Molti passi, un solo processo
Il tema di questo numero di AgriRegioniEuropa è la riforma della Politica Agricola Comunitaria (PAC). Al centro dell’attenzione, tuttavia, non vengono poste le misure di recente presentate nell’ambito del cosiddetto Health Check (HC), e su cui è ormai ampiamente avviato il dibattito sia nel mondo agricolo che in ambito accademico (De Filippis, 2007; AA.VV., 2007), bensì la PAC che dovrà prendere forma per il periodo successivo all’attuale fase, cioè dopo il 2013.
Per cominciare a ragionare sul post-2013, però, è in primo luogo necessario comprendere i processi in atto e i passaggi previsti per i prossimi anni. La proverbiale gradualità con cui la UE procede nelle sue riforme, soprattutto in tema di PAC (sebbene la riforma del 2003, in realtà, non sia stata così graduale) conferisce a tali processi una notevole path-dependency. Una continuità che, da un lato, implica che la PAC del post-2013 dovrà essere anticipata e preparata già nei prossimi anni; d’altro canto, però, sta anche a significare che tutti gli obiettivi di riforma che si vorranno mettere sul tavolo dovranno necessariamente tenere conto, come fattore limitante, dello stato in cui ci si troverà ad operare a quell’epoca.
Diversi sono i passaggi politico-istituzionali che si verranno ad intrecciare nei prossimi mesi (un vero e proprio “ingorgo istituzionale”). L’HC di fatto completerà il percorso iniziato nel 2003 e preparerà la PAC al processo della revisione del bilancio, o Budget Review (BR), la cui consultazione pubblica è stata avviata negli scorsi mesi. Tale revisione dovrà essere completata nel biennio 2008-2009 e delineerà la direzione che si vorrà prendere circa la formazione e l’impiego del bilancio della UE nel post-2013 e, quindi, definirà i vincoli finanziari entro cui la nuova PAC dovrà necessariamente muoversi. Entrambi questi passaggi, vanno senz’altro visti come parte di un unico processo politico, come ha avuto modo di sottolineare la stessa Commissaria Fischer Böel (“due passi, un unico processo”).
Contestualmente, già nel settembre di quest’anno, il Presidente della Commissione Barroso ha aperto il dibattito sul futuro delle politiche della UE nel più lungo termine sottolineando che, inevitabilmente, la ridefinizione di tali politiche nel post-2013 riguarderà anche ed in primo luogo la PAC. Negli stessi giorni, il presidente francese Sarkozy si è detto favorevole ad una ulteriore riforma della politica agricola, mantenendo, però, sostanziale ambiguità su quale direzione, a suo parere, questa debba prendere, in particolare ribadendo la posizione francese a favore della salvaguardia dell’attuale budget della PAC (“un bilancio ambizioso”) e del mantenimento del “principio incontestabile di preferenza comunitaria”. La Francia, peraltro, sarà presidente di turno della UE nel secondo semestre del 2008, cioè quando questi processi, solo apparentemente distinti, tenderanno a convergere e si dovrà trovare un equilibrio ed un compromesso politico.
Nel frattempo (giugno 2009), verranno rinnovate la Commissione Europea ed il Parlamento Europeo (PE), e nello stesso periodo dovrebbe giungere a conclusione (per entrare in vigore il 1^ gennaio 2009) l’iter di ratifica del Trattato di Lisbona, cioè il nuovo testo del Trattato della UE che, fallito il progetto di Costituzione europea, dovrebbe introdurre sostanziali modifiche nel funzionamento delle istituzioni europee e, soprattutto, nel processo decisionale e legislativo. Si arriverà, quindi, alla scadenza del 2013 seguendo un sentiero già in buona parte tracciato. A percorrerlo, però, potranno essere soggetti diversi dagli attuali, e in un quadro politico-istituzionale non facilmente prevedibile.
Lo stesso quadro internazionale potrà sostanzialmente differire rispetto ad altre precedenti riforme della PAC. L’attuale round negoziale del WTO sta vivendo una lunga fase di stasi e notevoli dubbi permangono sul fatto che, almeno a breve, possa concludersi con un accordo, al punto che non pochi esperti vedono all’orizzonte pericoli per la stessa sopravvivenza del WTO. Il negoziato agricolo è il punto maggiormente critico; rimane in vigore l’accordo del 1994 (l’URAA) e non vi sono elementi per ritenere che nel processo di riforma della PAC successivo all’HC, i round negoziali in ambito WTO possano esercitare un significativo vincolo esterno. Ciò lascia apparentemente le mani libere all’UE su questo punto, ma ha anche il riflesso negativo di non consentire alla Commissione Europea di usare strumentalmente tali vincoli, come talvolta fatto in passato, per esercitare maggiore pressione sul Consiglio Europeo e sul mondo agricolo verso più sostanziali modifiche dell’impianto della PAC.
Si aggiunga che anche l’attuale fase di tendenziale crescita dei prezzi agricoli a livello internazionale pone il dibattito sul futuro della PAC in una luce diversa e forse inedita. Per quanto si possano nutrire dubbi sull’origine di queste vigorose tendenze al rialzo, la sensazione è che alcuni fattori che le hanno determinate abbiano carattere strutturale e siano destinate a permanere (IFPRI, 2007; The Economist, 2007). Già oggi osserviamo come la strumentazione consolidata di stabilizzazione e intervento sui prezzi, nonché di controllo dell’offerta, rischia di risultare non più necessaria né auspicabile. Gli stessi meccanismi di formazione dei prezzi all’interno della UE sembrano destinati ad entrare in una vera e propria nuova era (Tangermann, 2007).
E’ altresì vero, che la responsabilità e la visibilità che l’UE ha progressivamente conseguito in ambito internazionale come promotrice della sostenibilità ambientale, del multilateralismo, della via pacifica alla risoluzione dei conflitti internazionali, non permette alla stessa UE di avviare una riforma della PAC per il post-2013 che non ribadisca questa vocazione globale della UE, che non si faccia carico degli enormi problemi del sottosviluppo e dello squilibrio a livello mondiale, delle questioni ambientali globali, dell’apertura commerciale, politica e culturale verso i paesi emergenti ed in via di sviluppo.
Ogni generazione ha diritto di riscrivere la PAC
Prima ancora di provare ad entrare nel merito del se e del come la PAC del post-2013 dovrà essere rinnovata, il quadro politico-istituzionale sopra delineato ci permette di ritenere che dopo il 2013 avremo comunque una PAC diversa, di nuova generazione. E ciò per due sostanziali ragioni.
La prima ragione è che sarà la prima vera PAC dell’UE allargata a 27 paesi. In fin dei conti, la riforma del 2003, sebbene profondamente condizionata anche dal processo di allargamento, è stata delineata dai “vecchi” stati membri. I margini di intervento e discussione sulla natura di tale riforma da parte dei 10 paesi entrati nel maggio del 2004, e a maggior ragione di Bulgaria e Romania, sono stati molto limitati. Piuttosto, la PAC riformata allora è stata una delle “clausole contrattuali” fondamentali che hanno regolato l’accesso dei nuovi paesi nella UE. La situazione attuale è ben diversa. A pieno titolo e con analoga dignità politica rispetto ai “vecchi” membri, i 12 nuovi paesi potranno far pesare sul tavolo negoziale della riforma tutte le loro priorità e i loro veti e, soprattutto, potranno definire alleanze politiche tra loro o con i vecchi stati membri, spesso in contrasto proprio circa la direzione da prendere sul futuro della PAC (si pensi alle diverse posizioni di Francia e Regno Unito).
Si tratta di un vero elemento di novità che costituisce un’incognita sulla direzione che prenderà il negoziato di riforma. Da un lato, la maggiore complessità del quadro e presumibilmente le maggiori difficoltà nel trovare un accordo che possa soddisfare i diversi interessi, rischia di dare maggiori chance al mantenimento dello status quo. Anche per i nuovi stati membri, in fin dei conti, può apparire conveniente conservare il più possibile il quadro dell’attuale PAC, con le sue certezze circa quanto ogni paese riceve, piuttosto che “lanciarsi” in un processo di riforma il cui esito finale, in termini di contributo netto, possa risultare incerto e molto rischioso, soprattutto per quei paesi che su questo contributo netto maggiormente puntano. D’altro canto, però, è anche possibile che i nuovi stati membri diventino il principale motore di una radicale riforma e del progressivo smantellamento della PAC, almeno del primo pilastro. Dal momento che rispetto ai "vecchi" stati membri, maggiormente sviluppati, ciò che ricevono in via preferenziale dalla UE sono soprattutto i fondi legati a coesione e convergenza regionale, possono trarre vantaggio da una riduzione del budget della PAC a favore di queste altre politiche.
Ma sarà anche la prima riforma della PAC discussa ed approvata secondo i nuovi assetti istituzionali previsti dal Trattato di Lisbona: mentre HC e BR dovrebbero essere gli ultimi passaggi con le vecchie regole, la PAC per il post-2013 sarà uno dei primi fondamentali banchi di prova delle nuove. Il Trattato di Lisbona non modifica ruolo ed obiettivi fondamentali della PAC. In questo senso, la Costituzione Europea aveva implicazioni ben maggiori alla luce del suo inquadramento federale (Bianchi, 2007). Ciò non toglie, però, che anche il Trattato di Lisbona contenga importanti elementi di novità anche per quanto concerne la PAC. Su tale aspetto maggiori dettagli vengono forniti dall’articolo di Sotte in questo stesso numero. Basti solo ricordare che con la procedura di codecisione ogni riforma della PAC rischia di essere più complessa e politicamente meno certa rispetto al passato. E’ opinione largamente diffusa (Cooper et al., 2007), peraltro, che questa nuova attribuzione dei poteri decisionali tra gli organi della UE possa far sentire i suoi effetti già durante l’iter di discussione e approvazione della revisione del bilancio e, soprattutto, dell’HC.
Ciò mette anche in evidenza che, nell’iter di approvazione di HC e BR, la Commissione potrebbe scegliere un più basso profilo per evitare l’ostruzionismo del PE e giungere ad approvazione prima che entri in vigore il nuovo Trattato, anche in vista del rinnovo della Commissione stessa. E’ prevedibile, quindi, che la Commissione voglia gestire queste scadenze a breve evitando grossi scossoni, rimandando le questioni più spinose al 2010. A quel punto, però, la Commissione potrà forzare la mano, il PE avrà nuovi poteri, i conflitti latenti tra stati membri verranno alla luce e le questioni lasciate irrisolte e le aspettative rimaste insoddisfatte emergeranno con tutta evidenza.
Un dibattito “senza tabù”
Può risultare dunque rischioso, ed esercizio solo accademico, lanciarsi in una lettura di come potrà essere la PAC del post-2013 alla luce di quanto sottolineato. Nonostante tutto, però, su alcuni punti si può provare a ragionare anche perché sembrano trovare un largo consenso.
E’ utile ricordare che lo stesso Presidente Barroso ha dichiarato di volere un dibattito “senza tabù” sul futuro delle politiche della UE. Poiché la PAC, e la sua difesa (almeno in termini di peso finanziario), è da molti considerata il “tabù” per eccellenza dell’azione comunitaria, il messaggio di Barroso faceva implicito riferimento ad essa. La stessa Fischer Böel, nell’inverno del 2007, aveva stupito, e irritato, il mondo agricolo affermando che gli agricoltori europei dovevano cominciare a prepararsi all’eventualità di trovare alternative occupazionali per dopo il 2013. La Commissione, cioè, vuole lasciare aperta la possibilità di un intervento profondo (nel budget e negli strumenti) sulla PAC del post-2013. D’altro canto, “senza tabù” vuol anche dire che al momento non c’è un vero senso di marcia già prefigurato, su cui ci sia già una qualche convergenza politica. E’ indicativo il fatto che Barroso abbia salutato con favore la già ricordata apertura di Sarkozy, giacché incassa il consenso politico su un’ampia opzione di riforma, sorvolando sulle ipoteche che su tale opzione lo stesso Sarkozy ha tenuto a precisare.
In ogni caso, ed al di là degli esiti della revisione del bilancio (che pure avranno un notevole peso), si può ragionevolmente concordare che ogni riforma della PAC successiva al 2013 sarà sostanzialmente budget driven, cioè guidata dall’esigenza primaria di ridurre il peso della PAC sul bilancio comunitario. Ne consegue che lo spettro di opzioni su cui ci potrà muovere è confinato tra due estremi. Da un lato, il congelamento anche dopo il 2013 della situazione attuale, con l’aggiunta delle modifiche introdotte dall’HC. Questo implica una riduzione in termini reali del peso della PAC semplicemente mantenendo costante in termini nominali la somma complessiva dedicata alle varie misure, sia del primo che del secondo pilastro, eventualmente incrementando al margine il grado di modulazione con una conseguente leggera redistribuzione verso il secondo pilastro e ulteriore erosione del finanziamento accordato in Regime di Pagamento Unico (RPU).
All’altro estremo, una sensibile riduzione del budget della PAC anche in termini nominali, che dovrà essere ottenuta intaccando il finanziamento complessivo del RPU. Evidentemente, però, una riduzione sensibile del PUA non potrà che prevedere una ridefinizione della natura di tale strumento: nato come diritto o titolo ad un pagamento su base storica o regionale, può risultare politicamente poco praticabile una sua sostanziale riduzione se non mettendo in discussione l’origine di tale diritto, rendendolo cioè condizionato laddove all’origine era stato introdotto in modo praticamente incondizionato (ad eccezione della cross-compliance che, però, è risultata ben presto una misura condizionante piuttosto blanda).
Il tema centrale, dunque, diventa se e come sia possibile ridefinire lo strumento fondamentale su cui la PAC (almeno il primo pilastro) già oggi si fonda, e lo sarà ancor più dopo l’HC, cioè il PUA. Fondamentale è cercare di capire se questo strumento possa “resistere” ad una ridefinizione della sua natura o se, piuttosto, questa implica inevitabilmente il superamento dello strumento stesso. In quest’ultimo caso, però, si dovrebbe immaginare per il post-2013 un totale ripensamento della PAC uscita dalla riforma del 2003 e dall’HC. Considerando la gradualità con cui i percorsi di riforma vengono di solito compiuti allo stato attuale questa prospettiva appare poco probabile.
Piuttosto che soffermarsi sugli obiettivi ultimi, sulla natura e la giustificazione persino filosofica del PUA, operazione in verità assai rischiosa anche in termini politici, un modo pragmatico per mettere in discussione e ripensare il PUA, anche in sede di costruzione dell’iter politico di riforma, può essere quello di partire dai suoi limiti attuali di natura pratico-operativa. Partire, cioè, da ciò che l’attuale primo pilastro della PAC attraverso il PUA si dimostra incapace di ottenere (Sotte, 2005). Quattro sono i limiti su cui sembra utile soffermarsi.
Il futuro del PUA
Il primo limite dell’attuale primo pilastro della PAC è che si tratta di una politica sostanzialmente non mirata, senza un obiettivo chiaro da raggiungere, quindi senza elementi dichiarati su cui valutarne i risultati, selezionare e condizionare i beneficiari, rendicontare all’opinione pubblica ed ai cittadini della UE. Questo è, in verità, uno dei principali limiti di molta politica agraria, non solo nella UE, e di molte altre misure di politica economica: non essere strumenti pensati ed implementati per raggiungere un obiettivo preciso (OECD, 2007a; 2007b). Il PUA, in questo senso, sconta un’ambiguità di fondo. Poiché la riforma del 2003 è stata pensata alla luce di una ridefinizione del modello di agricoltura europea fondato sul concetto di multifunzionalità, una frequente giustificazione del PUA è quella di costituire il pagamento dei numerosi ed importanti beni pubblici che, gratuitamente, le imprese agricole contribuiscono a fornire: dal paesaggio, alla conservazione dell’eredità culturale, alla sicurezza alimentare (intesa sia come sicurezza di approvvigionamento che come sicurezza sanitaria).
Se, però, la multifunzionalità può essere intesa come il carattere generale, e generico, della funzione sociale dell’agricoltura, è altresì vero che una politica per la multifunzionalità non può essere né generale né generica. Tale fornitura di beni pubblici non può essere assunta; va piuttosto verificata, quantificata e qualificata. Il PUA, quindi, non è un buono strumento a favore della multifunzionalità (termine che, anche per questo motivo, è un po’ scomparso dall’orizzonte del dibattito sul futuro della PAC). A meno che, come sopra accennato, esso non venga condizionato in maniera molto più incisiva di quanto non accada ora, rafforzando la cross-compliance ed estendendola a tutte le categorie di beni pubblici coinvolti, come per esempio la qualità, tipicità e salubrità degli alimenti, o il mantenimento di pratiche non più economicamente convenienti ma che consentono la conservazione di una memoria e di un patrimonio di conoscenza e tradizioni. In alternativa, si può ridurre il PUA a favore della quota di aiuto ri-accoppiato a produzioni associabili a tali beni pubblici; un po’ secondo il modello già sperimentato con l’art.69, ma di molto rafforzato e, soprattutto, reso più incisivo e selettivo.
Un secondo limite evidente è l’iniquità del PUA. L’attuale primo pilastro è cioè irrimediabilmente iniquo sia in un ottica intergenerazionale che territoriale. Vengono ad essere penalizzate proprio quelle realtà d’impresa che, anche rispetto alla fornitura di beni pubblici, dovrebbero essere maggiormente sostenute: le nuove (e giovani) imprese e le imprese dei territori marginali e meno produttivi o storicamente meno protetti dalla PAC. Come è stato già sottolineato (Anania, 2007) non sembra che il passaggio alla regionalizzazione come sistema generalizzato di erogazione del PUA risolva il problema; potrebbe, anzi, paradossalmente acuirlo. Di nuovo, il punto è se, e in che misura, sia possibile attenuare gli squilibri rafforzando o introducendo strumenti simili a quelli già attualmente disponibili (per es. la riserva nazionale).
Una terza criticità è la scarsa integrazione del primo pilastro con tutte le altre politiche della UE, a cominciare dal secondo pilastro della stessa PAC. E’ difficilmente ipotizzabile, né è auspicabile, che possa continuare ad esistere nella forma attuale uno strumento, quale il PUA, che viene gestito con logiche completamente diverse rispetto a tutti gli altri. Le altre politiche dell’UE, infatti, prevedono degli schemi di gestione e programmazione che sono ormai largamente condivisi. In primo luogo, sono misure cofinanziate le quali, in nome del fondamentale principio di sussidiarietà, prevedono una compartecipazione di responsabilità del livello nazionale e regionale, nonché la partecipazione finanziaria dei beneficiari. A ciò si aggiunga che tutte le altre misure, di norma, prevedono progettazione, valutazione, rendicontazione che necessariamente responsabilizzano i beneficiari, consentono di verificare efficienza ed efficacia della politica e, soprattutto, costruiscono percorsi virtuosi in termini di capacità istituzionale, di finalizzazione degli interventi, di gestione dei finanziamenti. Nulla di tutto ciò si osserva nel PUA e, data la sua configurazione attuale, risulta molto complesso ridefinire lo strumento in tale direzione.
Questa anomalia del primo pilastro della PAC ha come effetto principale quello di rendere il PUA stesso di fatto non integrabile con le misure del secondo pilastro. In effetti, laddove si voglia giustificare il PUA come una forma di pagamento legato alla natura multifunzionale dell’attività agricola, ci si scontra con il paradosso che le misure che in pratica incentivano o remunerano attività e comportamenti riconducibili a beni pubblici sono in realtà tutte a carico del secondo pilastro, né è in alcun modo possibile combinare il PUA con le misure della politica di sviluppo rurale secondo specifici progetti, obiettivi, comportamenti. Combinare il PUA con le misure del secondo pilastro o, addirittura, con le altre politiche strutturali della UE, sembra possibile solo nella forma di una più ampia opzione di modulazione volontaria ed estendendo la modulazione anche ad altri fondi strutturali. A livello di singolo beneficiario, tuttavia, si potrebbe pensare all’obbligo di portare il PUA a maggior cofinanziamento di eventuali misure del secondo pilastro, o di altri fondi strutturali, a cui il beneficiario si volesse candidare. Andare in questa direzione, però, significa anche prendere atto delle necessità di superare progressivamente la stessa distinzione in due pilastri.
Infine, un quarto punto critico è che il PUA non costituisce uno strumento efficace di garanzia dei redditi agricoli. Anche questa giustificazione viene spesso addotta a difesa del PUA, ed ha una sua dignità. Indiscutibilmente, una parte significativa delle imprese e delle famiglie agricole soffre una bassa redditività in relazione sia a specifici limiti strutturali legati alla dimensione o alla marginalità geografica, sia alle crisi di mercato che periodicamente possono coinvolgere soprattutto le aziende ed i territori più specializzati.
Ma anche su questo il PUA non è sostenibile. In primo luogo perché territorialmente iniquo, come detto, tendendo ad essere minore proprio nei territori con più bassa redditività. In secondo luogo, perché il PUA cresce al crescere delle dimensioni, quindi non fornisce alcuna risposta selettiva alle piccole realtà produttive in maggiore difficoltà. Gli interventi previsti dall’HC di “taglio” del PUA sotto e sopra una soglia minima e massima, rispettivamente, nonché lo stesso meccanismo di modulazione obbligatoria, paiono incidere molto poco su questo aspetto. In terzo luogo, perché il PUA è costante nel tempo, quindi è incapace di essere anti-ciclico rispetto ad andamenti negativi del mercato, mentre continua ad integrare il reddito degli agricoltori anche in anni in cui le condizioni di mercato sono particolarmente favorevoli. Come strumento di protezione dal rischio, quindi, è molto grossolano, anche considerando che è del tutto slegato dall’entità stessa del rischio.
Si potrebbe pensare a misure che incentivino i beneficiari del PUA ad usare questo strumento per creare fondi di rotazione o di solidarietà a livello territoriale o settoriale, in modo da trasformarlo in un vero strumento finanziario per la gestione del rischio o, più in generale, di finanziamento di interventi di interesse delle imprese che vi contribuiscono, come per esempio la formazione di una rete di servizi di consulenza aziendale e assistenza tecnica.
Il futuro della PAC appare legato a filo doppio al futuro del PUA. Difficile pensare che, dopo averlo introdotto nel 2003 come fondamentale strumento di disaccoppiamento degli aiuti, dopo averlo progressivamente esteso a tutte le altre OCM e semplificato ulteriormente con l’HC, nel 2013 si decida di abbandonarlo. D’altro canto, lasciato nella sua forma attuale, mantenendo quindi tutti i suoi fondamentali limiti, rischia di essere proprio il punto di attacco preferenziale per chi voglia tagliare il budget della PAC, travolgendo così anche il secondo pilastro. La conservazione di un budget vicino a quello attuale, almeno in termini assoluti, e quindi ogni possibilità di progressiva valorizzazione e rafforzamento del secondo pilastro, passa dunque attraverso un profondo ripensamento della gestione di questo strumento. A meno che non si voglia scegliere di trasferire tutto lo sviluppo rurale, il secondo pilastro, alle politiche regionali, salvandone il budget, per poi lasciare il primo pilastro ed il PUA al suo destino di declino o di progressiva rinazionalizzazione. Non sembra, però, che questa totale separazione di primo e secondo pilastro sia negli interessi del mondo agricolo, soprattutto in realtà come quella italiana.
Poche, ma importanti, le certezze sulla PAC del post-2013. Tanti, invece, i fattori di incertezza. Uno sforzo di analisi, e di immaginazione, vale la pena spenderlo proprio per cercare di diradare le nebbie su quanto accadrà nel più lungo termine e, comunque, aprire ed approfondire un dibattito che, tutto concentrato sulle scadenze immediate ed i temi dell’HC, rischia di perdere di vista le sfide più impegnative che ci aspettano. In questo numero, perciò, i contributi che seguono provano ad esercitarsi in tale sforzo di lettura del futuro della PAC in questo orizzonte più ampio, concentrandosi su quegli aspetti che risultano più critici e per i quali il ripensamento della situazione attuale sembra più necessario. Si tratta di contributi da cui emergono valutazioni sullo stato della PAC anche significativamente differenti. Lungi da costituire un limite tali differenze rappresentano il patrimonio fondamentale su cui avviare il dibattito.
Riferimenti bibliografici
- AA.VV. (2007). Quale PAC dopo il 2013? Forum di Politica Agricola Internazionale, n. 2 (in corso di pubblicazione).
- Anania, G. (2007). Pagamenti diretti: regionalizzazione, disaccoppiamento, cross-compliance. Presentazione al Workshop “L’Health check della PAC”, Gruppo 2013-Coldiretti, 23 novembre, Roma.
- Bianchi, D. (2007). La Politica Agricola Comune (PAC). Tutta la PAC, nient’altro che la PAC! Ghezzano: Felici Editore.
- Cooper, T., Baldock, D., Farmer, M. (2007). Towards the CAP Health Check and the European Budget Review. The proposals, options for reform, and issues arising. Institute for European Environmental Policy (IEEP), London.
- De Filippis, F. (2007). La Pac verso il futuro. Aspettando l’Health Check e la verifica di bilancio. Presentazione al VII Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, 19-20 ottobre, Cernobbio.
- IFPRI (2007). The World Food Situation: new Driving Forces and Required Actions. International Food Policy Research Institute (IFPRI), Washington, DC.
- OECD (2007a). Agricultural Policies in OECD Countries: Monitoring and Evaluation 2007. OECD, Paris.
- OECD (2007b). Effective targeting of Agricultural Policies: Best Practices for Policy Design and Implementation. OECD, Paris.
- Sotte, F. (2005). La natura economica del PUA. ARE – AgriRegioniEuropa, 1 (3), 15-18, [link]
- Tangermann, S. (2007). The Future of Agricultural and Food Markets. Crisis or Hope? Presentazione al VII Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, 19-20 ottobre, Cernobbio.
- The Economist (2007). Cheap no more, december 8th, 77- 79.