell’indagine diretta la quota di fatturato collocata attraverso la GDO passa dal 7% delle cooperative fino a 2 milioni di euro al 35% delle cooperative oltre i 40 milioni di euro; per contro nelle piccole cooperative è molto importante la quota di fatturato realizzata con la vendita attraverso spacci aziendali o punti di vendita dislocati negli stessi stabilimenti, che raggiunge il 17-18% del fatturato nelle cooperative fino a 7 milioni.
Nella scelta del canale di vendita pesa sull’impresa cooperativa la necessità di disporre a scadenze stabilite della liquidità necessaria per garantire il pagamento dei soci. I canali di vendita devono assicurare alle imprese cooperative flussi di cassa compatibili con tali scadenze e non sempre è possibile farlo puntando su un solo canale, per cui quasi tutte le cooperative preferiscono stabilizzare ricavi e flussi operando attraverso un mix formato da canali al dettaglio e all’ingrosso.
Quest’ultimo canale resta importante per qualsiasi classe di fatturato (è il 23% del mix per le cooperative fino a 2 milioni e scende al 19% nelle cooperative oltre 40 milioni), particolarmente nel settore vitivinicolo dove arriva al 36%.
La dimensione e la rigidità del ciclo finanziario rappresentano un limite anche per spingere le cooperative a sviluppare le proprie vendite sul mercato estero, infatti, l’indagine strutturale ha permesso di accertare che solo il 27% delle imprese cooperative avanzate esporta e, nel complesso, il peso della cooperazione agroalimentare sul totale delle esportazioni del comparto è pari al 9,1% contro una partecipazione del 24,2% alla produzione totale3.
La scarsa penetrazione sui mercati esteri è certamente collegata ad alcuni limiti strutturali dell’impresa cooperativa (ridotta dimensione delle imprese e rigidità del ciclo finanziario4), manageriali (insufficiente formazione) e di sistema, questi ultimi comuni anche alle imprese non cooperative (ad esempio, presenza di inefficienti reti logistiche e scarsità di uffici nazionali di supporto sui mercati esteri), che frenano la propensione ad esportare delle imprese cooperative. Un fattore di successo della nostra cooperazione sui mercati esteri è che questo tipo d’impresa può garantire più di ogni altra, grazie ai suoi stretti rapporti con la produzione agricola, i valori del made in Italy, che tanto appeal hanno sulla domanda del consumatore. E’ importante, però, che il localismo che caratterizza la fase di approvvigionamento dell’impresa cooperativa, perché vincolata alla quantità e alla tipologia di materia prima conferita dai soci, non la freni nell’adattare la propria offerta alla domanda del mercato, soprattutto sui mercati internazionali, dove la competizione è più aperta.
L’attenzione alla qualità del prodotto, l’esigenza di ampliare la gamma, l’importanza di garantire l’origine del prodotto offerto per imprese che operano strettamente legate alla fase di produzione sono caratteristiche che emergono prepotentemente nell’analisi che è stata condotta sulla presenza della cooperazione anche sul mercato interno, che richiede sempre di più che l’impresa cooperativa non sia solo il terminale delle scelte produttive dei soci, ma che sia il centro di una strategia in cui i soggetti principali (i soci) e il soggetto secondario (l’impresa cooperativa) del rapporto cooperativo (Emelianoff, 1942)5 siano corresponsabili per il raggiungimento dell’obiettivo comune.
La dimensione in termini di fatturato è il fattore che incide maggiormente sull’efficienza e la redditività delle imprese cooperative, come più volte rilevato in precedenza e dimostrato chiaramente dall’analisi di performance condotta sui bilanci di 2.396 cooperative. Tutti i principali indicatori di bilancio tendono a migliorare mano a mano che la dimensione delle cooperative analizzate cresce, solo l’indice di patrimonializzazione (incidenza del capitale netto su capitale investito) è migliore nelle imprese sotto i 2 milioni di fatturato (21,9% contro 19,6% in quelle oltre 40 milioni di fatturato), ma ciò dipende dal minore ricorso al credito delle piccole imprese cooperative, che può essere anche un segnale negativo in termini di operatività. Anche in termini di redditività le imprese cooperative più grandi raggiungono risultati migliori; a tale proposito, lasciando da parte il tasso di redditività del capitale, data la specificità di contabilizzazione dei conferimenti, è molto significativo l’indice di efficienza espresso dai ricavi per unità di costo del lavoro che passa da 6,4 milioni nelle fasce di fatturato sotto i 2 milioni di euro a 12,8 milioni nelle cooperative oltre 40 milioni.
La dimensione dell’impresa influenza anche la propensione ad investire. Le risposte date nell’analisi strutturale hanno permesso di accertare che quasi tutte le imprese cooperative (91%) oltre i 40 milioni di euro hanno investito nel corso del 2009 malgrado la difficile situazione congiunturale, mentre hanno investito molto meno quelle delle classi inferiori di fatturato, solo il 48% di quelle sotto i 2 milioni di euro. La dimensione dell’impresa cooperative influisce, quindi, sulla sua efficienza e sulla sua capacità di sviluppo.
A queste conclusioni giungeva anche il Rapporto 2006/2007 (AA.VV, 2009), sostenute dai risultati della parte speciale che approfondiva le ragioni e le strategie di concentrazione e integrazione della cooperazione agroalimentare, tuttavia il Rapporto affermava anche che la presenza di tante piccole cooperative non permetteva di concludere che queste sono costrette a crescere oppure sono destinate a scomparire. Molte piccole cooperative assolvono, infatti, un ruolo fondamentale di servizio e di sviluppo nella dimensione locale in cui operano, ma è il sistema cooperativo nel suo complesso, fatto da strutture di servizio degli organismi di rappresentanza, da consorzi, da cooperative di 2° grado e da altre forme di organizzazione dell’offerta, che deve consentire alle piccole cooperative di poter competere anche su mercati più vasti.

Strategie e politiche di sviluppo della cooperazione agroalimentare

Non serve cercare dei riferimenti bibliografici per trovare conforto all’affermazione che, se la cooperazione agroalimentare ha fatto nel nostro Paese dei grandissimi progressi, come ha ampiamente confermato il Rapporto 2008/2009, il potere contrattuale degli agricoltori, di cui la cooperazione è strumento, è ancora molto basso.
Si potrebbe rispondere, che la cooperazione agroalimentare italiana è certamente cresciuta molto, raggiungendo numeri importanti in termini di presenza sul territorio, dimensione aziendale e quota di prodotto lavorato e/o commercializzato in alcuni comparti, ma in misura ancora insufficiente e, soprattutto, squilibrata sul territorio nazionale.
Quando nella discussione sullo stato della nostra cooperazione si arriva a questa constatazione, solitamente per trovare delle soluzioni si propongono gli esempi virtuosi della cooperazione olandese, danese, francese o di altri Paesi che dimostrerebbero, invece, di aver raggiunto dei traguardi di organizzazione e di controllo del mercato che sono ancora lontani per la cooperazione agroalimentare italiana. A parte il fatto, che anche la cooperazione virtuosa ha i propri problemi da risolvere, uno per tutti la debolezza contrattuale nei confronti della GDO, problema presente a livello internazionale non solo per le imprese cooperative, bisogna riconoscere che la cooperazione agroalimentare di quei paesi ha raggiunto in termini di dimensione aziendale, presenza sul territorio e quote di prodotto lavorato e commercializzato (in alcuni comparti si tratta di vero e proprio controllo del mercato) traguardi molto più importanti della cooperazione italiana. La soluzione del problema sembrerebbe, quindi, facile: bisogna che la cooperazione agroalimentare italiana continui a crescere e, soprattutto, che cresca molto di più, in termini quantitativi e qualitativi (manageriali), nelle regioni meridionali. Questa, però, è una soluzione troppo facile, perché forse non basta che le cooperative siano solo più numerose, più grandi ed efficienti, ma è necessario che facciano parte di una agricoltura che sappia fare sistema, intendendo con ciò una agricoltura che con le sue organizzazioni professionali ed economiche, sostenute dall’intervento pubblico, sappia superare le divisioni di parte e d’impresa per riuscire a rafforzare la posizione del settore agricolo nelle relazioni di filiera.
In ogni caso, è importante che la cooperazione agroalimentare continui a crescere, soprattutto, nelle regioni dove la sua presenza è ancora insufficiente, ma si può affermare, senza paura di smentita, che da quasi un ventennio manca una politica pubblica specifica a sostegno dello cooperazione agraria e agroalimentare6. Praticamente, negli anni ‘60 e ‘70 i Piani verdi e, di seguito, fino alla fine degli anni ‘80, prima il Piano agricolo nazionale del ministro Marcora con la famosa legge “Quadrifoglio” n. 984/78 e poi i Piani Paldolfi e Mannino, dai nomi dei Ministri che li hanno proposti, con le relative leggi pluriennali di spesa, assegnavano alla cooperazione un ruolo nodale per la modernizzazione del settore agricolo, prevedendo la promozione e il finanziamento di impianti di trasformazione da parte di cooperative e consorzi e di altre forme associative nei diversi comparti, riconoscendo un ruolo strategico alle strutture di 2° e 3° grado.
Purtroppo l’inizio degli anni ‘90 registra anche la fine della lunga esperienza della più grande cooperativa agroalimentare nazionale ed europea, sia pure con uno statuto speciale, la Federconsorzi, e la crisi del sistema dei consorzi agrari che, nel bene e nel male, hanno segnato per un secolo la storia della cooperazione agricola italiana.
Quasi in contemporanea, il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ha provocato una interruzione della continuità dell’azione del Ministero dell’agricoltura.
Insieme con le proposte di abrogazione della legge istitutiva del Ministero nei primi anni 90’ (referendum 1993), si è andata sempre più delineando una linea governativa di riduzione di poteri e di risorse del nuovo Ministero delle politiche agricole accentuando il trasferimento di competenze alle Regioni, le cui politiche sono il risultato, per risorse e strumenti impiegati, prevalentemente della Politica agricola comune (PAC). Per quanto riguarda la cooperazione agroalimentare ciò ha significato la scomparsa di una legislazione specifica a suo favore, in quanto è diventata uno dei soggetti nell’ambito delle politiche comunitarie dirette a sostenere lo sviluppo, prima, delle associazioni di produttori e, poi, delle organizzazioni di produttori. E’ molto significativo, che nel D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, chiamato comunemente “Legge di orientamento”, al Capo IV, “Rafforzamento della filiera agroalimentare”, vengano poste sullo stesso piano, al fine di accedere agli aiuti, le società cooperative agricole che utilizzino prevalentemente prodotti conferiti dai soci, le organizzazioni di produttori e le società di capitali di cui oltre il 50% del capitale sia sottoscritto da imprenditori agricoli e che gran parte dello stesso Capo IV sia dedicato a disciplinare le organizzazioni di produttori. Si può verificare anche, che nei Piani di sviluppo rurale (PSR) delle Regioni, che si sono succeduti negli anni 2000, nelle misure destinate all’ammodernamento delle aziende o al miglioramento delle condizioni di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli quasi mai vengono adottati criteri di priorità o di preferenza che favoriscano le imprese cooperative rispetto alle altre forme associate anche di capitale7.
E’ evidente, che in assenza di una politica nazionale a favore della cooperazione agroalimentare, supportata da adeguate risorse a destinazione vincolata, e in presenza della moltiplicazione dei centri di decisione dal Ministero alle Regioni, per le organizzazioni di rappresentanza del movimento cooperativo è diventato molto più difficile sia imprimere delle linee di sviluppo alle imprese associate sia svolgere una efficace azione di lobbying nei confronti delle Istituzioni. E’ un problema che viene fortemente sentito anche dalle Organizzazioni professionali che hanno perso parte della loro capacità di pressione perché il Ministero non ha più i mezzi e le risorse che aveva fino agli anni ‘90 e, a livello regionale, non sempre dispongono di rappresentanze adeguate o in linea con i partiti di governo.
Uno dei tanti problemi dell’agricoltura italiana è oggi anche la scarsa efficienza della sua organizzazione in istituzioni-intermedie di rappresentanza delle istanze sociali ed economiche, vale a dire, delle organizzazioni professionali ed economiche espresse dai diversi stakeholder del settore Come è noto, la storia delle organizzazioni professionali ed economiche dell’agricoltura italiana ha radici profondamente impiantate nella terra delle sue aziende8, tuttavia bisogna anche riconoscere che, fin dall’origine, soprattutto in un paese che fino alla metà del secolo scorso era profondamente contadino e rurale, queste organizzazioni vennero inevitabilmente trascinate nel confronto ideologico e politico della stessa società di cui erano parte importante, dividendosi per diventare forze a sostegno di uno o dell’altro partito. Questa situazione si è più nettamente delineata nel dopoguerra, quando addirittura si parlava di collateralismo delle organizzazioni professionali ed economiche ai diversi partiti politici e, senza mezzi termini, venivano definite bianche, rosse o verdi con riferimento non alla bandiera nazionale, ma ai diversi partiti al governo, che sulle organizzazioni professionali e cooperative contavano come bacino di voti (Giacomini, 2000).
Ovviamente, tutto questo portava le organizzazioni di rappresentanza ad avere una struttura orizzontale che unisse le diverse istanze settoriali per aumentare la propria forza verso chi veniva considerato la vera controparte e cioè il Governo, attore delle politiche per il sostegno e lo sviluppo del settore agricolo. La politica comunitaria per l’agricoltura non ha aiutato a modificare la direzione dell’azione delle organizzazioni professionali ed economiche italiane dal confronto con le Istituzioni a quello con il mercato, perché la PAC, dall’origine fino alla riforma Fischler, è stata una politica basata sulla protezione alle frontiere e sui prezzi garantiti, una politica non per il mercato, ma contro il mercato.
L’organizzazione dell’agricoltura italiana è costituita, quindi, da enti di rappresentanza di tipo professionale ed economico organizzati orizzontalmente e non verticalmente, cioè per filiera di prodotto, che costituisce il modello indispensabile per confrontarsi e competere con le altre fasi della trasformazione e del commercio, vale a dire con il mercato.
Inutile che lo si nasconda, quando la Commissione, con il primo regolamento 159/66 ha introdotto le Organizzazioni di produttori nel settore ortofrutticolo, non si è capito subito quale importante strumento potevano essere per avviare l’organizzazione di filiera, per cui sono state considerate, prima, un nuovo soggetto che rischiava di ridurre gli spazi già delle organizzazioni professionali ed economiche, poi, si è perso un sacco di tempo a discutere se dovevano avere funzioni normative o operative dando loro, alla fine, una forma giuridica inadeguata ai compiti da svolgere9. Si è cercato, quindi, di inglobarle e neutralizzarle nel sistema esistente (classico è il caso di Federconsorzi che promosse una unione nazionale di sua emanazione). Per ultimo, non sono state certamente sostenute nel loro sviluppo dall’aiuto delle nostre organizzazioni professionali ed economiche.
La conclusione è che il sistema organizzativo della nostra agricoltura non può dirsi soddisfacente ed efficiente. L’agricoltura come settore economico è profondamente cambiata dal dopoguerra ad oggi, tuttavia le sigle delle maggiori organizzazioni professionali ed economiche continuano ad esistere e ne sono nate persino altre, malgrado l’agricoltura nelle moderne economie post-industriali abbia ridotto notevolmente il suo peso e abbia dovuto modificare profondamente gli obiettivi per rispondere alle nuove richieste della società: ambiente, qualità e sicurezza alimentare.
In questo contesto, che non può dirsi certamente positivo, si deve registrare con soddisfazione la recente10 costituzione dell’ “Alleanza delle cooperative italiane” tra AGCI, Confcooperative e Legacoop, organismo nato per coordinare l’azione di rappresentanza del mondo cooperativo nei confronti del Governo, del Parlamento, delle Istituzioni europee e della parti sociali: sindacati dei lavoratori e associazioni datoriali. E’ auspicabile che tale iniziativa possa estendersi negli obiettivi e rafforzarsi.

Alcune considerazioni conclusive

I risultati del Rapporto e l’analisi condotta nel paragrafo precedente sull’evoluzione delle politiche per lo sviluppo della cooperazione agroalimentare permettono di concludere che la nostra agricoltura, chiamata ad affrontare la competizione del mercato mondiale, mai come ora ha bisogno di una cooperazione forte. Non basta, però, che aumentino il numero e la dimensione delle cooperative, soprattutto nelle regioni meridionali. È necessario che la cooperazione sappia fare sistema all’interno delle diverse filiere per concentrare ed organizzare l’offerta in modo unitario e competere con le fasi più a valle della catena alimentare, dove si forma gran parte del valore aggiunto.
Per quanto riguarda il primo punto, è evidente che è necessaria una nuova politica per la cooperazione agroalimentare, forse non per incentivare la costruzione di nuovi impianti nelle regioni settentrionali, cosa ancora necessaria in quelle meridionali, ma per favorire forme di aggregazione e concentrazione tra le imprese, per promuovere il rinnovamento tecnologico, per agevolare l’accesso al capitale di credito e per far crescere sul piano manageriale il capitale umano della cooperazione.
La prima obiezione che potrebbe essere sollevata, soprattutto dalle Regioni, è che la cooperazione non è considerata un soggetto specificatamente meritevole di intervento pubblico dalla normativa comunitaria, pur attenta alle forme associate nominate genericamente come organizzazioni di produttori, se non disciplinate da singole OCM (ad esempio, ortofrutta).
Il Rapporto ha dimostrato che le cooperative agroalimentari sono tutte a prevalente scopo mutualistico, quindi si collocano nella fattispecie prevista dall’art. 45 della nostra Costituzione, la quale stabilisce che “ La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei………”, inoltre, sono “società agricole”, a norma dell’art. 10 del D. Lgs. n. 228/2001, e possono essere riconosciute come “imprenditore agricolo a titolo professionale” (IAP), quando vi siano i requisiti di legge11. Sembrerebbe naturale concludere, ma la scarsa attenzione alla cooperazione nella politica agraria nazionale testimonia il contrario, che per il combinato disposto del requisito di imprenditore agricolo professionale (IAP) di gran parte delle cooperative agroalimentari con quanto stabilisce la nostra legge fondamentale all’art. 45, non dovrebbero esserci dubbi sulla possibilità che la cooperazione possa concorrere con una posizione di priorità e preferenza agli intereventi previsti dalla politica di sviluppo rurale realizzata attraverso i PSR delle Regioni.
Al di la dei requisiti soggettivi, vi sono argomenti di carattere oggettivo ancora più forti a sostegno di una politica a favore della cooperazione agroalimentare. A differenza di qualsiasi altro tipo di società, l’impresa cooperativa di trasformazione può essere considerata una proiezione delle imprese dei soci, i quali conferiscono e non vendono ad essa il prodotto. I soci sono i soggetti principali del rapporto cooperativo, sono essi i veri imprenditori, quindi non si capisce perché, concorrendo individualmente, dispongono dei requisiti soggettivi per poter accedere agli interventi della politica di sviluppo rurale e non lo possono fare, oppure sono messi nella stessa posizione di altre forme associative, quando concorrono collettivamente con il loro strumento che è l’impresa cooperativa.
Il Rapporto ha dimostrato che assieme a un insufficiente sviluppo della cooperazione nel nostro Paese, soprattutto nelle regioni meridionali, uno dei problemi maggiori dell’agricoltura italiana è che le sue imprese, anche quelle che sono espressione di momenti di aggregazione e collaborazione tra i singoli agricoltori, come le cooperative, non riescono spesso a fare sistema all’interno delle diverse filiere compromettendo il potere contrattuale dell’offerta alla produzione rispetto le fasi più a valle.
Il modello che la Comunità ha proposto negli anni per superare questo handicap è quello delle “associazioni di produttori”12 diventate poi “organizzazioni di produttori”, particolarmente in alcuni comparti dove sono diventate supporto essenziale per l’attuazione delle relative OCM (ortofrutta, olio, vino, luppolo, bachicoltura, tabacco).
E’ noto a tutti, che questo modello ha avuto uno scarso, anzi scarsissimo, successo nel nostro paese. Le ragioni sono diverse, ma soprattutto questo modello è stato sentito estraneo all’organizzazione dell’agricoltura italiana e, al massimo, è stato recepito, quando si trattava di applicare alcune normative comunitarie, per trarne i relativi benefici; è noto il caso della soia, quando c’è stato il passaggio dell’aiuto dall’industria all’agricoltura, quello del pomodoro per ragioni simili e anche, ma con una rapida discesa verso l’insuccesso, quando si è trattato di fissare a livello regionale il prezzo del latte, pratica durata solo alcuni anni.
Malgrado questa serie di insuccessi o di difficili successi, questo modello viene riproposto anche dalla nostra “Legge di orientamento”, D. Lgs. n. 228/n. 2001, a cui sono seguiti una serie di altri decreti legislativi (n. 99/2004 e n. 102/2005) rimasti quasi del tutto inattuati, e dalla OCM unica, regolamento (CE) n. 1234/2007, che di fatto lo estende a tutti i settori (art. 124) e, per la prima volta, riconosce ufficialmente agli Stati membri la possibilità di costituire Organizzazioni interprofessionali (OI)13 anche al di fuori delle OCM, che specificatamente li prevedono (ad esempio, ortofrutta)14.
L’unico settore dove nel nostro paese e anche nel resto della UE questo modello ha avuto successo, sia pure con alcune ombre 15, è quello ortofrutticolo dove rappresenta il perno della relativa OCM, in particolare dopo la riforma del 1996, regolamento n. 2200/96 quando, attraverso i Programmi operativi e i Fondi di esercizio, si è creata una sorta di complementarità (risorse comunitarie e risorse dei produttori soci in pari misura) tra Commissione e Organizzazioni di produttori nel finanziamento e nella realizzazioni dei programmi secondo gli obiettivi assegnati dalla stessa Commissione.
Anche le organizzazioni di rappresentanza del movimento cooperativo in un recente documento16 affermano che tra le priorità della nuova PAC c’è quella di rafforzare la posizione competitiva degli agricoltori nella catena alimentare e di sviluppare delle misure di orientamento al mercato attraverso la valorizzazione del ruolo delle forme di autogestione dei produttori e, in particolare, attraverso le Organizzazioni di produttori (OP).
Nello stesso documento le organizzazioni di rappresentanza del movimento cooperativo chiedono che venga esteso a tutti i settori produttivi il modello delle Organizzazioni di produttori (OP) in vigore nell’OCM ortofrutta, ovviamente adattato alle specificità dei diversi comparti, e che venga introdotto anche lo strumento delle Organizzazioni interprofessionali (OI) necessarie per fissare regole e attivare azioni condivise dagli operatori nel rispetto delle norme di concorrenza.
All’interno di questo progetto, le cooperative e le OP non sono soggetti diversi; la forma cooperativa, per le caratteristiche di democraticità richieste dalla stessa regolamentazione comunitaria che le ha istituite, è certamente la più adatta per dare forma societaria alle OP, nello stesso tempo una cooperativa che diventi OP è una cooperativa con delle funzioni e delle possibilità in più perché può concentrare l’offerta, potendo arrivare persino a richiedere l’estensione erga omnes delle norme che valgono per i suoi soci, e diventare gestore di misure comunitarie attraverso il cofinanziamento dei Programmi operativi.

Riferimenti bibliografici

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  • AA.VV. (2009), Osservatorio della cooperazione agricola italiana. Rapporto 2006-2007, MIPAAF, Roma

  • Costi R. (2004), “Relazione di sintesi”, in Borzaga C., Fici A. (a cura di), La riforma delle società cooperative. Vincoli e opportunità nel nuovo diritto societario, Edizioni31, Trento

  • Emelianoff I. (1942), Economic Theory of Cooperation, Ann Arbor, Edward Brothers

  • Federalimentare, Industria alimentare italiana. Le cifre di base, 2010, [link]

  • Galbraith J.K. (1978), Il capitalismo americano, Etas/Libri, Milano

  • Giacomini C. (2000), “Le organizzazioni economiche e professionali degli agricoltori nel Novecento”, in La Società Italiana degli agricoltori (a cura di), L’Italia agricola nel XX secolo, Storia e scenari, Meridiana Libri, Donzelli Editore, Roma

  • Mediobanca (2011), Le medie imprese industriali italiane, [link]

  • Rio Y., Nefussi J., 2001, Gérer les marchés et la qualité alimentaire: double défi pour les interprofessions, Cahiers Club Dèmeter n. 10

  • MIPAAF, Piano strategico nazionale per lo sviluppo rurale, 21 giugno 2010, [link]

  • 1. Le elaborazioni e le stime di Federalimentare su dati di fonte Istat sono riferite solo alle imprese con oltre 9 addetti. Anche la produttività per addetto calcolata sui dati di bilancio 2008 del campione di medie industrie alimentari di Mediobanca (2011) pari a 478 mila euro, conferma il giudizio sulla buona performance dell’industria alimentare cooperativa localizzata nelle regioni settentrionali.
  • 2. E’ interessante osservare, che l’indagine diretta su un campione di 513 aziende cooperative avanzate (aziende con, in media, oltre 14 milioni di fatturato e più di 20 addetti) ha evidenziato che ben il 97% degli approvvigionamenti ha provenienza nazionale, di cui il 73% ha origine locale a dimostrazione che “l’origine” è un fattore competitivo molto importante anche per imprese che, data la dimensione, non collocano la loro produzione soltanto sul mercato locale.
  • 3. Il tema della internazionalizzazione delle cooperative agroalimentari viene sviluppato da un articolo di Ersilia di Tullio e Paolo Bono in questo stesso numero di Agriregionieuropa.
  • 4. La evidente maggiore rischiosità delle vendite all’estero scoraggia spesso le vendite su questi mercati, a fronte della necessità di assicurare alla scadenza il pagamento del prodotto conferito ai soci.
  • 5. Emelianoff (1942) considera la cooperazione come un aggregato di imprese costituito da soggetti principali (i soci) uniti dal comune interesse e un soggetto secondario (l’impresa cooperativa) che è strumento per raggiungerlo. Esiste un legame funzionale (nesso cooperativo) tra impresa cooperativa e le economie dei singoli membri, spiegabile con il sottosistema associativo da cui dipendono i rapporti tra i soci e tra questi e l’impresa cooperativa a cui hanno dato vita.
  • 6. Anche l’approvazione della legge n. 59/1992, “Nuove norme in materia di società cooperative”, con l’introduzione dei soci sovventori e delle azioni di partecipazione cooperativa non ha dato un significativo impulso allo sviluppo della cooperazione nel comparto agroalimentare dove la presenza dei soci apportatori di capitale è piuttosto rara.
  • 7. In questo incide anche il timore, giustificato, che eventuali criteri di preferenza e priorità a favore delle cooperative vengano respinti e sanzionati dalla Commissione in quanto potrebbero essere considerati lesivi del principio di parità delle condizioni di concorrenza.
  • 8. Con ciò si intende che sono nate per rispondere ad interessi reali espressi o dal confronto tra lavoratori e capitale o dalla necessità di aggregazione per esprimere quello che Galbraith (1978) chiama “potere controbilanciante”.
  • 9. Forma di associazione non riconosciuta, ex art. 14 e seguenti del C.C , nemmeno dotata di personalità giuridica, e non l’attuale forma societaria, stabilita dall’art. 40 della legge 24 aprile 1998, n. 128.
  • 10. A Roma il 27 gennaio 2011.
  • 11. In base all’art. 1, comma 3 del D. Lgs. n. 99/2004 una società cooperativa può essere riconosciuta come imprenditore agricolo professionale (IAP) se almeno un quinto dei soci sia in possesso della qualifica di IAP.
  • 12. E’ interessante leggere nei primi consideranda del regolamento n. 1360/78 concernente le associazioni di produttori il giudizio che la Commissione da sulla insufficiente organizzazione dell’offerta in Italia, in alcune regioni della Francia e in Belgio.
  • 13. Secondo Rio e Nefussi (2001) elementi necessari dell’interprofessione sono: la presenza di operatori che esercitano professionalmente delle attività legate tra loro nell’ambito di una filiera, che trattano lo stesso prodotto (o una famiglia di prodotti omogenei) in un territorio definito (regione o nazione), che elaborano delle strategie comuni a partire da una volontà democraticamente espressa e che beneficiano, per questo motivo, di un’ampia delega di poteri da parte dell’Autorità pubblica.
  • 14. In Italia solo nel settore dell’ortofrutta esiste una Organizzazione interprofessionale riconosciuta, il cui livello di operatività è piuttosto insoddisfacente.
  • 15. Solo poco più del 34% della produzione ortofrutticola italiana è organizzato in OP.
  • 16. Confcooperative- Fedagri, Legacoop agroalimentare, AGCI Agrital, Documento di riflessione e proposte della cooperazione agroalimentare italiana sul futuro della PAC, Roma, Giugno 2010.
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