Organizzare le filiere per rispondere alla crisi

Organizzare le filiere per rispondere alla crisi
a Università degli Studi di Parma, Dipartimento di Economia

Introduzione

Tutti sanno che l’agricoltura dispone di uno scarso potere contrattuale dovuto alla polverizzazione dell’offerta e a due caratteristiche strutturali del settore: l’incertezza tecnologica, cioè la difficoltà di programmare e controllare il rapporto tra input e output, e l’incertezza di mercato, comune a tutti i settori, ma aggravata in agricoltura dalla lunghezza e rigidità dei processi produttivi, dalla deperibilità dei prodotti finiti e dalla natura di commodity di gran parte della produzione. Queste caratteristiche hanno sempre giustificato le politiche protettive di cui l’agricoltura ha storicamente beneficiato, politiche basate o su aiuti diretti al reddito degli agricoltori o su interventi sul mercato per garantire livelli di prezzo tali da assicurare, comunque, adeguati trasferimenti di reddito al settore. Con la parola “adeguati” ci si riferisce ad obiettivi delle politiche pubbliche riferiti alla necessità di garantire un ordinato sviluppo dell’economia attraverso lo spostamento di forza lavoro dall’agricoltura agli altri settori, al mantenimento della presenza degli agricoltori sul territorio per la tutela dello stesso, all’esigenza di indurli a puntare verso prodotti di qualità e sicuri malgrado i maggiori costi di produzione e, primo fra tutti, l’obiettivo di assicurare un reddito adeguato agli agricoltori rispetto alle altre professioni e componenti sociali.
La Pac, la politica agricola comune, almeno fino al 2003, anno della riforma Fischler1, si è ispirata soprattutto al secondo modello2, cioè al sostegno dei prezzi attraverso la fissazione di prezzi garantiti, assicurati da interventi sul mercato interno e dalla protezione alle frontiere. Quelle, cioè, che chiamiamo misure “accoppiate”, perché le ricadute sul reddito sono legate all’andamento della produzione, con effetti distorsivi sul mercato e con costi pubblici elevati e crescenti.
Le riflessioni contenute in “Agenda 2000” sulla necessità di riformare la Pac, tenuto conto dei traguardi raggiunti e di renderla compatibile con le sfide della globalizzazione, alla quale anche la UE doveva aprirsi in un periodo di generale sviluppo economico, hanno spinto la Commissione a realizzare, quella che si può definire, una vera rivoluzione, la riforma Fischler del 2003, che introduce per la prima volta misure di aiuto al reddito totalmente disaccoppiate e avvia l’apertura del mercato interno alla competizione internazionale. Una rivoluzione graduale, ma che non si è più fermata con i successivi commissari, malgrado il contesto economico di sviluppo si sia trasformato in crisi dopo il 2008, fino alle misure messe in atto per il periodo 2014-2020, basate sull’aiuto al reddito totalmente disaccoppiato e orientato a favorire pratiche colturali compatibili con la tutela dell’ambiente, contenute nel I° Pilastro, e sulle politiche di sviluppo rurale del II° Pilastro che puntano, soprattutto, sulla formazione e sull’innovazione. Anche le diverse organizzazioni comuni di mercato (Ocm) dei diversi settori produttivi, strumento essenziale nella precedente politica per adattare le misure di sostegno dei prezzi e di protezione alle frontiere alle caratteristiche dei singoli comparti, sono confluite in quella che viene chiamata l’Ocm Unica (Reg. UE 1308/2013), dove la normalità delle misure precedenti si è trasformata in misure eccezionali di intervento in occasione di gravi crisi di mercato e sono stati introdotti strumenti per rafforzare il potere contrattuale degli agricoltori nelle filiere agroalimentari: le organizzazioni di produttori (OP), le organizzazioni interprofessionali (OI) e la contrattualizzazione (art. 152 e segg.; art. 157 e segg.; art. 168 e segg. Reg. 1308/2013). Strumenti già presenti nella Pac, ma trasformati da misure specifiche di alcuni settori (ad esempio, ortofrutta), dove agivano prevalentemente come veicoli per trasferire aiuti agli investimenti, in misure estese orizzontalmente a tutti i settori per rafforzare il potere contrattuale degli agricoltori, per regolare i rapporti di filiera e aumentare la competitività delle imprese sul mercato interno ed internazionale.
Obiettivo di questo lavoro è quello di esaminare quanto è già stato fatto e quanto si deve ancora fare nel nostro Paese per organizzare l’offerta agricola e renderla capace di affrontare le sfide del mercato, dove si sta assistendo ad un forte rafforzamento della posizione oligopsonistica delle fasi più a valle della filiera rappresentate dall’industria di trasformazione e, soprattutto dalla Gdo, in presenza di una domanda del consumatore sempre più orientata verso prodotti sicuri, di qualità, legati al territorio e con dei servizi incorporati. Tutto questo in assenza della politica di sostegno dei prezzi e di difesa alle frontiere, i cui effetti sono mitigati dagli aiuti disaccoppiati della Pac 2014/2020, ma che lasciano l’impresa agricola indifesa di fronte alla competizione internazionale, al rafforzamento delle posizioni oligopsonistiche degli operatori più a valle delle filiere agroalimentari e alla volatilità dei prezzi che caratterizza l’attuale crisi dei mercati mondiali. L’analisi sarà centrata, soprattutto, sul quadro normativo nazionale destinato a rafforzare l’organizzazione dell’offerta del settore e sull’avanzamento della contrattualizzazione e della presenza di OP e Oi in risposta all’evoluzione della Pac.
Un esempio di quello che propone la Pac in termini organizzativi per affrontare il mercato è quanto contiene il “pacchetto latte” (Reg. UE 261/2012) che si basa, appunto, sulla contrattualizzazione, sull’azione delle OP e delle OI, con la concessione straordinaria alle OP del settore di contrattare e concludere il livello di prezzo del latte crudo ceduto, loro tramite, alle imprese lattiero-casearie. È questa una novità, che mai prima la Commissione avrebbe permesso, dovendo rispettare le norme sulla concorrenza del Trattato.

La contrattualizzazione

L’art. 62 “Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli alimentari” del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, chiamato comunemente “Cresci Italia”, ha introdotto tre novità nei rapporti contrattuali tra imprese delle filiere agroalimentari. La prima (comma 1) consiste nell’obbligo della forma scritta, pena la nullità rilevabile anche d’ufficio, per i contratti che abbiano ad oggetto la cessione di beni agricoli e alimentari. Questi dovranno contenere altresì alcuni requisiti essenziali quali: la durata, la quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna del prodotto e di pagamento del prezzo. La seconda (comma 2) vieta comportamenti sleali nei rapporti di filiera, elencando una serie di pratiche vietate ope legis sia in senso generale sia nelle “relazioni commerciali tra operatori economici”. L’ultima (comma 3) fissa termini massimi di pagamento a 60 giorni per le cessioni di prodotti alimentari non deteriorabili, ridotti a 30 giorni per le transazioni di prodotti alimentari deteriorabili, che decorrono dall’ultimo giorno del mese di ricevimento della fattura, pena il pagamento di interessi di mora maggiorati di due punti. Il calcolo degli interessi è automatico e inderogabile. Vengono fissate, altressì, sanzioni pecuniarie piuttosto pesanti nel caso il contraente non rispetti gli obblighi previsti dal comma 1 e 2 e/o il debitore ritardi le scadenze di pagamento previste dal comma 3.
La nuova disciplina attribuisce all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) il compito di accertare, d’ufficio o su istanza di parte, gli eventuali abusi del potere di mercato nei rapporti di filiera e di imporre le relative sanzioni. Questa competenza non fa venire meno, tuttavia, la possibilità di agire direttamente per la tutela delle proprie ragioni davanti al giudice ordinario (Giacomini, 2012).
Da quanto si può rilevare dalla stampa, l’attenzione del mondo agricolo e delle imprese alimentari sull’applicazione della legge è stata posta, soprattutto, sul mancato rispetto dei termini di pagamento e sull’inserimento di clausole vessatorie. Un esempio è contenuto nel provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, n. 25797, “Coop Italia-Centrale Adriatica/Condizioni contrattuali con fornitori”, apparso sul Bollettino n. 49/2015 dell’Autorità3, che peraltro è un esempio piuttosto raro di ricorso all’Autorità competente, come viene lamentato dalle stesse organizzazioni professionali (Bazzana, 2016; Giacomini, 2016). La denuncia dI casi di mancato rispetto dell’art. 62 resta, infatti, quasi sempre confinata a dichiarazioni di stampa o a interventi in convegni, perchè difficilmente si concretizza in una personale assunzione di responsabilità da parte della vittima, dato che questa è la parte più debole nel contratto e teme di subirne le conseguenze nei futuri rapporti commerciali.
Non pare, invece, che venga posta molta attenzione al comma 1 dell’art. 62, quello che stabilisce l’obbligo della forma scritta dei contratti, pena la nullità rilevabile anche d’ufficio, per quelli che abbiano ad oggetto la cessione di beni agricoli e alimentari. Da sottolineare, che il comma 1, dell’art. 62, fissa i contenuti essenziali del contratto scritto (durata, quantità, caratteristiche del prodotto venduto, prezzo, modalità di consegna e di pagamento del prezzo) e che il comma 2 pone dei paletti chiari affinché nel contratto non vi siano clausole sleali o vessatorie, elencando persino una serie di comportamenti vietati ope legis, a cui il D.M. 19 ottobre 2012, n. 199, di applicazione dell’art. 62, aggiunge un elenco di principi di buona prassi contrattuale per un migliore funzionamento della filiera alimentare. Le ragioni della scarsa attenzione verso la forma scritta sono varie. Prima di tutto, in agricoltura i contratti di vendita sono spesso stipulati con gli stessi operatori con i quali nel tempo è nato un consolidato rapporto di fiducia, per cui la forma scritta non viene sentita una necessità; in altri, come è il caso di quello oggetto del provvedimento n. 25797 dell’Autorità Garante della Concorrenza, si tratta di contratti prestampati e imposti o dall’industria di trasformazione o dalla Gdo, perché le grandi imprese necessitano di costanza e uniformità delle condizioni di fornitura. Per ultimo, in molti casi non si tratta di cessioni ma di conferimenti ad imprese cooperative, che sono sottratti dal campo di applicazione dell’art.62, come stabilisce il comma 3, dell’art. 1, del D.M. 19 ottobre 2012, n. 199. Tra gli esempi di esperienza contrattuale diffusa in Italia e anche negli altri Paesi, non si può dimenticare che in alcuni settori (ad esempio, l’avicolo o quello suinicolo) i rapporti tra allevatori e industria di trasformazione sono quasi sempre regolati da contratti di integrazione verticale anche questi prestampati e imposti dall’integrante.
A parte il fatto, che solo il contratto scritto può essere una prova certa dell’impegno a rispettare quanto stabilisce l’art. 62 ai commi 1 e 2 e contribuisce a ridurre i costi di transazione, resta insoluto il problema della debolezza contrattuale del singolo agricoltore nei confronti del potere oligopsonistico dell’industria di trasformazione o della Gdo per cui, salvo che il singolo non voglia sollevare un contenzioso con chi gli garantisce di assorbire il suo prodotto (e domani, quali saranno le conseguenze?), dovrà accettare le clausole impostegli dalla parte più forte.
L’unica soluzione che può consentire al singolo agricoltore di essere protetto nella contrattazione è quello di adottare un contratto tipo, non imposto dall’industria di trasformazione o dalla Gdo, ma risultato della contrattazione interprofessionale dove tutte le parti sono rappresentate (Danel, Malpel, Texier, 2012). Non per nulla, la legge francese di modernizzazione dell’agricoltura, n. 2010-874 del 27 luglio 2010, rende obbligatoria la forma scritta e un contenuto normalizzato del contratto quando è il risultato di un accordo interprofessionale. Nel nostro Paese potrebbe essere oggetto della “intesa di filiera”, di cui all’art. 9 del D.Lgs. n. 102/2005. Peraltro, come scrivono alcuni commentatori (Daudin, Guegan, Verhaeghe, 2015), dove non è possibile rendere obbligatoria la forma scritta perché manca un accordo interprofessionale, è consigliabile che gli agricoltori si associno in OP per arrivare, se le norme lo consentano, a contrattare e fissare il livello di prezzo, ma ciò dipenderà dalla dimensione e dal peso che l’OP avrà sul mercato. La concentrazione in OP può consentire, infatti, di passare da una struttura concorrenziale dell’offerta a una di tipo oligopolistico, conferendo un contro-potere di mercato alla produzione agricola (Boumra-Mechemache et al., 2014). In base alla legge italiana, il contratto di riferimento potrebbe assumere la forma di “contratto quadro” disciplinato dall’art. 10 del D.Lgs. n. 102/2005. Purtroppo, sulla diffusione di “intese di filiera” e di “contratti quadro” mancano nel nostro Paese sufficienti dati e informazioni malgrado, in base agli art. 9 e 10 del D.Lgs. n. 102/2005, dovrebbero essere notificati al Mipaaf.

Organizzazioni di Produttori e Organizzazioni Interprofessionali

Nel nostro Paese non occorre cercare molti articoli su riviste scientifiche o sulla stampa di settore per avere conferma che l’esperienza delle Organizzazioni di Produttori (OP) e delle Organizzazioni Interprofessionali (OI) è stata spesso fallimentare anche nel settore ortofrutticolo dove in base ai dati del Ministero sono riconosciute al 30 giugno 2016 ben 312 OP che, secondo un recente studio di Nomisma (2016), commercializzano il 50% dell’ortofrutta. A queste si aggiunge che, nel settore ortofrutticolo, il Ministero ha riconosciuto l’unica OI, “Ortofrutta Italia”, che non pare dia molti segni di vita. Non si può dimenticare, tuttavia, quello che si può definire un esempio concreto di operatività di OI nell’ortofrutta, il più volte citato “Distretto del Pomodoro da Industria del Nord-Italia”, non riconosciuto dal Mipaaf, ma dalla Regione Emilia-Romagna (Legge n. 24/2000) e dalla Commissione Europea, capace di ottenere l’approvazione di contratti quadro annuali per regolare i rapporti tra produzione e trasformazione (Giacomini e Mancini, 2015). Negli altri settori, malgrado sulla carta il Ministero registri la presenza di altre OP (Tabella 1) e malgrado la meritoria azione della Regione Emilia-Romagna per promuovere la nascita di OP e OI e favorirne la contrattazione4, non si possono rilevare ricadute significative sui rispettivi mercati, persino nel settore lattiero-caseario, dove il “pacchetto latte” ha assegnato un ruolo fondamentale a OP e OI per affrontare il mercato in vista della eliminazione delle quote latte.

Tabella 1 – Elenco nazionale OP/Aop – Giugno 2016

Fonte:Mipaaf, [link]

Il numero elevato di OP e Aop (Associazioni di Organizzazioni di Produttori) nel settore dell’olio e delle olive da tavola (147) non è il segnale di un particolare spirito associativo degli operatori di quel settore, ma semplicemente la necessità per gli olivicoltori di assumere la forma organizzativa di OP per potere accedere agli aiuti previsti dalla regolamentazione comunitaria ai programmi di sostegno per l’olio di oliva e le olive da tavola.
Purtroppo, l’accesso agli aiuti previsti per i Programmi Operativi è stato anche per molte OP ortofrutticole l’unica ragione che le ha spinte a costituirsi, invece di essere strumento per concentrare ed organizzare l’offerta, come era nell’obiettivo delle successive Ocm  Ortofrutta, confermato e rafforzato dalla Ocm Unica (Reg. 1308/2013).
Le ragioni dell’insuccesso anche delle OP del settore ortofrutta possono essere affrontate da tanti punti di vista, in chiave storica e organizzativa, tenendo conto dell’assenza dell’organizzazione di filiera nel nostro Paese e del prevalere, invece, di quella orizzontale rappresentata dalle organizzazioni professionali a vocazione generale, che nelle OP, come nella cooperazione, vedono delle forme organizzative concorrenti e compatibili solo se diventano loro espressione. Si potrebbe risalire anche alla presenza della Federconsorzi, che certamente ha avuto una influenza determinante sull’organizzazione della nostra agricoltura nel dopoguerra, ma anche di questo aspetto è stato già scritto molto (Giacomini, 2000).
Per capire alcuni problemi dello sviluppo delle OP e delle OI nel nostro Paese si ritiene interessante analizzare due limiti da correggere nella loro costruzione: la dimensione e la natura giuridica delle OP (Giacomini, 2016).
Sulla dimensione minima delle organizzazioni di produttori (OP) si è molto discusso da parte degli operatori, delle Regioni e del Mipaaf. Chi le vuole grandi e chi piccole, in ogni caso pare che tutti siano d’accordo che la frammentazione è una delle cause dell’insuccesso delle OP nel settore ortofrutticolo dove, da sempre, dovrebbero costituire lo strumento principale per regolare il mercato.
In realtà, è assurdo prestabilire per decreto la dimensione minima delle OP dei diversi settori fissando il valore della produzione commercializzata (Vpc) e il numero di soci, cosa che non avviene solo in Italia, ma anche in Francia che spesso viene considerato l’esempio da seguire.
Se l’obiettivo finale delle OP è, infatti, quello di ottimizzare i costi e stabilizzare i prezzi alla produzione, come precisa il comma 3 dell’art. 152 del Reg. 1308/2013 e l’art. 2 del D.Lgs. 102/2005, confermando la ricca normativa precedente, la programmazione della produzione, la concentrazione dell’offerta e la commercializzazione diretta della produzione dei soci sono azioni o obiettivi intermedi la cui efficacia dipende certamente dalla dimensione dell’OP, ma in rapporto a quella del mercato di riferimento sul quale ciascuna di esse agisce. Questo comporterebbe, che il riconoscimento dell’OP non dovrebbe essere automaticamente subordinato al raggiungimento della dimensione minima predeterminata con atto amministrativo, ma dovrebbe essere concesso dopo una valutazione della potenziale efficacia delle azioni che l’OP potrebbe svolgere sul mercato di riferimento dove la sua relativa dimensione diventa un requisito essenziale. La stessa azione di programmazione della produzione dei soci non può realizzarsi con successo se non è proiettata sul mercato di riferimento della OP o della Associazione di OP (Aop), perché in quest’ultimo caso l’efficacia dell’azione potrebbe realizzarsi anche attraverso l’aggregazione di più OP attive sullo stesso mercato. Non per nulla la Francia che, come detto, fissa anch’essa per decreto la dimensione minima delle OP, nell’art. L551-1 del Code Rural scrive : “ Ils (le OP) justifient d’une activité économique suffissante au regard de la concentration des opérateurs sur les marchés”, che si può leggere, “esse dovrebbero avere una attività economica sufficiente rispetto alla concentrazione degli operatori sul mercato”. Significativo è che nei diversi regolamenti che le disciplinano, in particolare in quelli relativi al settore ortofrutticolo, si prevede la costituzione di “circoscrizioni economiche”, vale a dire di aree omogenee di riferimento dell’azione delle OP, che pur mai definite e mai delimitate in Italia (lo sono in Spagna e Francia), avrebbero senso se riferite a mercati dove le OP potrebbero programmare le scelte produttive dei soci e stabilizzare i prezzi alla produzione.
È comprensibile, che il Ministero e le Regioni fissino ai fini del riconoscimento la dimensione minima delle OP nei diversi settori: è una esigenza burocratica e corrisponde certamente all’obiettivo minimale che la dimensione dell’OP sia tale da sostenere i costi per lo svolgimento dei servizi richiesti dai soci. Non è credibile però, che la dimensione minima di 2,5 milioni di Vpc realizzata da almeno 10 soci in molti comparti del settore ortofrutta, come fissa il D.M. n. 9084 del 28 agosto 2014, possa consentire ad OP di questa dimensione di agire con efficacia (fino al 31.12.2013 il limite minimo era di 1.5 milioni di Vpc e di 5 soci), cioè di stabilizzare i prezzi sui rispettivi mercati di riferimento che, salvo per alcuni prodotti di nicchia, hanno dimensione almeno regionale o interregionale. In base ai dati della Strategia Nazionale 2009-2013 dell’Ocm Ortofrutta (D.M. 5460 del 3 agosto 2011), nel 2006 le OP con Vpc inferiore a 3 milioni di euro erano in Italia il 19,7% del totale e quelle con Vpc inferiore a 5 milioni il 42,0%, di cui almeno l’80% nelle regioni del Sud, dove è concentrata oltre la metà delle OP riconosciute e non è un caso che proprio in queste regioni si lamenti di più l’inefficacia della loro azione. Non c’è quindi da meravigliarsi se, malgrado recenti stime di Nomisma (2015) dicano che il 50% dell’ortofrutta nazionale viene trattata dalle OP e dalle Aop esistenti, qusi ogni anno si ripetano crisi di mercato: una volta per le mele, un’altra per le pesche e così via.
Il vero problema, in assoluto, non è però la dimensione, ma l’obiettivo per cui vengono costituite, che spesso non è la regolazione del mercato, ma disporre di una forma societaria che, grazie al riconoscimento in OP, possa legare i produttori a imprese commerciali o di trasformazione e beneficiare, allo stesso tempo, dei fondi stanziati per i Programmi Operativi. Obiettivo certamente facilitato dal basso limite della dimensione ma, ancora di più, dalle forme giuridiche che le OP possono assumere. Come stabilisce il D.lgs. n. 102/2005, confermato dal D.M. n. 9084 del 28 agosto 2014, le OP possono essere costituite in forma: di società di capitali, aventi per oggetto la commercializzazione di prodotti agricoli e con una compagine sociale composta da imprenditori agricoli o da società costituite dai medesimi soggetti o da cooperative agricole; di società cooperative e loro consorzi e, infine, di società consortili di cui all’art. 2615-ter, costituite da imprenditori agricoli o loro forme societarie. L’art. 7 dello stesso D.M. consente che possano associarsi all’OP anche non produttori, ponendo il limite del 10% ai diritti di voto spettanti e stabilendo che non possono partecipare al voto in caso di decisioni sui fondi di esercizio e svolgere attività concorrenti. Il successivo art. 8 stabilisce che le OP e le Aop devono assicurare il controllo democratico delle decisioni da attuare e, a tal fine, nei regolamenti interni le OP e le Aop devono prevedere che un produttore socio non possa detenere più del 35% dei diritti di voto e più del 49% delle quote societarie. È piuttosto contradditorio quanto si può leggere nei considerando del D.M. dove è scritto, a dimostrazione del controllo democratico che i soci esercitano nelle cooperative, che l’apporto di capitale di ciascuno in cooperativa non può tradursi “in strumento di controllo o di dominio abusivo” perché ogni socio ha un solo voto, mentre lo stesso D.M. all’art. 8 si limita a stabilire, che nelle altre forme societarie adottabili dalle OP il produttore socio non può detenere più del 35% dei diritti di voto. Con questo limite è facile pensare, che ci sarà sempre un parente o un amico inserito nella società, dove anche il promotore della OP è socio, che gli consentirà di raggiungere stabilmente la maggioranza nelle decisioni del consiglio o dell’assemblea.
Si capisce allora, come mai quasi tutte le imprese produttrici di ortaggi di IV Gamma, anche di grandi dimensioni, che hanno bisogno di assicurarsi forniture costanti, per quantità e qualità, e basate su una logistica particolarmente efficiente, abbiano dato vita a cooperative di produttori tra i propri fornitori e costituito con queste e altri soci agricoltori individuali delle OP in forma di società consortile agricola, solitamente a responsabilità limitata. Il ricorso a questa forma societaria, come ad altre società di capitali di tipo agricolo, consente più facilmente all’industriale promotore, che ne è socio attraverso una propria impresa agricola, di mantenere il controllo della società e attraverso il riconoscimento in OP di assicurarsi l’impegno dei soci produttori al totale conferimento. A questo si aggiunge, come ulteriore incentivo, il contributo comunitario al fondo di esercizio delle OP per realizzare gli investimenti previsti dal Programma Operativo. È abbastanza chiaro, che questo tipo di OP, promosse anche da imprese di trasformazione del fresco e da imprese commerciali, crea una specie di circuito chiuso tra impresa industriale o commerciale promotrice e produttori conferenti, certamente apprezzata da questi che trovano uno sbocco sicuro alla loro produzione attraverso la formalizzazione del rapporto in società, ma ben lontano dagli obiettivi di contro-potere di mercato che la concentrazione in OP dovrebbe realizzare. L’obiettivo che la regolamentazione comunitaria assegna alle OP, e non solo a quelle del settore ortofrutticolo, non può esaurirsi nell’ambito societario, perché l’obiettivo principale ad esse assegnato è la stabilizzazione dei prezzi alla produzione, vale a dire la regolazione del mercato, con un mandato che si potrebbe definire quasi “para-pubblico”, tanto che le OP riconosciute, e il Reg. n. 1308/2013 conferma tutta la regolamentazione precedente, possono chiedere allo Stato membro l’estensione delle regole da esse fissate per i propri associati anche ai produttori non soci operanti nello stesso mercato di riferimento. Purtroppo quest’ultima funzione delle OP non è stata mai esercitata nel nostro Paese e nemmeno potrà esserlo, finché non verranno delimitate le circoscrizioni economiche.

OP e OI e altre forme societarie

In Italia esistono anche settori dove forme associative di prodotto sono state riconosciute come OI per atto amministrativo: è il caso dei Consorzi di tutela dei vini Dop e Igp (comma 5, art. 1, D.M. 16 dicembre 2010), quando raggiungano nell’area di competenza una rappresentatività pari al 40% dei produttori e al 66% della produzione dei vigneti iscritti nello schedario viticolo. I Consorzi di tutela dei formaggi Dop e Igp possono pure regolare l’offerta attraverso la messa a punto di piani approvati dal Mipaaf (art. 126 quinquies, Reg. 261/2010; art. 150, Reg. 1308/2013)5 e lo stesso possono fare i Consorzi dei prosciutti Dop e Igp6. (art. 172, Reg. 1308/2013). Ai Consorzi di tutela è stata riconosciuta questa funzione in quanto agiscono come “gruppi di operatori”, di cui all’art. 3, paragrafo 2, del Reg. (UE) n. 1151/2012, il cosiddetto “pacchetto qualità”.
Non pare che i Consorzi di tutela dei vini Dop e Igp, frenati recentemente da un intervento di avvertimento7 dell’Autorità Garante della Concorrenza per alcuni accordi relativi ai prezzi delle uve destinate a vini Docg e Doc, abbiano ottenuto risultati significativi agendo come OI e nemmeno che i Consorzi di tutela dei formaggi e dei prosciutti Dop e Igp siano riusciti a regolare efficacemente la produzione (Giacomini, Donati, 2015).
A parte alcuni limiti tecnici dei piani di regolazione dell’offerta dei Consorzi di tutela dei formaggi e dei prosciutti che ne hanno condizionato l’operatività, il vero limite sia di questi Consorzi che di quelli di tutela dei vini è che agiscono come “gruppi di operatori”8, di cui all’art. 3, paragrafo 2, del Reg. (UE) n. 1151/2012, e non come OP o OI, nemmeno i Consorzi di tutela dei vini Dop e Igp, malgrado abbiano ottenuto per decreto , D.M. 16 dicembre 2010, il riconoscimento di OI. Per prima cosa, non sono OP, perché non sono costituiti nelle forme richieste dai regolamenti comunitari e dalle leggi nazionali. Inoltre, sulla composizione delle OI la legislazione italiana è ancora incerta se in questa forma organizzativa devono essere rappresentati i singoli operatori, espressione delle diverse fasi della filiera, o le organizzazioni professionali e, soprattutto, quali sono per la parte agricola le organizzazioni che devono essere presenti9: quelle a vocazione generale (Coldiretti, Confagricoltura, ecc.) o le organizzazioni economiche (Fedagri, Legacoop Agroalimentare, ecc.) o le OP che, per il settore ortofrutticolo, sono riunite o nelle organizzazioni della cooperazione o nelle, cosiddette, Unioni Nazionali (Unaproa, Italia Ortofrutta)10. Il D.M. 16 dicembre 2010 che disciplina i Consorzi di tutela dei vini al comma 1, art. 6, “Modalità di voto”, specifica che lo statuto del consorzio “deve assicurare a ciascun avente diritto ed appartenente alle categorie viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori l’espressione del voto” ; il D.M. 12 aprile 2000, che individua i criteri di rappresentanza negli organi sociali dei consorzi di tutela delle produzioni Dop e Igp, al comma 2 elenca, ai fini “della fissazione dei criteri di equilibrata rappresentanza delle categorie”, una serie di categorie per singola filiera (ad esempio, per la filiera formaggi freschi: allevatori produttori di latte, caseifici, confezionatori; per la filiera ortofrutticoli e cereali non trasformati: agricoltori e confezionatori; ecc.). Insomma, nei Consorzi di tutela soci e rappresentanza sono espressione dei soggetti delle categorie elencate, mentre il punto b) del comma 1 dell’art. 157 del Reg. 1308/2013 precisa che le OI sono costituite ”per iniziativa di tutte o di alcune delle organizzazioni o delle associazioni che le compongono”, permettendo di dare un significato chiaro al punto a) dove si legge “sono costituite da rappresentanti delle attività economiche…….”; cioè, in base all’art. 157 del Reg. 1308/2013 alle OI dovrebbero partecipare le organizzazioni o le associazioni degli operatori espressione delle fasi della filiera che la OI intende disciplinare e non i singoli operatori. È un dilemma che deve essere risolto, ad esempio in Francia le OI sono costituite dalle organizzazioni professionali più rappresentative nell’area di riferimento del prodotto interessato, altrimenti ci troveremmo sempre con OI incapaci di regolare i comportamenti dei partecipanti alle diverse fasi nelle rispettive imprese e sul mercato. L’accordo interprofessionale rappresenta, infatti, lo strumento di pilotaggio dei rapporti di filiera imponendo una organizzazione gerarchica alla stessa, subordinata alla convenzione collettiva di cui l’accordo è espressione (Coronel, Liagre, 2006).
Un altro punto, su cui merita riflettere è il rapporto tra cooperazione e OP, poiché anche attraverso le società cooperative si realizza in agricoltura la concentrazione dell’offerta e in alcuni settori (ad esempio: ortofrutta, latte e vino), i conferimenti ad imprese cooperative rappresentano percentuali che in alcune regioni superano il 50% del totale venduto. Tuttavia, anche in queste regioni la forte presenza della cooperazione non impedisce il ripetersi di crisi di mercato. La prima considerazione da fare è che la forma giuridica ideale per la costituzione di una OP è certamente la forma cooperativa, in quanto assicura la disponibilità del prodotto dei soci per la commercializzazione sul mercato e rispetta nei propri organi il principio di democraticità che è una condizione essenziale per il riconoscimento in OP. Nel settore dell’ortofrutta e anche negli altri si può ragionevolmente affermare che gran parte delle OP si sono costituite in forma cooperativa o si tratta di società cooperative già esistenti che hanno chiesto e ottenuto il riconoscimento.
In realtà, bisogna togliere un equivoco che per tanto tempo ha reso difficile il rapporto tra cooperative e OP e non è ancora del tutto risolto. L’OP non è un altro soggetto giuridico rispetto alla cooperativa sottostante, ma è una funzione che viene riconosciuta dalla Pubblica Autorità (UE, Stato, Regioni) a cooperative o anche ad altre forme di società, quando abbiano i requisiti richiesti per il riconoscimento. L’OP avente la forma di società cooperativa è certamente un soggetto giuridico di natura privata, ma il riconoscimento le permette di aggiungere funzioni di tipo “para-pubblico” a quelle privatistiche. Si potrebbe affermare che le OP aventi natura di società cooperativa sono delle cooperative con qualche cosa, e non poco, in più, come la possibilità di chiedere l’estensione ai non soci delle norme di comportamento da esse fissate e di stipulare “contratti quadro” da depositare presso il Mipaaf.

Alcune considerazioni conclusive

L’analisi che è stata condotta permette di concludere che l’obbligatorietà dei contratti scritti nella cessione di prodotti agricoli e alimentari può diventare un efficace strumento per difendere e aumentare il potere contrattuale della parte più debole (l’agricoltore) e per dare ordine al mercato, se nei rapporti di filiera interviene, per la parte agricola, la presenza delle OP e se le relazioni tra le diverse fasi sono regolate da accordi promossi dalle OI. In sintesi, si potrebbe dire che questo è il modello adottato proprio dal “pacchetto latte” che, purtroppo, non è stato ancora applicato nel nostro Paese e che, forse, in questo momento non avrebbe avuto una grande efficacia data la grave crisi internazionale del settore, ma che avrebbe consentito alla produzione di partecipare con maggior peso11 ai tavoli di filiera che il Ministero ha promosso per arrivare a degli accordi con le imprese lattiero-casearie.
Bisogna riconoscere che l’esperienza delle OP, pensate come strumenti indispensabili per regolare i mercati agricoli, è stata segnata da molti fallimenti. Non si deve, tuttavia, rinunciarvi, perché l’aggregazione dell’offerta è la condizione indispensabile per poter passare a politiche di filiera che permettano di stabilire rapporti interprofessionali meno diseguali e passare dalla concorrenza tra imprese a quella tra sistemi imprenditoriali. Non sono, però, gli strumenti che risolvono il problema, ma come vengono usati e finora i nostri agricoltori si sono dimostrati capaci di beneficiare degli aiuti comunitari, ma non hanno saputo usare Op e OI secondo gli obiettivi per cui sono state pensate.
Il quadro che emerge è quello di una struttura organizzativa della nostra agricoltura ancora impreparata ad affrontare le sfide del mercato globale in assenza di misure accoppiate, di cui le organizzazioni professionali insistono a richiedere la riattivazione per affrontare le crisi che si ripetono in diversi settori. Pare, tuttavia, impossibile, che la Pac possa ritornare alle vecchie politiche, per cui è indispensabile avanzare nella strada indicata dalla nuova Pac che, attraverso OP, OI e contrattualizzazione, mira a far crescere la capacità degli agricoltori ad affrontare il mercato.

Riferimenti bibliografici

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  • 1. Chiamata più propriamente “Revisione a medio termine” di “Agenda 2000”.
  • 2. Da ricordare che la riforma MacSharry del 1992 per prima mise in discussione il modello accoppiato riducendo i prezzi minimi e compensando gli agricoltori con pagamenti per ettaro rapportati alle rese storiche.
  • 3. Si tratta della controversia sollevata da Celox, un commerciante di ortofrutta, contro Coop Italia-Centrale Adriatica a causa della presenza di clausole vessatorie nel contratto, denunciata per prima dalla ben nota trasmissione televisiva “Report”.
  • 4. Nel sito della Regione Emilia Romagna si possono conoscere le iniziative promosse dalla legge regionale n. 24/2000 di costituzione di organizzazioni interprofessionali (ad esempio, l’OI della pera) e di contratti quadro (ad esempio, il contratto per il grano duro con Barilla).
  • 5. Consorzio di Tutela del Formaggio Parmigiano Reggiano, Consorzio di Tutela del Grana Padano, Consorzio di Tutela del Formaggio Asiago, Consorzio di Tutela del Pecorino Romano e altri non facilmente reperibili.
  • 6. Consorzio del Prosciutto di Parma, Consorzio del Prosciutto di San Daniele, almeno per ora.
  • 7. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. AS1266- Accordi relativi a prezzi di uve destinate alla produzione di vini Docg e Doc, Bollettino n. 9/2016.
  • 8. Il comma 2 dell’art. 3 del Reg. UE n. 1151/2012 recita testualmente: “gruppo” qualsiasi associazione, a prescindere dalla sua forma giuridica, costituita principalmente da produttori o trasformatori che trattano il medesimo prodotto.
  • 9. La lettera b) dell’art. 25 del D.lgs. n. 18 maggio 2001, n. 228, la cosiddetta “Legge di Orientamento”, recita che l’organizzazione interprofessionale, una per prodotto, “raggruppa organizzazioni nazionali di rappresentanza delle attività economiche connesse con la produzione, il commercio e la trasformazione dei prodotti”, tanto che soci di “Ortofrutta Italia”, la sola e ultima OI riconosciuta dal Mipaaf nel 2005 sono le organizzazioni professionali di tutti i settori, le organizzazioni cooperative e le Unioni Nazionali delle OP ortofrutticole.
  • 10. Ambedue sono costituite in forma di Società consortile a r.l. e Unaproa nel 2003 ha ottenuto il riconoscimento di Organizzazione comune ai sensi degli art. 5 e 6 del D.lgs. 102/2005, un’ulteriore forma associativa forse inventata solo per permetterne il riconoscimento nei tavoli ministeriali come organizzazioni di servizio e di lobby a supporto delle OP ortofrutticole.
  • 11. Non si possono dimenticare alcuni segnali positivi, infatti verso la fine del 2015 si è costituita Aop Latte Italia, che concentra 1 milione di tonnellate di latte, pari a poco meno del 10% del latte italiano.
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