Abstract
La regolazione giuridica dei mercati agroalimentari si sta orientando verso l’individuazione di strumenti per riequilibrare la posizione delle imprese agricole, soggetti deboli della filiera agroalimentare. Le misure normative già adottate e quelle ancora in veste di proposta possono avere effetti rilevanti sulla redistribuzione del valore nella filiera a vantaggio delle imprese agricole e conseguentemente sulla tutela del lavoro all’interno delle imprese, costrette ad una contrazione dei costi che incide sulla riduzione delle tutele dei lavoratori. Il quadro della regolazione giuridica della filiera, in cui l’attenzione per la tutela del lavoro si rinviene, a tratti, anche nell’attuazione di misure rimesse ai privati, rappresenta il punto di partenza per una adeguata protezione delle imprese agricole, rispetto alla quale resta complementare e imprescindibile la normativa specificamente diretta alla tutela dei lavoratori in agricoltura, soprattutto in relazione alla trasparenza dei rapporti di lavoro a carattere stagionale.
Introduzione
La collocazione dell’impresa agricola all’interno del “sistema agroalimentare” e la regolazione giuridica della filiera costituiscono il quadro normativo di riferimento per comprendere le ricadute sulla regolamentazione, di fonte contrattuale e legislativa, relativa alle tutele del lavoro nelle imprese agricole. E’ un dato ormai acquisito che la dispersione del valore del prodotto lungo la filiera colpisca principalmente i produttori agricoli, sia perché il valore aggiunto dell’alimento finale si arricchisce nel corso delle fasi della trasformazione rispetto alla materia prima agricola, sia perché il potere contrattuale delle imprese del settore primario è fortemente limitato rispetto a quello degli acquirenti dei prodotti: un tempo principalmente le imprese agroindustriali della trasformazione, oggi soprattutto le imprese della grande distribuzione (Commissione Europea, 2009; Parlamento Europeo, 2012; Jannarelli A., 2016; Jannarelli A., 2018; Ciconte e Liberti, 2017). Queste ultime hanno assunto una posizione dominante nella filiera; ad esse si deve imputare non solo l’accresciuta forza contrattuale nel definire le condizioni di acquisto dei prodotti alimentari destinati al consumo (siano essi alimenti trasformati e confezionati ovvero prodotti agricoli sfusi), ma in molti casi anche il controllo, per via contrattuale, del processo di coltivazione e allevamento: come accade nella definizione delle caratteristiche del prodotto agricolo, ai fini della conformità a parametri definiti e controllati direttamente dalle imprese della distribuzione per la realizzazione di “prodotti di filiera controllata” o, in genere, di alimenti a marchio della Gdo.
In questa situazione, le imprese agricole non hanno, per propria debolezza strutturale, la capacità di incidere sulle condizioni contrattuali e soprattutto sulle clausole che definiscono il valore dello scambio. Ne consegue l’esigenza di riorganizzare l’attività di impresa al fine conservarne la competitività ed effettuare le consegne delle materie prime ai prezzi di un mercato aperto a Paesi extraeuropei con costi di produzione più bassi, e a volte anche nel rispetto delle caratteristiche del prodotto finale corrispondenti alle condizioni contrattuali imposte dagli acquirenti. L’organizzazione interna all’impresa subisce effetti che si riflettono anche sul costo del lavoro agricolo (in primo luogo la retribuzione): esso infatti rappresenta la principale variabile rispetto alla quale l’impresa agricola può limitare i costi di produzione (Panié F. Mininni G., 2017; Pinto V., 2017). Del resto, anche taluni costi legati al lavoro sono in crescita e risultano più difficilmente comprimibili: si pensi alla necessità di adeguare l’attività dei lavoratori dipendenti a norme di qualità e sicurezza legate al processo di fabbricazione (es: norme igienico-sanitarie) richieste per la commercializzazione di alimento sicuri, misure essenziali nella logica della filiera, il cui obiettivo è finalizzato ad ottenere prodotti con caratteristiche adeguate agli sbocchi del mercato.
In definitiva, le difficoltà delle imprese nel contenere i costi di produzione, in una competitività basata su prezzi al ribasso delle materie prime agricole, si ripercuotono principalmente sui profili salariali del trattamento dei lavoratori agricoli, già differenziati a causa dalla presenza di una contrattazione decentrata a livello provinciale e caratterizzati da strumenti di flessibilità nell’utilizzo di manodopera (ad esempio, attraverso il ricorso al meccanismo dei voucher per i contratti di prestazione occasionale per l’assunzione di lavoratori stagionali da parte di piccole aziende agricole, reintrodotto dal d.l. 87 del 2018, convertito in legge 96 del 2018). Molte situazioni, anche per il carattere della discontinuità dell’attività e dell’occupazione, rischiano, soprattutto laddove si accentui la situazione di crisi economica dell’impresa, di sfociare nel ricorso a forme illecite del lavoro sommerso e del caporalato (Passaniti P., 2017, Torre V, 2018), rispetto alle quali occorre rafforzare gli strumenti per la regolazione del mercato del lavoro stagionale in agricoltura, al di là delle sanzioni penali recentemente riviste (Leccese V., 2018, Pinto V., 2017): su questi aspetti, si rinvia al saggio di Leccese V. Schiuma D., pubblicato in questo numero di Agriregionieuropa e dedicato ai profili lavoristici dell’attuale assetto disciplinare del comparto agricolo.
Le imprese agricole nel contesto del sistema agroalimentare
La riscrittura dell’art 2135 c.c., che definisce, nel diritto nazionale, l’imprenditore agricolo, prende atto della collocazione dell’impresa agricola in un “sistema” complesso di produzione di filiera, quando afferma che l’impresa può curare lo sviluppo anche solo di “una fase necessaria del ciclo biologico di carattere vegetale o animale”. L’attività agricola appare come un segmento della filiera produttiva che, nel fornire materie prime per la trasformazione, non necessariamente governa l’intero processo di produzione: la definizione giuridica rispecchia la situazione di dipendenza dell’impresa agricola rispetto all’impresa a valle della filiera, che può arrivare a conformare il contenuto dell’attività agricola, con riguardo alle materie prime da utilizzare, alle modalità di produzione, fino ad imporre l’obbligo di esclusiva nella cessione del prodotto finale.
Nell’ordinamento giuridico nazionale, l’art. 2135 cc. ha lo scopo di definire l’ambito di applicazione della disciplina speciale riservata alle imprese agricole distinta dalle imprese commerciali, che ora appare più ampia che in passato (sia in riferimento all’oggetto dell’attività, comprensiva dell’allevamento di tutti gli animali, che alla specificità del segmento dell’attività produttiva), con l’effetto di estendere l’ambito di applicazione più favorevole alle imprese.
Per quanto concerne, invece, le relazioni contrattuali tra le imprese della filiera – agricole, da una parte, industriali e della distribuzione dall’altra – la disciplina giuridica, ad oggi, è ancora in via di definizione.
L’Unione Europea, solo di recente, è intervenuta per regolare i contratti di prima vendita dei prodotti agricoli, ma ha rimesso agli Stati membri la facoltà di rendere obbligatoria una normativa che imponga la forma scritta e il contenuto delle prestazioni contrattuali, a tutela dell’impresa più debole, quella agricola, appunto.
Invero, la mancanza di uniformità nella disciplina delle relazioni contrattuali produce una disparità di trattamento, più o meno accentuata, a danno delle imprese agricole europee, nei rapporti di forza della filiera.
Un passaggio fondamentale, nella regolazione della filiera agroalimentare, con riguardo alle interconnessioni tra i diversi operatori economici, si è avuto con l’adozione del regolamento UE 178/02, che stabilisce i principi e requisiti generali della legislazione alimentare (Albisinni F., 2018). Esso muove dalla prospettiva di garantire la sicurezza del prodotto finale, l’alimento immesso sul mercato, per rispondere alle aspettative dei consumatori e garantire un regolare funzionamento del mercato, attraverso l’imposizione di obblighi di rilevanza pubblicistica a ciascuna delle imprese che operano nella filiera agroalimentare. In tal senso, la filiera agroalimentare come categoria normativa di riferimento, fondata sul presupposto della interconnessione tra le imprese, è descritta nel considerando n. 12 : “Per garantire la sicurezza degli alimenti occorre considerare tutti gli aspetti della catena di produzione alimentare come un unico processo, a partire dalla produzione primaria inclusa, passando per la produzione di mangimi fino alla vendita o erogazione di alimenti al consumatore inclusa, in quanto ciascun elemento di essa presenta un potenziale impatto sulla sicurezza alimentare”.
Nella logica del regolamento sulla sicurezza alimentare, tutti gli operatori economici della filiera sono considerati sullo stesso piano, indipendentemente dal potere contrattuale: il reg. 178/02 interviene attraverso regole di condotta imposte per legge a tutela della salute dei consumatori, a prescindere dalla valutazione di potenziali squilibri tra le imprese della filiera. Ciò non toglie che, nell’assetto dei rapporti contrattuali di fornitura, sulle imprese produttrici di materie prime agricole (che si collocano a monte della filiera agroalimentare) si trasferiscano anche gli obblighi correlati agli standard di sicurezza, in funzione dei vincoli normativi che devono essere rispettati (a valle) dalle altre imprese alimentari della filiera (Canfora I., 2009, Cafaggi F., 2011): obblighi, contrattuali e non, che si riflettono sull’organizzazione dell’attività produttiva e del lavoro, oltre che sui costi di produzione dell’impresa agricola. Nella definizione delle clausole contrattuali, ad esempio, le obbligazioni definite dall’impresa industriale o della grande distribuzione (per le esigenze dei private label) possono includere una pianificazione delle modalità di svolgimento delle lavorazioni effettuate nell’ambito dell’impresa agricola, come la raccolta o la prima trasformazione. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’individuazione del personale impiegato dall’impresa agricola per i controlli sanitari sugli animali, individuato dall’impresa integrante nelle frequenti ipotesi in cui la direzione tecnica dell’allevamento sia gestita direttamente da quest’ultima (Nomisma, 2016) ovvero al diretto intervento di personale di controllo dell’impresa integrante, per la verifica di conformità ai parametri qualitativi della produzione.
Gli strumenti giuridici per la regolazione dei rapporti contrattuali nella filiera non appaiono di per sé sufficienti a ridurre lo squilibrio nel potere contrattuale degli agricoltori. Il quadro normativo, infatti, da un lato si è arricchito di obblighi di comportamento in capo a ciascun operatore economico della filiera, in ordine al raggiungimento della sicurezza alimentare del prodotto finale; dall’altro presenta l’esigenza di regolare contrattualmente le caratteristiche delle materie prime agricole da parte delle imprese a valle della filiera (trasformatori, distributori), poiché esse si riflettono sul prodotto destinato al mercato finale. Tale situazione, caratterizzata dalla volatilità dei prezzi agricoli in un mercato liberalizzato, determina, al fine di ottenere una riduzione dei costi di produzione, la necessità di incidere sulle variabili non vincolate dal contratto di fornitura (caratteristiche del prodotto e modalità di ottenimento dello stesso), vale a dire l’organizzazione interna alle aziende dei mezzi di produzione, con il rischio, come si è detto, che si determini una riduzione dei costi del lavoro, rispetto alla più complessa ipotesi di riorganizzazione dei mezzi di produzione. Questa seconda opzione, indubbiamente virtuosa, è oggetto di una attenta considerazione da parte dell’UE nella recente riforma dei mercati agroalimentari, che si muove alla ricerca di meccanismi diretti a favorire l’aggregazione tra produttori agricoli, per due ragioni: ridurre i costi di produzione delle imprese agricole e rafforzarne il potere contrattuale rispetto agli acquirenti.
Gli strumenti giuridici per ridurre gli squilibri nella filiera e i riflessi sulle tutele del lavoro
La pressione dei costi sulle imprese agricole, considerato anche il necessario innalzamento degli standard di sicurezza nel processo di produzione di materie prime destinate all’alimentazione, deriva soprattutto dallo squilibrio del potere contrattuale che caratterizza le imprese agricole rispetto alle imprese a valle della filiera.
Come si è anticipato, il rafforzamento del potere contrattuale (ed infine economico) delle imprese agricole nella filiera incide sulla remuneratività delle forniture e indirettamente giova alla riduzione del sommerso nella tutela dei lavoratori. In alcuni casi, fermo restando che si tratta di strumenti diretti a migliorare l’efficienza produttiva, l’aggregazione tra imprese e la regolazione tra i soggetti della filiera conduce direttamente a interventi regolativi di soft law per favorire la legalità e la trasparenza nei contratti di lavoro dipendente nelle imprese agricole.
Com’è noto, la situazione di crisi delle imprese agricole si è accentuata per effetto della liberalizzazione dei mercati e del ridimensionamento degli interventi pubblici nel governo dei mercati agricoli, attuato definitivamente con la Pac 2014-20. Sono infatti stati eliminati i diversi strumenti di governo del mercato di stampo pubblicistico (come le quote di produzione e i diritti di reimpianto) che garantivano una protezione interna dei mercati agricoli. Per effetto della variazione di rotta negli strumenti giuridici di organizzazione del mercato agroalimentare, in alcuni settori produttivi la crisi è stata più marcata: ciò è accaduto nel settore lattiero caseario, innanzitutto (Agcm, 2016), dove gli squilibri di prezzo a danno dei produttori agricoli sono emersi a seguito dell’eliminazione delle quote di produzione, con la conseguente costituzione di una task force a livello europeo per fronteggiare l’emergenza, che ha individuato quei modelli regolativi che poi sono stati estesi a tutte le organizzazioni di mercato agricole.
I rimedi contro gli squilibri economici e contrattuali che si ripercuotono sulla riduzione dei costi interni all’impresa agricola (costo del lavoro innanzitutto, e, solo ove possibile, costo dei fattori materiali di produzione) vanno dunque in primo luogo individuati negli strumenti giuridici diretti ad incidere sulla regolazione della filiera e sulla disciplina giuridica delle relazioni tra le imprese: questi aspetti compongono il quadro delle “regole del gioco” in grado di rafforzare il potere delle imprese deboli e ostacolare i comportamenti scorretti delle imprese.
Gli strumenti per accrescere il potere contrattuale dei produttori agricoli nell’accesso al mercato, sono stati oggetto di un significativo intervento dell’Unione Europea, che ha inteso innanzitutto attribuire alle organizzazioni dei produttori riconosciute il ruolo di promotori della concentrazione dell’offerta e di negoziazione dei prezzi (Canfora I, 2012, Jannarelli A., 2016; Giacomini C., 2016). Tali organizzazioni possono “pianificare dell’offerta, ottimizzare i costi di produzione, immettere sul mercato e negoziare contratti concernenti l’offerta dei prodotti agricoli, a nome degli aderenti, per la totalità o parte della produzione” considerando tale attività di per sé compatibile con le regole della concorrenza (art 152, par. 1 bis del regolamento 1308/13 come modificato dal 2393/2017, su cui v. Canfora I., 2018b; Jannarelli A., 2018). L’obiettivo è che le organizzazioni dei produttori siano in grado di incidere sulla definizione del prezzo di consegna dei prodotti, così come sulla ottimizzazione dei costi di produzione delle aziende aderenti, attraverso strumenti comuni di organizzazione dell’attività produttiva, in ultima analisi al fine di permettere al gruppo di produttori di spuntare un valore più alto delle produzioni al momento della cessione dei prodotti e in generale di organizzare la produzione degli aderenti a questo scopo: senza escludere, con ciò, che le organizzazioni dei produttori possono influire, al loro interno, anche sulle modalità organizzative del lavoro delle imprese agricole aderenti, se ciò è in linea con lo scopo delle organizzazioni di produttori, vale a dire l’organizzazione delle attività produttive in vista della collocazione dei prodotti sul mercato, nella prospettiva di migliorare l’efficienza economica delle aziende aderenti (Canfora I., 2018b; D’Alessio M., 2013).
Un secondo strumento, esteso dall’ultima regolamentazione europea a tutti i settori di mercato agricolo, che in astratto intende favorire la cessione dei prodotti lungo la filiera e il coordinamento tra domanda e offerta, è dato dagli accordi interprofessionali, che potrebbero trovare sviluppi, in futuro, non solo con la redazione dei contratti quadro per la cessione dei prodotti agricoli, ma anche la definizione di meccanismi diretti alla valorizzazione dei prodotti con un più alto valore aggiunto (ad esempio, accordi per una produzione di filiera di qualità). Si tratta di uno strumento ancora non ampiamente diffuso in Italia, ma che presenta interessanti potenzialità applicative, anche dal punto di vista della tutela del lavoro. Così è accaduto recentemente nella stesura dell’accordo interprofessionale nel settore del tabacco, sottoscritto anche dalle principali organizzazioni sindacali dei lavoratori, che ha previsto, oltre alle misure relative alla produzione agricola, anche l’adozione di un codice di comportamento a tutela dei lavoratori, che assicuri condizioni minime di rispetto delle soglie di tutela (retribuzione, orario di lavoro, parità di trattamento e sicurezza), al cui rispetto sono tenute le imprese che aderiscono all’accordo interprofessionale: tra le previsioni dell’accordo interprofessionale, anche l’adesione alla rete di lavoro agricolo di qualità (istituita con d.l 91/2014, convertito in legge 116/2014 art. 6, come modificato con L. 199/2018), che definisce i parametri per la “virtuosità” delle imprese in riferimento alle tutele del lavoro dipendente (Accordo interprofessionale tabacco 2018-20, approvato il 9 gennaio 2018).
Al di là dell’individuazione di tali strumenti giuridici, ricchi di potenzialità ma pur sempre rimessi all’iniziativa degli operatori economici della filiera, va segnalato un (troppo) debole segnale di armonizzazione nelle relazioni della filiera da parte del diritto europeo. Le regole destinate a eliminare i comportamenti scorretti ovvero a rendere trasparenti le relazioni contrattuali, per essere efficaci sul mercato europeo, devono essere omogenee e indistintamente applicabili, affinché non si creino zone di mercato esenti dai vincoli giuridici. Quanto alla disciplina dei contratti nella filiera agroalimentare, in verità, la risposta dell’UE si è limitata ad un approccio alquanto timido, giacché, come si è anticipato, il modello di disciplina contrattuale uniforme è facoltativo. Gli Stati, solo ove ritengano opportuno adottare una disciplina dei rapporti contrattuali per la prima vendita dei prodotti agricoli, sono tenuti a rispettare alcuni criteri propri del “formalismo negoziale” già utilizzato a tutela della parte debole nel contratto di consumo, indicati dall’art. 168 reg. 1308/13. Il problema è che non si definisce né la vincolatività di tale previsione, né gli strumenti di tutela. Ad esempio, in Italia – dove l’attuazione (seppure non perfettamente aderente al modello europeo) si rinviene nell’art 62 della L. 27/2012, che disciplina le relazioni commerciali lungo l’intera filiera, in materia di cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari imponendo un contratto scritto in cui siano indicati la durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento – le sanzioni sono quelle applicabili dall’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato nella prospettiva del corretto funzionamento del mercato. Eliminata infatti la sanzione civilistica della nullità, inizialmente prevista a tutela del contraente debole, la tutela è rappresentata dall’intervento dell’Autorità garante, subordinato comunque alla considerazione discrezionale di quest’ultima in ordine all’effettivo impatto sul mercato della specifica violazione dell’obbligo di forma del contratto individuale (Jannarelli, 2013).
Verso l’effettività nel governo della concorrenza: lotta alle pratiche sleali nella filiera agroalimentare
Questo il quadro normativo vigente della regolazione delle relazioni tra imprese nella filiera agroalimentare, al cui interno si deve constatare la situazione di difficoltà, relativamente attenuata dagli strumenti giuridici fin qui sommariamente descritti, delle imprese agricole.
ome si è detto, si tratta di una normativa in evoluzione, che dovrebbe prevedere meccanismi di regolazione della concorrenza, finalizzati a colpire direttamente le pratiche sleali delle imprese dominanti nella filiera (proposta di direttiva sulle pratiche sleali nella filiera agroalimentare, Commissione, 2018; Cafaggi F., Iamiceli P., 2018). La Commissione ha affermato, a riguardo, che “i prezzi bassi hanno accresciuto la vulnerabilità degli agricoltori a potenziali comportamenti sleali da parte dei loro partner commerciali” (Commissione Europea, Com(2016)32 def.) e che le pratiche commerciali generano, per le imprese che le subiscono “costi che, in un corretto mercato concorrenziale, non farebbero parte della loro attività imprenditoriale” (Commissione Europea, Com (2018) 173 def.). Un riequilibrio delle relazioni di filiera attraverso le regole della concorrenza potrà quindi indubbiamente sortire effetti positivi sulla posizione delle imprese e quindi anche sulla trasparenza nei rapporti di lavoro e sulla tutela dei lavoratori in agricoltura, se è vero che le imprese più colpite dalle pratiche scorrette sono proprio quelle agricole. In verità va sottolineata qui, ancora una volta, l’emersione, tra gli obiettivi del diritto europeo, dei profili di mercato, rispetto a quelli che riguardano la tutela del lavoro nell’organizzazione interna alle imprese agricole: infatti, nel menzionare, sia pure in via esemplificativa, i vantaggi della proposta di direttiva rispetto al recupero di un margine economico di guadagno per le imprese deboli nella filiera, la Commissione si limita a considerare i potenziali effetti nei confronti dei consumatori (rispetto ai prezzi al consumo) e aggiunge che ne possono derivare, indirettamente, conseguenze positive in riferimento all’impatto sull’ambiente e sulla sicurezza alimentare (Commissione 2018, Relazione, p. 12 e 14), trascurando invece, nella valutazione generale dell’impatto della direttiva, i potenziali benefici per il “sommerso” nel lavoro agricolo, che pure ne potrebbero derivare, rispetto ai quali sarebbe auspicabile una azione politica più mirata anche da parte dell’UE in sede di elaborazione degli strumenti di governo dei mercati agricoli.
Sino ad oggi, la questione delle pratiche sleali nella filiera agroalimentare – quelle che richiedono un intervento ad hoc delle autorità antitrust, al di là dell’applicazione delle regole generali della concorrenza – è stata affrontata solo attraverso meccanismi di soft law (Lucifero N., 2017): per esempio, con l’individuazione di best practices adottate dalle imprese aderenti a reti di rilevanza europea, nel quadro della Supply chain initiative (www.supplychaininitiative.eu/it) che includono le indicazioni di principi di buone prassi nei rapporti verticali della filiera (ma con efficacia non vincolante per le Autorità nazionali).
Un caso emblematico, in Italia, è stato quello delle cd. “aste a doppio ribasso”, denunciato da Cgil (Panié F., Mininni G., 2017) come strumento per ridurre i prezzi di cessione dei prodotti agricoli al di sotto del valore di mercato: obiettivo raggiunto attraverso una prima asta per l’acquisto di prodotti agroalimentari, cui fa seguito una seconda indagine d’acquisto a partire dal prezzo più basso rinveniente dalla prima asta, con la conseguenza che i contratti sono conclusi definendo prezzi di acquisto inferiori ai costi di produzione della merce. Per contrastare questo fenomeno, in Italia è stato siglato un patto del Mipaaf con Federdistribuzione e Conad che ha ad oggetto l’adozione di un codice etico per le imprese della Gdo aderenti (Canfora I., 2018a, p. 274), mentre in Francia la pratica è stata vietata per legge (Panié F., Mininni G. 2017, p. 29).
Analogamente – ma in questo caso in evidente violazione dell’art 62 della L. 27/2012– è da considerare illecita l’ipotesi di mancata definizione del prezzo e applicazione di sconti sul prezzo di consegna imposti e non concordati con il produttore agricolo, a fronte di un contratto di durata per la cessione di prodotti ortofrutticoli (caso AL-14 Coop Italia-Centrale adriatica, sanzionato dall’Agcm con provvedimento del 2016).
La risposta dell’UE è stata la definizione di una proposta di direttiva (Commissione Europea 2018, Com (2018) 173 def), ancora in fase di discussione al Parlamento europeo, che dovrebbe definire una black list di pratiche scorrette e rendere anonime le denunce dei produttori agricoli. Segnale importante, perché sposta l’attenzione su quello che è il vero problema della filiera agroalimentare, vale a dire la circostanza che le imprese della distribuzione sono in grado di controllare e imporre unilateralmente condizioni contrattuali di prezzo eccessivamente gravose per la controparte e clausole capestro nell’esecuzione dei pagamenti a danno dei fornitori di materie prime agricole. Questo attraverso una disciplina europea uniforme che andrebbe così a completare l’insieme delle regole per il (corretto) funzionamento dei mercati agricoli, principalmente affidata, ora, alla regolazione dei medesimi soggetti che ne sono protagonisti (Jannarelli A., 2016). Come sottolinea la Commissione, nella relazione alla proposta di direttiva, il diritto contrattuale generale, pur vietando alcune pratiche, per le quali l’operatore economico può rivolgersi ai tribunali ordinari, è di per sé inadeguato alla risoluzione del problema, a causa del cd. “fattore paura”: cioè il timore della parte debole di agire in giudizio e di compromettere in tal modo le proprie relazioni commerciali (Commissione Europea, 2018 p. 2).
E’ evidente che, in concreto, l’efficacia di tale strumento giuridico dipenderà essenzialmente dal dettaglio con cui saranno individuate le pratiche sleali colpite dalla direttiva e dalla riconducibilità ad esse di pratiche che si manifestano nella filiera. Quelle che colpiscono gli agricoltori, infatti, incidono soprattutto sulle modalità di formazione del prezzo, come si è già detto a riguardo delle aste a doppio ribasso e al caso Coop Italia Centrale Adriatica. Un esempio si rinviene in un caso recentemente discusso dalla Corte di Giustizia, a proposito di clausole contrattuali concordate tra impresa integrante e impresa agricola che possono avere l’effetto di sottrarre alla disponibilità dell’agricoltore le somme derivanti dalle misure di sostegno al reddito agricolo. In verità, nel decidere sul caso Arts c. Alpuro C- 227/16, con sentenza del 9 novembre 2017, la Corte di giustizia ha ritenuto che le somme derivanti dal diritto all’aiuto che l’UE attribuisce all’agricoltore nell’ambito del regime di pagamento unico possono essere liberamente utilizzate nella definizione del prezzo di consegna del prodotto: formalmente, decisione si fonda sul principio di libertà contrattuale delle imprese ma, di fatto, accade che quel valore, destinato a migliorare la competitività dell’agricoltura e a questo scopo attribuito all’impresa agricola, venga trasferito all’impresa acquirente del prodotto, con l’effetto di produrre un impatto negativo sulla remuneratività delle cessioni dei prodotti e dunque sul reddito delle imprese agricole.
Considerazioni conclusive
L’attuale regolazione giuridica della filiera agroalimentare è in evoluzione e si muove tra due forme di intervento: da un lato si consolida, con la c.d. riforma di medio termine della Pac attuata dal regolamento 2393/2017, la scelta di rafforzare il ruolo dei soggetti privati nel governo della filiera, attraverso meccanismi di aggregazione e di interrelazione tra imprese; dall’altro, appare evidente la necessità di intervenire sulle regole della concorrenza, poiché il netto squilibrio tra gli operatori della filiera rischia di ripercuotersi sull’intero sistema agricolo europeo.
Fermo restando che le tutele del lavoro richiedono precisi strumenti di intervento normativo (e in tal senso, a livello nazionale, si collocano le misure promozionali per incentivare la trasparenza del lavoro agricolo, oltre alle misure sanzionatorie che colpiscono il reato di caporalato), l’adozione di strumenti giuridici per raggiungere un equilibrio tra le posizioni degli attori della filiera agroalimentare ha importanti riflessi, diretti e indiretti, sulla tutela del lavoro in agricoltura.
Un altro opportuno livello di riflessione, per le istituzioni europee, andrebbe individuato, poi, nella possibile introduzione, tra le condizioni per l’accesso alle misure di sostegno al reddito – che rappresentano oggi la “rete di sicurezza” per le imprese agricole, a fronte della liberalizzazione dei mercati – di elementi che tengano conto anche del costo del lavoro delle imprese (Coldiretti, 2017; Canfora I., 2018a), valorizzando così, tra gli obiettivi della PAC, i profili delle politiche sociali in agricoltura, in una regolazione che si orienta in modo sempre più preponderante verso un’ottica di mercato fondata sulla competitività delle imprese.
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