I processi evolutivi della realtà agricola/rurale: conseguenze, problematicità, strategie pianificatorie

I processi evolutivi della realtà agricola/rurale: conseguenze, problematicità, strategie pianificatorie
a Università di Bari, Dipartimento di Progettazione e Gestione dei Sistemi Agro-Zootecnici e Forestali

Introduzione1

Per chi si occupa a vario titolo della complessa realtà agricola/rurale una prima considerazione di fondo può facilitare il riorientamento di un percorso caratterizzato da valenze multiple: sociale, economica, ambientale, culturale, politico-programmatoria, per le quali è necessario predisporre un programma integrato.
Quello agricolo/rurale è un settore in profonda trasformazione, della quale gli aspetti fondamentali riguardano:

  • le idee, i modi di vedere e concepire i problemi dell’agricoltura, i valori che stanno alla base di politiche di lungo periodo;
  • le istituzioni, ovvero le strutture che presiedono all’azione pubblica e anche le modalità consolidate con cui si organizzano e si sviluppano le politiche da parte di policy makers, sindacati, agricoltori e operatori di settori affini;
  • i meccanismi stabili di decisione e di attuazione delle scelte pubbliche intraprese, l’isolamento o la permeabilità dell’arena di policy, l’autonomia con cui i protagonisti di queste politiche decidono e agiscono.

L’attuale fase di sviluppo delle politiche agricole rappresenta un puzzle proprio per questo: esse, da un lato, presentano una forte istituzionalizzazione, dall’altro, sembrano diventare sensibili alle pressioni esterne, ai mutamenti dei mercati e delle tecnologie, alle critiche degli ambientalisti e alle istanze dei consumatori, ai nuovi interessi di produttori biologici o a quelli di prodotti OGM. Ecco, quindi, delinearsi una fusione, solo in parte contraddittoria, tra continuità e discontinuità, che si modula in modo differenziato appunto tra paese e paese o tra comparto e comparto (Lanzaco e Lizzi, 2008, cit. pag. 345).
Per comprendere questa duplice pressione e tensione tra vecchio e nuovo e tra unità e varietà è opportuno, per chiarezza analitica, muoversi lungo due livelli, indagando:

  • a livello orizzontale sui mutamenti intervenuti nei rapporti tra settore agricolo e altri settori di policy,
  • a livello verticale sui cambiamenti avvenuti nelle relazioni tra differenti livelli di governo e fra attori pubblici e privati.

Lungo la dimensione orizzontale gli aspetti importanti da cogliere sono riconducibili al progressivo ampliamento dei confini dell’arena agricola e delle questioni oggetto di attenzione e di decisione: questa ridefinizione ha introdotto nuovi fronti di confronto e di conflitto, nuovi attori e nuove idee; modernizzazione e specializzazione, integrazione con l’industria alimentare, esternalità negative sull’ambiente naturale e animale, imperativi imposti dagli accordi commerciali, vincoli di bilancio insorti prepotentemente nelle arene domestiche ed europea, nascita e consolidamento delle istanze ambientaliste, crescente attenzione per la sicurezza alimentare, per la qualità e la tipicità dei prodotti.

Trasformazioni e conseguenze

Una prima fondamentale trasformazione del settore agricolo è costituita dalla progressiva erosione dei suoi confini e dalla conseguente ridefinizione dei contenuti della politica agricola: questa “grande trasformazione” (Pollan, 2008) si è avuta con la graduale integrazione tra coltivazioni agricole e industria alimentare, chimica e meccanica e, soprattutto, con l’imposizione di un livello totalmente subordinato dell’agricoltura rispetto all’industria e alla distribuzione.
La seconda “grande trasformazione” è registrata a partire dagli anni Ottanta, - quando le ondate deregolative diffondono il convincimento che anche il settore agricolo debba essere riformato smantellando in gran parte l’intervento pubblico, sulla base della innovatrice idea che l’agricoltura sia un settore dell’economia al pari di altri. Le fasi della transizione in atto sono caratterizzate da: il Libro Verde sull’agricoltura eco-compatibile del 1985, l’introduzione del set-aside, le direttive sull’uso delle sostanze chimiche, le soglie alle quantità garantite, il regolamento dell’agricoltura biologica, la prima grande riforma della PAC (riforma Mac Sharry) con le misure ambientali di accompagnamento e dai diversi provvedimenti comunitari via via emanati per meglio orientare l’agricoltura alla qualità, alla sostenibilità, al mercato.
Tutto ciò ha portato a significativi - ma non ancora sufficienti - esempi di integrazione tra la politica agricola e le altre aree di policy: la politica ambientale, la politica della sicurezza alimentare, la politica dello sviluppo locale, e, più recentemente, le politiche energetiche e di welfare.
L’isolamento istituzionale, che è stato uno dei caratteri costitutivi tradizionali della politica pubblica, lascia così il passo a politiche integrate intenzionate a tagliare trasversalmente le varie aree di policy e che non hanno più al centro della loro attenzione l’agricoltura in sé quanto piuttosto l’uso del territorio, la salute dei cittadini, il risparmio energetico o lo sviluppo locale.
Passare dalle prime pressioni verso il cambiamento alla vera e propria ridefinizione dei confini della politica agricola è stato un processo non breve e spesso incerto. Nell’UE con il Libro Verde, la conferenza di Cork sullo sviluppo rurale e con Agenda 2000, gli obiettivi compositi di riduzione della produzione, di sopravvivenza delle aree rurali e di sviluppo locale, di eco-compatibilità danno avvio a politiche agricole in parte innovative nelle strategie e negli strumenti. In sintesi, si può quindi riconoscere che oggi le politiche perseguano obiettivi numerosi e complessi, incorporando e integrando vincoli e finalità che sono di pertinenza anche di altri settori. Si tratta, allora, di un sovraccarico funzionale in termini di sfida che le succitate aree di policy dovranno affrontare nei prossimi decenni. Infatti, il concetto di multifunzionalità introdotto dall’UE a fine anni ’90 sta a indicare che l’impresa agricola svolge anche altre funzioni, collettivamente e socialmente rilevanti, come la manutenzione del territorio, lo sviluppo locale di aree rurali, la tutela di tradizioni e prodotti tipici, la promozione della qualità, l’erogazione di servizi di welfare.
La terza “grande trasformazione” che ha interessato l’agricoltura concerne i cambiamenti avvenuti lungo la dimensione verticale nei rapporti tra le istituzioni di governo della politica agricola e del governo agricolo mondiale: i regimi internazionali, le istituzioni sopranazionali e i governi nazionali, con almeno due impatti comuni: la messa in discussione dell’eccezionalità dell’agricoltura; la necessità di smantellare il protezionismo.
Si tratta di uno spazio di policy globale caratterizzato da rapporti fluidi e dinamici, nei quali si mescolano elementi politici, economici, culturali e sociali; ha confini mobili ed è definito dalle interazioni tra i suoi attori, alcuni dei quali hanno maggiore visibilità e potere di altri (Stone, 2008). Questo spazio limita l’autonomia dei governi nazionali e dei ministri agricoli europei nel definire scelte di policy e condiziona i processi di decision making. A ciò contribuiscono anche l’intensificarsi degli scambi, l’accrescersi delle interdipendenze dovute alla specializzazione produttiva di regioni e paesi, i nuovi metodi di trasporto dei prodotti trasformati e congelati e, infine, l’emergere di aggregazioni d’interesse transnazionale nell’ambito di alcuni comparti come, per esempio, quelli delle grandi commodity, dei prodotti chimici, delle sementi, delle macchine agricole. Tutto ciò rende oggi impensabile il governo dell’agricoltura entro i confini nazionali come in passato. I policy maker nazionali restano attori rilevanti, ma non dominano la scena e non dispongono delle risorse sufficienti a governare il settore. Da ciò derivano, da un lato, la crescente inclusività dei processi decisionali e, dall’altro, la loro “verticalizzazione”; da ciò si origina il progressivo passaggio da strutture di government a processi di governance, ovvero all’interazione tra strategie dall’ “alto” con strategie dal “basso”.

Integrazione e interazione: alcuni nodi problematici

In merito alla riferita seconda “grande trasformazione”, il punto importante da sottolineare è che i processi di integrazione a livello orizzontale presentano non poche problematicità. La principale è che questa integrazione tra settori di policy differenti richiede processi di de-istituzionalizzazione che sono spesso costosi in termini tecnici, amministrativi e politici. Emblematico è l’esempio della eco-condizionalità, cui dovrebbero essere subordinati gli aiuti diretti per gli agricoltori: un’implementazione efficace implicherebbe che i due ministeri Agricoltura e Ambiente, con finalità del tutto diverse (promozione di un settore particolare e tutela di un bene pubblico), concordassero programmi per la traduzione operativa, che tecnici agrari e chimici ambientalisti operassero insieme, che gli agricoltori nelle loro scelte produttive e nelle valutazioni di costi e benefici facessero propri obiettivi del tutto estranei alla logica economica (al riguardo, la componente ambientale del concetto e organizzazione dell’impresa agricola propone la figura e la presenza dell’imprenditore agricolo in quanto soggetto più direttamente interessato alla tutela ambientale e, conseguentemente, al più corretto uso del territorio).
Anche nel caso dei piani di sviluppo rurale - finalizzati allo sviluppo non del settore, ma di un territorio - gli attori che operano nell’artigianato, nel commercio, nel turismo e nell’agricoltura dovrebbero concordare strategie, compartecipare risorse, condividere costi allo scopo di raggiungere obiettivi comuni, posto che anche l’agricoltura, con i suoi obiettivi e interessi, è chiamata a contribuire all’elaborazione di “Sistemi locali per lo sviluppo territoriale”, in letteratura meglio noti come SLoT.
Naturalmente, questi processi risultano complessi da governare, tendenzialmente specifici, quindi necessitano di soluzioni differenziate da caso a caso, in funzione delle contingenze storiche e locali, del ruolo svolto dagli attori coinvolti, dei livelli di governo competenti, delle capacità e dei meccanismi di coordinamento.
Il nuovo non sta tanto, però, nella pluralità degli attori che agiscono per influenzare le decisioni autoritative, quanto nei diversi meccanismi di governo che si rivelano necessari, e che non sono più solo quelli della gerarchia, della legge, della sanzione, dello scambio clientelare. Come in altri ambiti di policy si vanno diffondendo forme di governance, dove attori privati - individuali o collettivi - diventano comprimari di ruoli decisionali e attuativi in aree di interesse generale e le istituzioni pubbliche si aprono alla collaborazione e condivisione dell’azione di governo (Pialtoni, 2005).
Con riferimento, poi, alla riferita terza “grande trasformazione”, ciò che spesso sfugge agli analisti è che ogni livello ha proprie logiche e regole di funzionamento e condiziona diversamente gli atteggiamenti e le scelte degli attori coinvolti. Ancor più questo appare vero nel caso delle politiche agricole che sono destinate oggi a ricomporre problematiche locali e globali, e rispondere a istanze settoriali e di interesse generale. Basti qui l’esempio dei consorzi per produzioni di qualità che disciplinano attività produttive e di trasformazione in contesti territoriali delimitati, i cui operatori interagiscono con autorità locali di settore, ma anche con autorità ambientali e concertano iniziative di marketing con le istituzioni nazionali (come l’Istituto per il commercio estero). Consorzi che, soggetti a regolamenti comunitari, si confrontano con mercati europei e mondiali, mettendo in atto strategie differenziate in base al tipo di regole vigenti, ma anche alle capacità e risorse di innovazione, di promozione del prodotto, di conquista dei mercati di cui gli stessi consorzi dispongono, dando luogo a quella che è stata definita multilevel governance (Peters, Pierre 2002).

Indirizzi di pianificazione strategica

Il percorso qui impegnato impone una serie di operazioni a complessità crescente, nel senso che, per la definizione di un piano strategico, si prospetta la necessità di attivare modelli di visioning, con i quali le politiche e gli strumenti della pianificazione territoriale risultano fortemente radicati nei piani e programmi sovralocali a prevalente contenuto e indirizzo socioeconomici e di inquadramento territoriale, proiettati in una prospettiva temporale di medio/lungo periodo. Per l’impresa agricola, superata la mera impostazione economicistica-produttivistica, si tratta di organizzare la propria dimensione strategica in un quadro coordinato di azioni “reticolari” e “visionarie”; nel senso che le relazioni tra l’impresa e il territorio vanno interpretate e realizzate sul più ampio quadro di riferimenti: cultura delle tipicità produttive, fruizione turistica, rigenerazione del paesaggio, valorizzazione dei beni culturali e ambientali diffusi, consolidamento dei contesti identitari, coesione territoriale all’interno delle comunità locali, programmi di riqualificazione ambientale integrati da politiche immateriali (comunicative, informative, formative), mentre l’approccio visionario consente all’impresa agricola di programmare il proprio sviluppo in un contesto che dal locale ambisca a far parte, con una sua missione, di una rete sovralocale, predisponendo le proprie strategie con l’attualizzazione dei prossimi scenari futuri.
Conseguentemente i più complessi intrecci tra l’urbano e il rurale orientano la costruzione flessibile del sistema territoriale nelle sinergie tra area vasta e sistemi locali rurali.
Più nel merito, per la convergenza tra contenuto e indirizo programmatici il supporto tecnico svolge funzioni di orientamento e di guida, al fine di promuovere strategie di carattere interattivo e negoziale sin dalle prime fasi di elaborazione del piano. E’, appunto, in questa fase processuale del piano, che l’analisi SWOT prospetta scenari alternativi, uso di modelli revisionali, valutazioni ex-ante e ex-post di impatto sociale, economico e ambientale, oltre al monitoraggio continuo degli effetti delle scelte e delle opzioni operate.
Quanto, poi, al passaggio government/governance il riferimento è alla trasformazione del piano in piano-processo, nel quale i diversi livelli decisionali pubblici corrispondono a nodi di una rete ad alta intensità e densità organizzativo/decisionale. Nodi che interagiscono fra di loro attraverso la mediazione e la negoziazione, nodi che costruiscono una “centralità programmatoria” nella quale le iniziative “dall’alto” (government) interagiscono con le strategie “dal basso” (governance).
A una impostazione pianificatoria nella quale il modello di razionalità espone un robusto apparato normativo operante in condizioni di supposta certezza, con un orizzonte temporale ben definito e con obiettivi di piano da tradursi in decisioni e azioni coerenti, con le scelte incardinate secondo un ordine gerarchico, viene a prospettarsi un’altra impostazione, nella quale la pianificazione strategica associa le politiche top-down a politiche bottom-up, che introducono flessibilità, adattamenti alle specificità locali, più diretto coinvolgimento e partecipazione del cittadino, connotando il piano come il concreto processo di democratizzazione per l’individuazione delle opzioni, delle priorità, della cooperazione e della concertazione.
L’impianto programmatorio è costituito da “guide strategiche”, assimilabili a documenti direttori flessibili, che formulano indirizzi e obiettivi generali e di lungo periodo; documenti poco cogenti, in quanto risultano limitate le imposizioni normative e la prescrizione di atti conformativi mentre viene promossa una ricca articolazione di procedure negoziali e concertative. Spesso si individua un ampio ventaglio di misure e di azioni possibili, fra le quali i pianificatori locali possono selezionare le iniziative più adatte al contesto2, identificabili alla “scala vasta”, esito finale delle procedure negoziali e concertative appena ricordate.
Nelle esperienze migliori, conosciute come best practice nella letteratura comunitaria, troviamo pienamente accolti alcuni principi di base del modello strategico, che resta eminentemente iterativo: in qualsiasi fase del processo di pianificazione è possibile la revisione del piano alla luce di nuove conoscenze acquisite, dell’emergere di conflitti di interesse che richiedono la riattivazione del processo negoziale, della necessità di rivedere obiettivi e azioni sulla base di risultati raggiunti (o degli insuccessi registrati).
L’efficacia del piano sarà sancita non tanto da una sequenza ottimale e unidirezionale aprioristicamente definita da obiettivi-mezzi-azioni, ma dalla capacità di mobilitare risorse, di promuovere cooperazione e consenso, di adattare strumenti e progetti attuativi flessibili e rettificabili.
L’elemento pianificatorio più innovativo, come precedentemente accennato, è il carattere del piano strategico, questo suo impianto “reticolare” e “visionario”, ovvero la natura del piano strategico in quanto focus per il dispiegamento della creatività e dell’immaginazione, fattori e punti di forza che consentono una visione unitaria del territorio. La crescente attenzione per il contributo della partecipazione dal basso è certamente stata sollecitata dall’affermarsi di movimenti locali impegnati in pratiche di riqualificazione ambientale e di autogestione dei servizi. Più che del presente e contingente, la preoccupazione è verso il futuro, dunque il piano strategico è predisposto per rispondere, sin da oggi, ai problemi del domani (Balducci, 1991; Magaghi, 1990; Boscacci, Camagni, 1994). Qui si sta affermando una generazione di piani strategici che utilizzano sempre più estesamente la metodologia del visioning come tecnica di costruzione del consenso e della persuasione che attribuisce priorità agli aspetti comunicativi del piano e che individua nuovi contenuti e nuovi compiti progettuali.
Il visioning veicola due messaggi: (a) sottolinea l’importanza dell’immaginazione sociale come contributo alla definizione di uno “scenario desiderabile”, cui ancorare le pratiche e le azioni incrementali del processo di pianificazione; (b) evidenzia il supporto cruciale che, nella “visualizzazione” del futuro possano offrire tecniche di rappresentazione e sistemi di comunicazione avanzati (GIS, simulazione visiva, realtà virtuale, videoconferenze, ecc) (Dematteis, Governa, 2005).
Se quest’ultimo messaggio orienta la formulazione del piano strategico verso sistemi di rappresentazione tecnologicamente più sofisticati, il primo messaggio mobilita il community visioning, la progettazione “dal basso” per valorizzare le risorse sociali di creatività diffusa attraverso pratiche partecipative che possano arricchire e articolare, dal basso, i piani di indirizzo strategico promossi alla scala vasta, riempiendoli di senso e, soprattutto, traducendoli in politiche e progetti mirati e coerenti. La sfida - e il piano strategico è, per sua natura, un piano di sfide - è quella di elaborare una dimensione temporale di lungo periodo, nella quale costruire scenari di riferimento alternativi, selezionando tra questi quello “desiderabile”. Ciò che importa, allora, è costruire un quadro di coerenze dinamiche fra previsione e azioni, per restituire alla comunità, ormai lontana dall’astrattezza tecnocratica di piani calati dall’alto e dai rischi egoistici del localismo e delle pratiche partecipative particolaristiche, la consapevolezza e il controllo del processo di pianificazione.
Possono risultare molto utili, a questo punto, le chiavi di lettura che soddisfano la caratterizzazione di un piano strategico reticolare e visionario, così come mutuato dall’ambito urbanistico (Gibelli, 1999).
Una coerente dimensione territoriale, all’interno della quale elaborare il piano strategico, è individuabile nel distretto produttivo (integrato), un ambito ottimale dove la partecipazione e la cooperazione delle forze locali orientano gli operatori agricoli verso soluzioni concertate con gli enti istituzionali responsabili. Ciò per assicurare, a scala locale, una rete di rapporti complessi, con effetti sulla scala regionale di medio/lungo termine. L’impostazione di tipo reticolare, nel facilitare un sistema misto pubblico-privato nei meccanismi regolamentari, consente la formulazione di guide strategiche e visioning, per cui il ruolo del pianificatore è, essenzialmente, quello di sollecitare il partenariato, promuovendo la cooperazione e il consenso tra le forze sociali, economiche, politiche e culturali operanti nel distretto produttivo, con la preoccupazione di verificare le relazioni strategiche, ove presenti, alle altre scale di riferimento.

Riferimenti bibliografici

  • Balducci A., (1991), Disegnare il futuro, Il Mulino, Bologna.
  • Baugmartner F.R., Jones B.D. (2009), Agendas and instability in American politics, Chicago, University Press.
  • Boscacci F., Camagni R. (a cura) (1994), Tra città e campagna. Periurbanizzazione e politiche territoriali, Il Mulino, Bologna.
  • Dematteis G., Governa F. (a cura) (2005), Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello SLoT, Angeli, Milano.
  • Gibelli M.C., 1999, Tre famiglie di Piani strategici: verso un modello “reticolare” e “visionario”, in Curti F. e Gibelli M.C. (a cura), Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze, 2ª edizione.
  • Lanzaco L., Lizzi R. (2008), “Governance e government come fattori strategici per le politiche agricole e rurali”, Rivista di Economia Agraria, LXIII, n. 3.
  • Magnaghi A. (a cura) (1990), Il territorio dell’abitare. Lo sviluppo locale come alternativa strategica, Angeli, Milano.
  • Peters G., Pierre J. (2002), A View from the Garbage Can, Manchester, Papers in Politics, EPRU, 1/2002.
  • Pialtoni S. (2005), “La governance multilivello: sfide analitiche, empiriche, normative”, in Rivista Italiana di Scienza Politica, XXXV, n. 3.
  • Petrillo F. (2008), Indirizzi di visioning per la riqualificazione di emergenze naturalistiche in ambito metropolitano, Studi economici e sociali, XLIII, Fasc. I-II, 2008.
  • Pollan M. (2008), Il dilemma dell’onnivoro, Adelphy, Milano; ediz. orig. 2006.
  • Stone D. (2008), “Global Public Policy, Transnational, Policy Communities and Their Networks”, The Policy Studies Journal, XXXVIII, n. 1.
  • 1. Il presente lavoro rientra nell’ambito delle attività dell’ “Osservatorio per le Politiche di Gestione Agroambientale” - Università di Bari “Aldo Moro”. Gli aspetti tecnici sono stati curati da: M. Giocolano, E. Campanella, M. Rubino, L. Brescia, Staff del “Laboratorio per le analisi economico-estimative” del Dipartimento di Scienze Agro-ambientali e Territoriali. N. Lastella ha collaborato alla ricerca bibliografica.
  • 2. In tale approccio, a livello locale, mentre opera la figura del pianificatore in materia urbanistica, solo oggi viene avvertita la necessità di istituire una figura professionale più direttamente responsabile per gli aspetti agricoli e agrari, che contribuisca, per la parte di più diretta competenza, all’organizzazione del territorio. Una assenza che viene sempre più avvertita, mano a mano che vengono a convergere le problematiche urbane con quelle rurali nella costruzione di spazi sinergici e sostenibili.
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