Editoriale n. 56 – Riflessioni sulla Pac nel futuro dell’UE

Editoriale n. 56 – Riflessioni sulla Pac nel futuro dell’UE

Agriregionieuropa si ferma

Come già annunciato, con questo numero sospendiamo l’uscita di Agriregionieuropa. La situazione finanziaria dell’Associazione Alessandro Bartola, che ha finora sostenuto la pubblicazione della rivista e tutte le iniziative ad essa connesse, si è fatta difficile. Non c’è niente di sorprendente in questo esito. Mai infatti, nella vita della rivista, abbiamo avuto la condizione per essere ottimisti oltre il breve termine. Semmai, sorprendente è che Agriregionieuropa sia stata pubblicata con regolarità per 14 anni e 56 numeri, aggiungendo di volta in volta nuovi servizi: le finestre, i corsi e-learning, le collane, la newsletter, il glossario, ecc. Ma questa volta, nonostante l’indubbio successo testimoniato dagli oltre due milioni di accessi unici al sito (831 al giorno nel 2018), non siamo riusciti a trovare i fondi, peraltro di modesta entità, necessari per proseguire.
Il successo di Agriregionieuropa è dovuto a due fattori. Il primo è che la rivista ha risposto ad un effettivo bisogno, al fatto di avere riempito un vuoto. Da una parte, infatti, la ricerca accademica tende spesso all’auto-referenzialità ed è inaccessibile a chi ha bisogno dei suoi risultati, sia per la terminologia e la metodologia sofisticate, sia perché quasi esclusivamente in inglese. Dall’altra parte, le riviste di settore a più ampia diffusione nel nostro paese non hanno carattere e finalità scientifiche. C’era, dunque, e c’è ancora più che mai bisogno in Italia per l’agricoltura e lo sviluppo rurale di una rivista che coniughi il rigore scientifico con il linguaggio divulgativo, che getti un ponte tra ricerca e attori: imprenditori, professionisti, decisori politici, funzionari delle organizzazioni professionali e sociali, cittadini a vario titolo interessati ai suoi temi.
Il secondo fattore del successo di Agriregionieuropa è stata la generosa collaborazione di tutti coloro che, con le proprie ricerche (gli autori sono stati oltre 1.500) e con il proprio impegno nella redazione, nel comitato scientifico, nella revisione, nell’editing, hanno reso possibile che si producesse questo straordinario bene pubblico.
Poiché proprio di un bene pubblico si tratta, resta ancora la speranza che si creino presto le condizioni, umane e materiali, per riprendere e rilanciare il progetto su basi nuove e più solide.

Alla ricerca dei motivi che hanno suggerito le proposte per la Pac post-2020

Agriregionieuropa esce questa volta in un momento cruciale per l’Europa e la Pac. È già da tempo iniziata la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo. Si assiste nell’UE ad una crescita dei movimenti euroscettici che, anche se non riusciranno secondo le previsioni a sovvertire le maggioranze negli organi dell’Unione, certamente opereranno per condizionarne l’attività. Nel frattempo, il travagliato iter della Brexit mostra quanto pesanti siano i costi della “non-Europa”: quanto sia complesso e penalizzante rinunciare ai tanti vantaggi dell’adesione ad un’area di libero scambio e ad un sistema di regole e politiche comuni (senza negare i difetti).
Gli articoli del Tema di questo numero trattano delle proposte di riforma della Pac per il dopo 2020. I testi sono rielaborazioni e aggiornamenti delle relazioni presentate in due appuntamenti molto interessanti: il primo, organizzato da Aieaa, Crea PB e Agriregionieuropa, si è svolto a Roma il 30 novembre 2018 [link], il secondo, organizzato dalla Regione Basilicata, si è tenuto a Matera nei giorni 6 e 7 dicembre 2018 [link]. Nel loro insieme, gli articoli raccolti presentano un quadro analitico organico ed esauriente delle soluzioni proposte. Con particolare riferimento alle specificità dell’agricoltura e dello sviluppo rurale in Italia, questi contributi scientifici consentiranno ai lettori di orientarsi meglio in questa materia decisamente molto complessa ed ai negoziatori in rappresentanza dell’Italia di partecipare alle future trattative in sede comunitaria con maggiore conoscenza delle poste in gioco e dei possibili vantaggi e rischi per il paese.

In estrema sintesi, sul tavolo delle trattative c’è una proposta (analizzata in questo numero da Maria Rosaria Pupo D’Andrea) che innanzitutto sceglie di conservare l’attuale architettura della Pac con i due pilastri e soprattutto i pagamenti diretti rinominati con una singolare espressione: “sostegno al reddito per la sostenibilità”, senza che ne sia stata cambiata la natura effettiva di sostegno all’ettaro e quindi alla rendita fondiaria (nonostante l’opinione espressa nel suo articolo da Angelo Frascarelli che, personalmente, non condivido). Per tenere il più possibile alto il valore dei pagamenti diretti, a seguito dei tagli al bilancio complessivo della Pac, il sacrificio maggiore in termini di disponibilità finanziarie si riversa sulla politica di sviluppo rurale. La proposta si caratterizza poi per un progetto di deferimento delle decisioni attuative a livello degli Stati membri attraverso l’istituzione dei Piani strategici della Pac. È questo un impianto che per reggersi necessita di due condizioni entrambe difficili a realizzarsi.

  1. La prima condizione è che Bruxelles sia in grado di guidare e coordinare la Pac, sulla base di un sistema di indicatori di output, di risultato e di impatto, mantenendone il carattere unitario di politica “comune”. Su questo punto è lecito esprimere seri dubbi, perché sarà praticamente impossibile per la Commissione sanzionare gli inadempienti sulla base degli indicatori, dal momento che la natura degli interventi è tale che non sarà facile concordare su target ben definiti di risultato e impatto (questo argomento è trattato dall’articolo di Cagliero, Cristiano, Giampaolo, Povellato e Scardera). Il rischio è che l’Unione europea, una volta trasferiti i fondi agli Stati membri, debba o limitarsi ad un controllo solo apparente delle performance e del raggiungimento degli obiettivi, oppure debba cimentarsi in un contenzioso infinito con gli Stati membri su indicatori contestati e obiettivi raggiunti o mancati.
  2. La seconda condizione è che gli Stati membri, a loro volta, non prendano spunto da questa devoluzione di competenze (e di fondi europei) per andare ognuno per la propria strada. Qui l’esperienza insegna. Nel giugno 2013, urgeva arrivare ad una conclusione del negoziato per il settennio 2014-2020. Venne allora trovato l’escamotage, al quale mai prima si era fatto riferimento, di trasferire agli Stati membri gran parte delle decisioni relative all’applicazione dei pagamenti diretti (quelle decisioni che, nelle trattative a Bruxelles, erano le più controverse e avrebbero costretto ad un inevitabile ulteriore rinvio). Il risultato è stato che, in barba al mercato unico, la politica agricola comune, diversificandosi in 32 differenti politiche agricole (nazionali o relative alle entità territoriali in cui sono suddivisi Regno Unito e Belgio), è diventata decisamente meno “comune”, come hanno subito rilevato diversi studi (Anania, Pupo D’Andrea, 2015; Castellotti, 2014; Sotte, Bignami, 2015) e il Comitato economico e sociale europeo (2015). Questa disorganica devoluzione di decisioni, che allora sembrava una scelta dettata da motivazioni contingenti, nelle proposte per il dopo 2020 diventa una proposta consolidata. Che, con il decentramento delle decisioni, rischia di perdere il coordinamento e mancare gli obiettivi comuni.

Viene da chiedersi perché la Commissione si sia mossa in questa direzione. La tesi ufficiale è che si sia inteso “riequilibrare le responsabilità tra l’UE e gli Stati membri” e operare una “semplificazione sostanziale” (Commissione europea, 2018). Questo orientamento si potrebbe giustificare anche con l’intenzione di togliere qualche argomento alle istanze sovraniste che accusano la Commissione di accentramento dei poteri e di eccesso di burocrazia. Indubbiamente Bruxelles avrebbe un compito semplificato (si veda l’articolo di Pierluigi Londero), dovendo confrontarsi con 27 Piani strategici invece di centinaia di notificazioni, Psr, e strategie settoriali. La complessità però sarebbe trasferita sugli Stati membri. L’Italia (come illustra Franco Mantino) sarebbe chiamata a dipanare la matassa tra potere centrale, titolare e responsabile del piano strategico e del raggiungimento dei target, e le Regioni, spesso in conflitto tra di loro, alle quali la Costituzione riconosce una competenza primaria in materia di politiche agricole e di sviluppo rurale.

Un’altra interpretazione del perché la Commissione abbia scelto la strada della devoluzione agli Stati membri è quella della rinazionalizzazione in due tempi. Al fine di liberare la consistente fetta di bilancio UE oggi attribuita alla Pac per finanziare altre politiche ritenute prioritarie (e non potendolo fare in un’unica tornata), in una prima fase, dal 2021 attraverso i Piani strategici, si trasferirebbero agli Stati membri le decisioni attuative in materia di politica agricola. In una seconda fase, anche alla luce del prevedibile fallimento del tentativo di coordinare adeguatamente la loro azione, forse (con una mid term review introdotta in zona Cesarini?) anche prima della tornata negoziale per la Pac post-2027, si chiederebbe agli Stati membri di pagarsela con i propri bilanci, chiudendo definitivamente il capitolo della Politica agricola comune.

L’Europa al bivio tra passato e futuro

Ormai comunque è certo che la conclusione delle trattative e la definitiva approvazione dei regolamenti per il post-2020 slitteranno a dopo le elezioni. I tempi necessari successivamente per gli adempimenti indispensabili al funzionamento del Parlamento europeo, occuperanno la prossima estate e, tenuto conto che anche la Commissione europea è in scadenza e sarà rinnovata in autunno, il dossier della Pac post-2020 potrà essere ragionevolmente ripreso con impegno verso fine anno.
Cambiando la composizione del Parlamento europeo e della Commissione, non è al momento prevedibile in quale misura le proposte, presentate il 1° giugno 2018 dal Commissario Hogan, saranno effettivamente mantenute. Così è probabile che l’avvio della futura Pac slitti, anche perché agli Stati membri dovrebbe essere concesso il tempo per presentare la propria proposta sul Piano strategico nazionale per l’approvazione della Commissione. Un adempimento che, allo stato attuale delle cose, in base all'articolo 106 della Proposta di Regolamentodovrebbe essere portato a termine entro l’impossibile scadenza del 1° gennaio 2020.

L’eventualità di uno slittamento di uno o più anni, peraltro, è stata da alcuni addirittura auspicata, per rendere il negoziato meno condizionato dalle scadenze e più approfonditamente meditato. Tra questi il Partito Popolare Europeo (Ppe), il gruppo parlamentare di maggioranza nell’attuale Parlamento europeo, ha da tempo proposto il mantenimento dell’attuale Pac fino al 2024 (European People’s Party, 2017)1.
Chi scrive condivide questa posizione. Anche perché il tema della futura Pac, lungi dall’essere argomento settoriale e per addetti ai lavori, si iscrive nella riflessione molto più generale sul futuro dell’Unione europea. Un tema, questo, che viene trattato in questo numero di Agriregionieuropa da Mario Campli che, dopo una esperienza ultraventennale nella rappresentanza agricola e cooperativa a Bruxelles, analizza con competenza e impegno l’assetto istituzionale dell’Unione (Campli, 2014; Campli, 2017).
È tempo ormai, questo è il messaggio, che i nuovi Organi dell’UE, con la partecipazione degli Stati membri e dei loro cittadini, lavorino alacremente ad un riassetto dell’Unione, fondato sulla ricalibratura delle sovranità tra gli Stati nazionali e l’Unione europea. Sulla ridefinizione cioè di quali competenze, in base al principio di sussidiarietà, debbano essere attribuite agli Stati membri e quali invece debbano più opportunamente essere riservate all’Unione, affidando al Parlamento europeo la funzione legislativa.
Il principio di sussidiarietà, che ha natura di principio giuridico stabilito dal Trattato dell’Unione Europea, stabilisce che “nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione” (art.5). In altre parole, spettano all’Unione europea quelle politiche che, con un’espressione ormai consolidata, assicurano un “valore aggiunto europeo”, cioè “risultati migliori di quelli che si potrebbero conseguire a livello nazionale” (Commissione europea, 2018).

Idee per un’altra Pac

Questo implica una riflessione anche sulla Pac, che non può sottrarsi a questo ripensamento: per l’importanza storica che ha avuto, ed ha, nella costruzione europea, e per il suo peso ancora rilevante nel bilancio dell’Unione. Con riferimento agli anni 2030, nel medio periodo, e 2050, nel lungo, e tenendo conto del budget complessivo dell’Unione europea, attualmente e in prospettiva molto limitato, quali competenze in materia di agricoltura e di sviluppo rurale, alla luce del principio di sussidiarietà e delle altre priorità dell’UE, è giusto collocare a livello europeo? E quali è invece il caso di attribuire agli Stati membri o, al loro interno, ai livelli istituzionali più decentrati, come in Italia alle Regioni?
Sono domande queste alle quali, come persone di scienza e come cittadini, non possiamo sfuggire (per rinchiuderci, come spesso ci si riduce, nello stretto recinto delle nostre discipline) ed è completamente sbagliato che, mentre si auspica che il progetto dell’Unione europea faccia passi avanti, si debba sempre ripartire dalla Pac attuale, per definire, con limitati ritocchi o escamotage dell’ultim’ora, soluzioni che non ne cambiano la sostanza e lasciano intatta se non aggravata l’inadeguatezza (oltre alla complessità) della soluzione proposta e successivamente applicata.
Tre sono, a nostro avviso, le ragioni principali per le quali è necessario avere ancora nel futuro dell’Europa una politica agricola comune. Esse sono già bene individuate all’art. 3 del Trattato: (a) mercato unico, (b) sostenibilità, (c) coesione. Tutte implicano maggiore capacità di programmazione a livello europeo e degli Stati membri, un’Unione europea fortemente impegnata sul fronte delle regole, una netta integrazione della politica agricola con le altre politiche dell’Unione ed una spesa comune, infine che, abbandonate le misure a totale carico dell’UE, orienti e coordini l’iniziativa dei singoli Stati membri e delle relative Regioni, con forme modulari di cofinanziamento.

La prima ragione è il mercato unico e riguarda tutte le competenze che ad esso direttamente si connettono: unione doganale, definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento dei mercati, politica commerciale comune, protezione dei consumatori, relazioni commerciali con il resto del mondo. Finché l’intervento pubblico consisteva nella regolazione e nel sostegno dei prezzi agricoli era pienamente giustificato che dovesse essere collocato a livello comunitario per non generare distorsioni alla concorrenza. Ma da quando il sostegno dei prezzi è stato abbandonato ed è stato sostituito da misure a carattere distributivo quali i pagamenti diretti: (a) non c’è più motivo, come giustamente notava già il rapporto Sapir (2004), che la loro collocazione resti nell’ambito della politica agricola comune europea (e del suo bilancio); (b) per evitare effetti distorsivi sulla concorrenza, le politiche nazionali di aiuto alle imprese agricole e rurali, come in tutti gli altri settori produttivi, vanno comunque finanziate dai bilanci nazionali e rese compatibili con la normativa sugli aiuti di Stato.
Detto questo, la politica europea comune per il mercato unico dovrebbe consistere soprattutto in un sistema molto articolato di regole e in misure che, intervenendo soltanto in casi di emergenza, siano finalizzate a garantire la sicurezza alimentare nelle sue due coniugazioni: food security e food safety (questo tema è trattato dall’articolo di Stefano Ciliberti). Abolendo, sia pure con gradualità ma senza indugio, i pagamenti diretti, si libererebbe una notevole quantità di fondi che potrebbero più efficacemente essere utilizzati per gli altri grandi obiettivi della politica agricola e resterebbero anche risorse per le altre priorità dell’UE. Sarebbe questa una soluzione che riporterebbe il costo della Pac ad una dimensione coerente con la molteplicità delle funzioni dell’Unione a fronte delle dimensioni molto modeste del suo bilancio (circa 1% del Pil dell'Unione e 2% della sua spesa pubblica complessiva).

Relativamente al secondo obiettivo, quello della sostenibilità, è evidente il valore aggiunto europeo di una politica comune per il contrasto e l’adattamento al cambiamento climatico, così come per il passaggio dall’energia fossile a quella da fonti riproducibili, la tutela della biodiversità, la conservazione e valorizzazione del paesaggio. Finora questo obiettivo è stato perseguito dalla Pac in modo disgiunto dal resto della politica ambientale dell’Unione, con poche risorse e con misure incoerenti (con vuoti e sovrapposizioni) tra i due pilastri. Nella futura Pac servirebbe un’unica strategia agro-ambientale e per il cambiamento climatico, nel quadro di una politica organica europea per la sostenibilità, con molti più fondi e misure dirette a coprire con forme contrattuali esplicite la compliance agro-ambientale. Verrebbe così abbandonata la foglia di fico della cross-compliance, così come, assieme al vecchio greening, anche i nuovi eco-schemi (Marandola, Vanni trattano questo argomento), troppo ambigui per non destare il sospetto che ancora una volta sul fronte agro-ambientale si cambi la forma per non cambiare la sostanza. Un effettivo cambiamento in termini di modalità di intervento, mirate ad attivare specifici comportamenti, e di deciso aumento dei fondi dedicati alla funzione ambientale dell’agricoltura aprirebbe lo spazio per un consistente contributo all’occupazione nelle aree rurali (come mostra in questo numero l’articolo di Maria Carmela Macrì e Daniela Storti).

Allo stesso modo, con riferimento all’obiettivo della coesione economica, sociale e territoriale, è evidente il valore aggiunto europeo di una politica comune di sostegno allo sviluppo rurale. In quest’ambito, l’azione finanziata dal Feasr va decisamente integrata (e non disgiunta, come fa, al contrario, la proposta di Hogan) con quella degli altri fondi strutturali e di investimento europei (si veda l’articolo di Sabrina Lucatelli e Daniela Storti). E così vanno decisamente rafforzate tutte le misure di sostegno alla competitività del sistema delle imprese agricole e rurali attraverso l’innovazione, la diversificazione, la qualificazione del capitale umano, l’aggregazione dell’offerta, l’integrazione e la gestione dei rapporti nelle filiere (Vagnozzi affronta in questo numero il tema dell’innovazione, Tarangioli quello dell’aggregazione,).

In entrambi questi ultimi due casi, come già avviene, l’intervento europeo va proporzionato e reso complementare con quello degli Stati membri e delle loro Regioni nel quadro di una governance multilivello guidata da programmi in cui la responsabilità decentrata nella gestione si accompagni al concorso nel finanziamento delle relative misure e nel controllo del raggiungimento dei risultati. Su questo punto, una consistente opera riformatrice è necessaria per rendere la programmazione e la gestione delle politiche agro-ambientali e di sviluppo rurale più spedite, efficienti ed efficaci. L’attuale esperienza della politica di sviluppo rurale (alla quale è stato dedicato l’intero n. 52 di Agriregionieuropa) non può essere considerata soddisfacente né a livello europeo, né a livello nazionale e regionale. Troppe sono le misure e sottomisure da gestire, troppa è la loro complessità, troppi gli adempimenti che ostacolano l’accesso agli incentivi, troppo burocratica, superficiale e tardiva l’attenzione dedicata alla valutazione. Del tutto inaccettabili sono infine i ritardi nell’attivazione delle misure e nell’erogazione della spesa. Sono limiti questi che vanno risolti con un impegno straordinario a Bruxelles e a livello nazionale/regionale. La loro presenza non inficia comunque la pressante esigenza di una politica che, per essere proiettata al cambiamento ed al futuro, non può che essere programmata, mirata a obiettivi precisi e calibrata, in termini di spesa, rispetto ai risultati che ci si prefigge di raggiungere.

A quelle elencate si accompagnano altre politiche ad alto valore aggiunto europeo rilevanti per l’agricoltura, ma a carattere più generale, perché riguardano anche altri settori produttivi e tutti i territori: ci riferiamo alla ricerca, alla politica per la sicurezza, ai programmi di scambio di esperienze per giovani imprenditori e simili. Tutte le altre materie attinenti l’agricoltura e lo sviluppo rurale, nel quadro di un sistema di regole comuni e di un bilancio complessivo dell’UE molto contenuto, possono opportunamente essere attribuite alla competenza (e alla copertura finanziaria) degli Stati membri e delle loro istituzioni decentrate: le politiche fiscali, le politiche per il sostegno dei redditi e contro la povertà, le politiche sociali, le politiche per il ricambio generazionale, le politiche fondiarie, la formazione e l’informazione, la politica sanitaria, quella per il controllo di qualità dei prodotti, la politica del lavoro, ecc.

È il caso di rimarcare che una ridistribuzione delle competenze quale quella qui delineata comporterebbe un grandissimo vantaggio immediato per l’Italia. Il nostro paese è infatti contributore netto al bilancio dell’Unione e, al tempo stesso, beneficiario della Pac in misura meno che proporzione rispetto al peso della propria agricoltura. Ne consegue che, a parità di benefici in termini di spesa, realizzerebbe un risparmio molto consistente se finanziasse o co-finanziasse direttamente la propria politica agricola e di sviluppo rurale, invece di contribuire al bilancio UE per poi ricevere indietro da Bruxelles i fondi destinati all'Italia dalla Pac (Sotte, 2017).

Considerazioni conclusive
Come usava dire Jacques Delors, “l’Europa è come la bicicletta, se non va avanti, cade”. È un obiettivo ambizioso quello dell’Europa delle due sovranità distinte e complementari, una europea e l’altra nazionale, ma l’alternativa è quella di continuare a vivacchiare, senza reali speranze di rinnovamento e con il rischio di un collasso e della fine del sogno europeo. Una eventualità che la Pac ha già contribuito a scongiurare in passato quando, dagli anni Sessanta agli Ottanta, è stata l’unica politica compiutamente europea.

Con una riattribuzione delle competenze in materia di politica agraria, quale quella qui delineata, si supererebbe la ripartizione della Pac in due pilastri e si potrebbero concentrare l’impegno e le risorse in una Pac guidata da programmi organici: (a) per il mercato unico, (b) per l’ambiente e il clima, (c) per lo sviluppo rurale nel quadro della strategia per la coesione. Essa renderebbe la politica agricola decisamente più coerente con i principi fondativi e più integrata con le altre politiche dell’Unione europea. Al tempo stesso, responsabilizzando maggiormente tanto l’Unione europea (sotto il controllo democratico del suo Parlamento) che gli Stati membri, consentirebbe di rendere l’intervento più efficiente, efficace ed equo.

Riferimenti bibliografici

  • Anania G, Pupo D’Andrea M.R. (2015), The 2013 reform of the common agricultural policy, in Swinnen J. (a cura), The Political Economy of the 2014-2020 Common Agricultural Policy. An Imperfect Storm, Centre for European Policy Studies, Brussels

  • Campli M. (2014), Europa, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Marotta&Cafiero, Napoli

  • Campli M. (2017), Il tempo d’Europa tra intervallo e durata, Cavinato editore, Brescia

  • Castellotti T. (2014), Le scelte degli Stati membri dell’UE sull’applicazione del primo pilastro della Pac, Agriregionieuropa anno 10 n°38, Set 2014

  • Comitato Economico e Sociale Europeo (2015), La riforma della Pac: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell'applicazione della riforma dei pagamenti diretti, Relazione Informativa del Comitato economico e sociale europeo, Modalità di applicazione della riforma della Pac, NAT/664, Relatore: Mario Campli [link]

  • Commissione europea (2018), Un quadro finanziario pluriennale nuovo e moderno per un'Unione europea in grado di realizzare efficientemente le sue priorità post-2020, Bruxelles, Com(2018) 98 final 14.2.2018

  • Commissione europea (2018), Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sul sostegno ai piani strategici che gli Stati membri devono redigere nell’ambito della politica agricola comune (piani strategici della Pac) e finanziati dal Fondo europeo agricolo di garanzia (Feaga) e dal Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr) e che abroga il regolamento (UE) n. 1305/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (UE) n. 1307/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, Bruxelles, 1.6.2018 Com(2018) 392 final

  • European People’s Party (2017), Epp views on the future of the common agricultural policy: for a strong, sustainable and innovative EU agriculture, Epp Political Assembly, 4 September 2017, Copenhagen [pdf]

  • Sotte F., Bignami F. (2015), Le scelte degli Stati membri sui pagamenti diretti, Agriregionieuropa, anno 11, n.42 [link]

  • Sotte F. (2017), Gli scarsi finanziamenti Pac che arrivano in Italia, Agriregionieuropa anno 13 n°48.

  • Sapir A. et al., (2004) An Agenda for a Growing Europe - The Sapir Report. (Report of an Independent High-Level Study Group established on the initiative of the President of the European Commission, July 2003). Oxford University Press

  • 1.Rather than a hasty reform, the current Cap should thus continue to 2024. This would allow separating the Cap reform from the financial discussions and allow for necessary period of analysis on the impact of Brexit on the EU farm and food sectors and on the implementation of the current policy framework to see what reforms might be fit for purpose at that time”.
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