Editoriale n. 49 - Il boomerang delle politiche che favoriscono la rendita

Editoriale n. 49 - Il boomerang delle politiche che favoriscono la rendita

Questo numero di Agriregionieuropa, curato da Andrea Povellato e Davide Longhitano, è dedicato alla questione della terra e della mobilità fondiaria. Prendendo spunto dal Tema, questo editoriale si interroga sul ruolo delle politiche agricole. La tesi che intendiamo sostenere è che anziché favorire prioritariamente lo sviluppo imprenditoriale e quindi la creazione di condizioni tali da migliorare capacità di generare profitto, le politiche agricole privilegiano la formazione della rendita. Quella fondiaria in primo luogo, incorporata in prezzi della terra (e affitti) artificialmente alti. Così facendo, si compromettono le capacità del settore di produrre reddito, a scapito in primo luogo del profitto e, a lungo andare, anche della stessa rendita fondiaria.

Puntare al soggetto o al progetto?

Come si capisce se una politica favorisce la rendita o il profitto? Basta chiedersi se, per beneficiarne, occorre esibire un titolo di status, oppure occorre mettere a punto e realizzare un progetto.
Ricadono nella prima tipologia tutti i diritti acquisiti e riconosciuti ad un soggetto (persona fisica o giuridica) come condizione per l’accesso ai benefici: la proprietà della terra, i diritti di impianto, le quote fisiche di produzione, o i connotati personali come l’età, se costituiscono, come tali, condizione esclusiva per acquisire il diritto di accesso ai benefici delle politiche. Ricadono nella seconda tutti i casi in cui l’accesso ai benefici è condizionato ad un progetto, cioè ad un comportamento da tenere, che ci si impegna nel futuro ad adottare e rispettare. Le politiche orientate alla rendita, in sostanza, guardano al passato (sono backward looking), mentre quelle orientate al profitto e quindi al sostegno dell’impresa guardano al futuro (sono forward looking).
Capita talvolta che le misure di politica agraria abbiano forma ibrida e presentino qualche tratto di entrambe le colorature di questa cartina al tornasole. In tali casi, si applica il principio della prevalenza.

Cosa non sono i pagamenti diretti

Se analizziamo con questo metro le politiche agricole correnti, come rendita vanno innanzitutto classificati i pagamenti diretti.

  • Non sono infatti pagamenti compensativi. Lo erano all’origine, quando venivano concessi per attenuare l’effetto immediato sui prezzi dell’abbandono delle misure protezionistiche (erano infatti appunto denominati: “indennità compensative”) ed erano concessi per facilitare la riorganizzazione aziendale in direzione della diversificazione e del passaggio ad attività non eccedentarie. Ma non possono essere considerati più tali, dopo che sono passati più di vent’anni dall’abbandono della politica dei prezzi protetti.
  • Non sono neanche un aiuto al reddito, nonostante spesso li si consideri erroneamente tali. Infatti non si tiene alcun conto del reddito del beneficiario, che può essere anche altissimo e provenire, oltre che dall’agricoltura, anche da altre origini (e allora perché sostenerlo?). Peraltro proprio a beneficio delle imprese più grandi, e quindi presumibilmente dei redditi più alti, si concentra la parte di gran lunga preponderante del sostegno: quell’81,5% di tutti i pagamenti diretti che va in Italia al 20% dei maggiori beneficiari (Sotte, Baldoni 2016). Se si volesse davvero sostenere il reddito, perché non tenere conto delle differenti condizioni di reddito e delle minori opportunità alternative, che in generale penalizzano l’agricoltura delle aree interne, rispetto a quella di pianura, dove invece si concentra il sostegno? E poi, comunque, l’aiuto al reddito non dovrebbe essere tema delle politiche sociali? Un povero è tale, tanto se è agricoltore, che se è disoccupato o ha comunque un reddito troppo basso.
  • Non sono infine neppure un pagamento per beni comuni o pubblici. È vero che ad essi sono associati gli impegni agro-ambientali di cross-compliance e quelli imposti dal greening. Questo condizionamento rende ibridi i pagamenti diretti inducendo alcuni a considerarli come il corrispettivo della condizionalità e quindi, in questo senso, rivolti al futuro. Ma se l’obiettivo è la salvaguardia dell’ambiente, perché non pagare direttamente per gli impegni agro-ambientali, sulla base di esplicite soluzioni contrattuali in cui, tenuto conto delle specificità da salvaguardare, sia prescritto il comportamento dovuto ed il corrispettivo da ricevere? La distribuzione dei pagamenti diretti invece è fissata a priori su basi del tutto estranee all’eco-condizionalità, senza tener conto in alcun modo delle implicazioni necessarie ad assicurare la sostenibilità dell’agricoltura. Così a volte gli impegni sono molto onerosi e, ove gli agricoltori abbandonino l’attività o rinuncino ai pagamenti diretti, si perde anche la conservazione dell’ambiente, mentre in altri casi gli agricoltori non debbono fare niente per rispettarli, come per la maggior parte dei beneficiari del greening. Tutti coloro, infine, che optano per il regime dei piccoli agricoltori ne sono addirittura di fatto esentati.

I pagamenti diretti: cosa sono?

Il nostro metro ci assiste nel capire la natura dei pagamenti diretti: sono principalmente rendita. La riforma Fischler del 2003, da cui hanno origine, ha infatti introdotto una nuova condizione di status, un nuovo diritto rivolto al passato: quello in base al quale l’agricoltore che sia stato beneficiario di pagamenti accoppiati nel biennio 2000-2002 ha acquisito il diritto a continuare a ricevere negli anni seguenti (su base storica) la media di quei pagamenti. La riforma del 2013 ha introdotto un’altra condizione di status: quella riconosciuta all’ettaro eleggibile di “superficie agricola”, cioè a “qualsiasi superficie occupata da seminativi, prati permanenti e pascoli permanenti, o colture permanenti” (Reg. 1307/2013, art. 4).
La natura di rendita dei pagamenti diretti è d’altra parte testimoniata dal suo materializzarsi in termini di maggiore prezzo (e costo d’uso) del fattore terra. L’imprenditore che amplia la sua attività o il nuovo agricoltore i quali acquistano terra da un agricoltore che lascia l’attività saranno tenuti a corrispondere a quest’ultimo, oltre al valore agricolo del terreno, anche i pagamenti diretti attualizzati che ad esso sono associati. Così il vecchio che abbandona li intasca e il giovane (o comunque l’imprenditore) che si impegna nell’attività di impresa, si trova di fronte ad un costo di ingresso (o di ampliamento) aggiuntivo.

Altre politiche che premiano la rendita

Se fin qui abbiamo concentrato l’attenzione sui pagamenti diretti è ovviamente per il loro peso finanziario particolarmente rilevante. Ma molte altre politiche premiano ugualmente lo status e in definitiva prefigurano posizioni di rendita. Ci riferiamo a tutte quelle misure che impediscono all’offerta di aggiustarsi rispetto alle convenienze di mercato: è il caso dei diritti di impianto che concorrono a spingere alle stelle i prezzi dei vigneti; delle quote di produzione che aggiungono artificialmente un onere per chi intenda estendere la produzione; delle agevolazioni concesse per la produzione di biogas o fotovoltaico; dell’obbligo ad  associare i pagamenti diretti per i più ricchi allevamenti senza terra di pianura ad una superficie agricola, con il risultato di aver attivato una corsa all’accaparramento a scopi speculativi di terreni agricoli e pascoli nei territori più disagiati delle aree interne. A tutto danno degli agricoltori e degli allevatori locali che vedono crescere artificialmente il costo d’uso di quelle terre. Ci sono poi le politiche di regolazione agricole (es. contratti di affitto) ed extra-agricole (es. politiche ambientali e urbanistiche) che possono avere effetti analoghi.
Anche la circostanza di avere meno di 40 anni, quando quell’attributo è condizione esclusiva per beneficiare del sostegno, pubblico è un attributo di status generatore di rendita. La giovane età è una condizione necessaria per il ricambio generazionale, ma di per sé non è condizione sufficiente se non è associata ad un progetto d'impresa. Sotto questo profilo, anche la misura giovani inserita nel primo pilastro è una rendita. Essa peraltro si concentra nelle agricolture dove ci sono già più giovani (dove quindi un certo turn-over, almeno parzialmente, è già in atto), mentre non interviene affatto dove i giovani sono del tutto assenti e quindi il ricambio generazionale sarebbe più urgente. D’altra parte, disconnessa com’è da un qualsiasi progetto di impresa, la misura premia maggiormente i giovani impegnati nelle imprese più grandi e quindi presumibilmente già più solide e remunerative, e che non hanno bisogno di ampliarsi, mentre interviene in misura molto modesta nelle aziende piccole, che avrebbero ovviamente più bisogno di consolidamento.
Quanto alla spesa del secondo pilastro, essa è decisamente più rivolta all’impresa, se non altro per il fatto di essere collegata ad un programma di sviluppo rurale regionale che, almeno nelle intenzioni, definisce gli obiettivi che si intendono perseguire nel territorio di pertinenza e calibra rispetto ad essi le misure attivate. Quindi in generale è concessa in relazione ad una visione di futuro. Anche qui, comunque, se si entra nei dettagli e si guarda ai beneficiari, mentre sono numerosissimi quelli delle misure cosiddette “a domanda”, più facili da gestire e con pagamenti annuali (il 94,6% dei percettori di fondi del secondo pilastro sono tali per le misure agro-ambientali) (Sotte, Baldoni, 2016), sono molto pochi per le misure più strategiche “a progetto”, che per l’accesso richiedono la presentazione e l’impegno alla realizzazione di un programma vero e proprio e sono rivolte al rafforzamento e all’efficienza delle imprese, alla formazione dei capitali (capitale materiale, ma anche umano, organizzativo, sociale, territoriale) e quindi alla competitività.
Qui c’è ovviamente da risolvere con soluzioni appropriate il problema dello snellimento delle procedure e dei tempi spesso esageratamente lunghi con cui si interviene a sostegno degli investimenti strategici, ma è anche una questione di priorità: spesso le Regioni mirano piuttosto a “spendere presto” che a “spendere bene”, operando una selezione perversa tra le misure a vantaggio di quelle meramente distributive.
Un cenno infine ai trattamenti fiscali riservati alla terra, che in Italia rappresentano il 2.645 milioni in media l’anno (il 20,5% del consolidamento del sostegno al settore agricolo) (Crea, 2017; Cristofaro, 2017). Anche su quel fronte è la rendita ad essere privilegiata. L’esenzione generalizzata alla proprietà fondiaria, indipendentemente dalla sua destinazione produttiva favorisce l’investimento in terreni per scopi speculativi e come bene rifugio, aumentando di conseguenza il loro costo per le imprese agricole. Altro sarebbe se l’esenzione avvantaggiasse chi la terra la mette a frutto riservandola agli usi agricoli o direttamente o con conratti di affitto di lunga durata, mentre fossero opportunamente penalizzate le proprietà fondiarie assenteiste o semplicemente speculative.

Puntare sull’impresa favorisce anche la rendita

L’effetto della massiccia concentrazione dei benefici delle politiche agricole sulla rendita è ovviamente quello di erodere il profitto, riducendo la convenienza ad investire imprenditorialmente, limitando la capacità di autofinanziamento delle imprese e conculcando le possibilità di sviluppo del settore. Questo penalizza in particolare le imprese agricole che ricorrono all’affitto (436,1 mila nel 2013 per 5 milioni 236 mila ettari: il 42,1% di tutta la superficie agricola utilizzata) (Crea, 2017), ma investe anche gli agricoltori in cui proprietà della terra e titolarità dell’impresa sono congiunte: diverso è infatti l’impegno e lo stimolo all’attività imprenditoriale se il reddito complessivo è prevalentemente profitto o è prevalentemente rendita, soprattutto se prodotta dall’azione pubblica.
Il privilegio concesso dalle politiche alla rendita produce un effetto paradossale. Una sorta di boomerang. Se infatti nell’immediato le rendite sono avvantaggiate nella distribuzione dei benefici pubblici, non è affatto detto che lo siano altrettanto nel lungo periodo. Il valore della terra è in fin dei conti determinato dalla sua redditività e la redditività dipende dalle opportunità che le imprese agricole hanno di trarre profitto dalla terra stessa. Se la rendita erode il profitto, l’attività imprenditoriale diventa meno conveniente, gli investimenti in agricoltura diminuiscono, con la conseguenza che diminuisce anche la domanda di terra e, a lungo termine, la rendita stessa.
Se invece le politiche fossero rivolte al futuro e quindi si concentrassero sulla formazione del profitto, le imprese troverebbero più conveniente investire diventando più efficienti e competitive. Ne conseguirebbe un aumento dei redditi e quindi una domanda di terra maggiore e, a lungo termine, una crescita anche dei valori fondiari.

Riferimenti bibliografici

  • Crea (2017), Annuario dell’agricoltura italiana 2015, [link]

  • Cristofaro A. (2017) Fisco e agricoltura. Una difficile convivenza, Collana Economia Applicata, Agriregionieuropa (in via di pubblicazione)

  • Sotte F., Baldoni E. (2016), La spesa Pac in Italia (2008-2014), Collana Economia Applicata, Agriregionieuropa [link]

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