Una delle OCM più complesse
A fine giugno, con una comunicazione al Consiglio e al Parlamento Europeo, la Commissione Europea ha reso note le proposte di revisione dell’Organizzazione Comune di Mercato per il settore vino. L’attuale OCM vino, la cui ultima importante revisione risale al 1999, è una delle più complesse organizzazioni comuni di mercato. Si basa infatti su:
1) misure di mercato vere e proprie: distillazione obbligatoria dei sottoprodotti del vino e dei vini cosiddetti “a doppio scopo”, distillazione alcolica volontaria ordinaria e distillazione di crisi;
2) classificazione dei vini nelle due categorie di Vini di Qualità Prodotti in Regioni Determinate (VQPRD: in Italia, DOC e DOCG) e vini da tavola, che a loro volta possono avere o no un’indicazione geografica;
3) regolazione delle pratiche enologiche, in particolare lo zuccheraggio che è consentito solo in alcune regioni, mentre nelle altre l’uso del mosto concentrato è sussidiato per metterlo su un piano di parità con lo zuccheraggio, meno caro;
4) regolazione del potenziale produttivo, attraverso il divieto di nuovi impianti (con eccezioni relative a nuovi diritti di impianto), un premio per l’abbandono permanente della viticoltura, ed un programma di ristrutturazione e conversione dei vigneti per migliorarne la qualità.
Implicitamente o esplicitamente, questa politica si basava sul controllo dell’offerta per sostenere i prezzi; poiché la protezione doganale non era forte, si confidava sulla possibilità dell’UE di influenzare i prezzi mondiali, data la sua posizione di principale attore a livello mondiale (46% della superficie mondiale, 60% della produzione e del consumo). Questa strategia di controllo dell’offerta, che peraltro era tradizionale per l’UE e aveva anche ottenuto buoni successi, nell’ultimo decennio ha sofferto l’iniziativa dei nuovi paesi produttori (USA, Australia, Sudafrica, ecc.), le cui produzioni si sono sviluppate enormemente e hanno acquisito una quota crescente del commercio mondiale, entrando anche in forze sul mercato europeo, soprattutto nel Regno Unito. Alla base delle proposte di revisione dell’OCM vi è un giudizio critico sul suo funzionamento negli ultimi anni. In particolare, si ritiene che la proibizione di nuovi impianti abbia avuto un effetto limitato, sia per i nuovi diritti di impianto, sia per una crescita delle rese, favorita anche dalle misure di ristrutturazione e dal permesso di zuccheraggio; ne consegue che le eccedenze di vino degli ultimi anni sono giudicate di natura strutturale, e quindi si ritiene che le distillazioni non svolgano più il ruolo di riequilibrio di eccedenze temporanee. Un giudizio negativo viene anche dato sulla distinzione fra VQPRD e vini da tavola e sulle regole di etichettatura, incapaci di orientare adeguatamente il consumatore e nello stesso tempo un impedimento allo sviluppo dei vini monovitigno, sui quali si è basato il successo dei nuovi paesi produttori. Inoltre le misure di mercato e le restituzioni all’esportazione rientrano nella “scatola gialla” del WTO, cioè fra le misure maggiormente distorsive del commercio. Infine si giudica che le regole dell’OCM abbiano un grosso peso amministrativo, siano troppo strette e non sufficientemente flessibili.
Le proposte della Commissione
Di fronte a questo quadro, vengono proposte quattro opzioni:
1) mantenimento dello status quo con pochi adeguamenti;
2) riforma radicale dell’OCM (che viene dichiarata la preferibile, e di cui quindi parleremo più in dettaglio);
3) integrazione dell’OCM vino nel modello della PAC riformata (abolizione di tutte le misure di mercato e destinazione di tutto il budget dell’OCM al regime di pagamento unico, eco-condizionalità, modulazione, prolungamento temporaneo del divieto di nuovi impianti);
4) deregolamentazione del mercato del vino (abolizione di tutte le misure di mercato e di controllo del potenziale produttivo).
Secondo la Commissione europea, la prima opzione è del tutto inadatta ad eliminare le eccedenze e a recuperare la competitività; la terza, pur avendo il vantaggio di equiparare il settore al regime generale della PAC, creerebbe forti tensioni al ribasso dei prezzi in certe regioni, e le risorse finanziarie limiterebbero l’entità del pagamento unico; l’ultima, infine, avrebbe effetti devastanti sul settore, con forti fenomeni di abbandono in certe regioni.
La netta preferenza della Commissione europea va quindi alla seconda opzione. Le sue principali caratteristiche sono:
1) abolizione di tutte le misure di mercato, in particolare la distillazione; abolizione del sussidio per il mosto concentrato e contemporaneo divieto dello zuccheraggio; possibile abolizione delle restituzioni alle esportazioni in sede WTO. Tutto il budget attuale, con l’eccezione delle misure per l’abbandono permanente, sarebbero trasferite ad una dotazione nazionale (da utilizzare per misure fra una rosa di possibilità) o trasferite al secondo pilastro (pre-pensionamento, aiuti agroambientali);
2) revisione della normativa sulla qualità: la proposta è di istituire due categorie di vini: a indicazione geografica e senza; i primi sarebbero poi suddivisi, analogamente agli altri prodotti di qualità, fra vini IGP e vini DOP;
3) trasferimento dal Consiglio alla Commissione della competenza ad approvare nuove pratiche enologiche, riconoscimento di quelle ammesse dall’OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino), autorizzazione di pratiche ammesse a livello internazionale per vini destinati all’esportazione;
4) per quanto riguarda le misure di regolazione del potenziale produttivo, vengono presentate due varianti. Nella variante A, in una sola fase, il sistema dei diritti di impianto ed il regime di estirpazione verrebbero lasciati scadere nel 2010 o aboliti immediatamente; gli ettari estirpati volontariamente diverrebbero superficie ammissibile al regime di pagamento unico. Nella variante B, il sistema di restrizione dei diritti di impianto sarebbe mantenuto fino al 2013, dopo di che decadrebbe; il programma di abbandono permanente verrebbe fortemente incentivato, con premi decrescenti nel tempo per incoraggiare i produttori a richiederlo subito; i viticoltori aderenti sarebbero integrati nel regime di pagamento unico.
L’analisi d’impatto della Commissione
La comunicazione della Commissione è accompagnata da uno studio di analisi dell’impatto della revisione dell’OCM. Nello studio vengono presi in considerazione diversi elementi, che per quanto riguarda l’opzione preferita (riforma radicale) sono:
1) equilibrio di mercato: se nel lungo termine l’abolizione degli aiuti alla distillazione dovrebbe portare alla scomparsa delle eccedenze, nel breve potrebbe aumentare lo squilibrio; viceversa la cessazione dell’aiuto all’arricchimento con mosto concentrato e la proibizione dello zuccheraggio dovrebbe portare ad una diminuzione delle rese; dalla ripresa degli aiuti all’estirpazione ci si attende una forte diminuzione della produzione, e nella stessa direzione va il trasferimento di fondi al secondo pilastro (ad esempio, con il prepensionamento);
2) prezzi e redditi: nel breve termine, si prevede una riduzione dei prezzi dell’ordine del 5-8% (minore di quella prevista per lo status quo), con ovvi riflessi sui redditi dei viticoltori, tanto maggiori quanto più le aziende sono specializzate;
3) competitività: su questo versante si conta sul processo di ristrutturazione indotto dalla revisione, che dovrebbe anche portare ad un allargamento delle dimensioni medie delle aziende e ad una modernizzazione; anche la maggiore flessibilità rispetto alle pratiche enologiche e la semplificazione dell’etichettatura dovrebbero permettere una maggiore competitività, soprattutto rispetto alla concorrenza dei paesi del nuovo mondo;
4) impatto economico e sociale sulle aree rurali: i fondi allocati alle dotazioni nazionali dovrebbero facilitare l’aggiustamento strutturale; il premio per la cessazione e per il prepensionamento darebbe sostegno adeguato per i viticoltori anziani o non competitivi, e l’accoppiamento della cessazione con il pagamento unico potrebbe favorire la riconversione;
5) l’impatto ambientale sarà scarso, anche se il trasferimento di risorse al secondo pilastro e la ricaduta sotto il pagamento unico dei vigneti abbandonati potrebbero avere un effetto positivo;
6) rispetto al negoziato WTO, la riforma dovrebbe rispondere a tutte le richieste;
7) si conta infine su un miglioramento della qualità del vino, grazie all’abolizione dei sussidi alla distillazione, e su una semplificazione amministrativa.
Una prima valutazione della proposta di riforma
Per una prima valutazione degli effetti possibili della riforma, conviene prenderne in considerazione i diversi aspetti. Per iniziare, non si può che dare una valutazione positiva della semplificazione della classificazione dei vini e del suo allineamento con la disciplina generale dei prodotti di qualità. L’attuale classificazione, derivante da un’eredità storica, è farraginosa e non fornisce al consumatore, soprattutto a quello meno preparato, una chiarezza di indicazioni di qualità e/o di tipicità. Non a caso la maggior concorrenza da parte dei vini del nuovo mondo è avvenuta sulla base di vini facili da capire e da identificare, e in paesi (in primo luogo il Regno Unito) e fasce di consumatori nuovi al consumo di vino. Questi nuovi consumatori auspicabilmente diventeranno più avvertiti e si sposteranno su vini di più alta qualità, per i quali l’offerta europea subisce una concorrenza meno forte; resta il fatto che il settore vitivinicolo europeo ha faticato a tenere il passo su questo segmento. Sotto l’aspetto della qualità, il trasferimento invece delle competenze sulle pratiche enologiche dal Consiglio alla Commissione apre qualche problema: è vero, infatti, che questo consentirà una maggiore flessibilità, ma il problema vero è quello degli standard di qualità, come mostrato dalle recenti polemiche sul “vino ai trucioli”. Se da un lato, infatti, standard più “accomodanti” possono aprire la strada alla penetrazione in segmenti di mercato attualmente coperti dalla concorrenza (soprattutto fuori UE, e da questo punto di vista l’autorizzazione a produrre per l’esportazione con pratiche consentite altrove ma non nell’Unione pone la produzione europea su un piano di maggior parità), occorre considerare gli aspetti strategici, vale a dire la reputazione di qualità che rappresenta per i vini europei il migliore punto di forza di lungo periodo. Da questo punto di vista c’è senza dubbio un conflitto fra gli interessi dei grandi produttori di vino di largo consumo ed i piccoli produttori di qualità, ed in generale la Commissione potrebbe essere più esposta al lobbying dei primi, mentre il Consiglio dovrebbe avere una maggior sensibilità politica ai secondi (anche se l’esempio dei trucioli nel vino direbbe il contrario).
Gli effetti più importanti sono però quelli rispetto al controllo del potenziale produttivo. Si tratta in un certo senso della ripresa di una politica tradizionale di controllo dell’offerta, con l’importante differenza che in questo caso si sta cercando di eliminare gli incentivi alla sua espansione che nel passato convivevano con il tentativo di ridurla. Il problema, come e forse più che nel passato, è se questa riduzione dell’offerta europea non sia controbilanciata da una crescita dell’offerta degli altri paesi, e su quali fasce di prodotto. Anche se le importazioni europee di vino negli ultimi anni stanno crescendo, il loro prezzo medio sta scendendo (un fenomeno che non può essere attribuito interamente alle variazioni dei tassi di cambio), il che potrebbe indicare che la penetrazione dei vini esteri fatica a mantenere i ritmi precedenti (a conforto della strategia indicata dalla Commissione); ma potrebbe anche indicare che i vini esteri sono in grado di reggere una concorrenza di prezzo aggressiva (nel qual caso la riduzione dell’offerta interna non avrebbe l’effetto di rianimare i prezzi). L’altra faccia del problema però è anche su che tipo di vino si conta per la ripresa. Se si tiene presente che le esportazioni europee sono cresciute poco in quantità, ma il loro prezzo è su livelli molto più alti di quello delle importazioni, e si mantiene su tali livelli, se ne deduce che la scelta strategica dell’UE è quella di collocarsi sulla fascia media e alta del mercato mondiale dei vini. Da questo punto di vista, la riforma è coerente, in quanto tende a diminuire la protezione accordata alle produzioni di minor pregio, e a puntare sulla qualità media da una parte, sul maggior orientamento al mercato dall’altra. Anche qui, il giudizio implicito è che la vitivinicoltura europea non ha le sue migliori possibilità nella concorrenza di costo. In effetti, i punti deboli della viticoltura europea sono stati la difficoltà a reagire al tipo di penetrazione dei vini del nuovo mondo e, legato a questo, l’organizzazione commerciale. Se sul primo aspetto le riforme della classificazione dei vini e delle etichettature cercano di rimediare, ben più importante è il secondo, che presenta aspetti strutturali; basti pensare che le prime 5 imprese vinicole australiane coprono il 68% della produzione nazionale, e le corrispondenti percentuali sono il 73% negli USA, l’80% in Nuova Zelanda ed il 50% in Cile, contro il 13% in Francia, il 10% in Spagna, ed il 5% in Italia (Anderson). Su questo aspetto, gli accenni che vengono fatti ad una politica di promozione non possono che essere insufficienti, anche se questo aspetto non rientra tra i compiti prioritari di una OCM. Infine, è stato molto criticato durante i recenti Stati Generali del Vino organizzato dal MIPAF l’accenno alla possibilità di rimuovere, nell’ambito dei negoziati WTO, il divieto della vinificazione nella UE di mosti non comunitari e del taglio di vini comunitari con vini non comunitari. Alcuni lo considerano contraddittorio rispetto all’obiettivo di riduzione della produzione, ma in realtà, rispetto all’effetto sui prezzi della riduzione della produzione derivante dall’uso del mosto, non ha importanza chi riduce la produzione, se il mercato è aperto internazionalmente. Più che questo sono invece rilevanti due altri aspetti: il divieto rappresenta una protezione di fatto della produzione comunitaria, e come tale è in contraddizione coi principi WTO (su questo occorrerà peraltro aspettare lo sviluppo dei negoziati); non c’è dubbio invece che la rimozione dei divieti andrebbe in direzione opposta all’obiettivo di puntare sulla produzione di qualità ed sulla differenziazione dei prodotti europei, perché tenderebbe a diminuire la riconoscibilità dei vini europei e a rafforzare il settore dei vini di largo consumo.
Resta il problema della riconversione di una parte non indifferente della viticoltura europea, in particolare nelle aree meno vocate e/o meno capaci di sfruttare le opportunità di mercato. In sostanza, la Commissione invita questi settori ad abbandonare la viticoltura e a riconvertirsi, quando possibile, o a diventare destinatari del pagamento unico. Quanto la “rete di sicurezza” presentata sia davvero in grado di proteggere questi settori dipenderà in larga misura anche dalla progettazione nazionale delle misure intese a sostituire gli interventi di mercato. C’è infine da segnalare che la fine dei diritti di impianto rappresenta una perdita patrimoniale per gli agricoltori che ne disponevano. E’ la conseguenza inevitabile dell’introduzione di limiti alla produzione commerciabili, dalle quote latte alle licenze dei tassisti. Quest’ultimo esempio insegna che, se è facile introdurli, meno facile è rimuoverli.
Riferimenti Bibliografici
- Anderson K. (ed.) The World’s Wine Markets: Globalization at Work, London: Edward Elgar, 2004
- Commissione delle Comunità Europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo, Verso un settore vitivinicolo europeo sostenibile, COM(2006) 319 definitivo, 22/6/2006, [pdf]
- Commissione delle Comunità Europee, Documento di lavoro dei Servizi della Commissione, Sintesi della valutazione di impatto, SEC(2006) 780, 22/6/2006, [pdf]
- European Commission, D.G. for Agriculture and Rural Development, Wine Common Market Organisation, Working Paper, February 2006, [pdf]
- European Commission, D.G. for Agriculture and Rural Development, Wine Economy of the Sector, Working Paper, February 2006, [pdf]