Le emissioni di gas serra della zootecnia: potenzialità di mitigazione e recupero di biogas

Le emissioni di gas serra della zootecnia: potenzialità di mitigazione e recupero di biogas
Istituto Nazionale di Economia Agraria

Introduzione

L'obiettivo indicato dal Quarto Rapporto di Valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), poi accettato dal Copenhagen Accord, dell’UNFCCC (United Nations Framework Conference on Climate Change) di contenere il riscaldamento globale dell’atmosfera al di sotto dei 2 °C (rispetto all’inizio dell’era industriale), dovrà necessariamente comportare globalmente una riduzione delle emissioni di almeno il 40% entro il 2050 rispetto ai livelli del 2000 [link]
L’agricoltura, anche se è soggetta ad obblighi di reporting delle emissioni, è per ora rimasta fuori dai meccanismi obbligatori di riduzione delle emissioni, ma, in un’ottica di mitigazione globale, anche all’interno dell’UNFCCC si sono accentuati i processi di negoziazione che riguardano le attività agricole. Ad oggi l’attenzione, dopo la COP-15, è soprattutto sulle problematiche relative all’adattamento e sulle possibilità di inserire le attività agricole nei programmi REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation in Developing Countries).
Il settore zootecnico costituisce sicuramente una delle più importanti fonti di emissioni di gas serra per il settore agricolo ed è pertanto facile attendersi che futuri scenari di riduzione delle emissioni lo coinvolgano in prima battuta. Allo stesso tempo, però, la sfida più importante che il settore si trova ad affrontare, è quella di far crescere la produzione alimentare, in prospettiva di un aumento della popolazione mondiale a 9,1 miliardi di persone entro il 2050, in un contesto di adattamento ai cambiamenti climatici. Questa sfida crea una tensione tra produzione in espansione e riduzione delle emissioni di gas serra generate dal settore.
Nel valutare l’impatto ambientale della zootecnia, inoltre, non si può prescindere dal considerare che l’allevamento animale rappresenta spesso l’unica fonte di reddito per quelle economie più povere che sono anche quelle che subiranno le maggiori conseguenze negative dei cambiamenti climatici in atto. Il problema va affrontato in un’ottica globale di ampio respiro, poiché concentrarsi sulle sole emissioni di gas serra non appare risolutivo delle questione legate alla food security.
Scopo della presente analisi è di fare una breve sintesi dello scenario attuale sulle emissioni di gas serra della zootecnia globale e cercare di inquadrare, tra le opzioni di mitigazione disponibili, il recupero di biogas e le eventuali modalità di incentivazione (anche in seguito alle modifiche effettuate attraverso l’Health Check).

Strategie per la riduzione delle emissioni zootecniche

Tra le misure di mitigazione delle emissioni zootecniche si possono distinguere due macrofiloni di intervento: le campagne informative che puntano alla riduzione dei consumi dei prodotti ad elevata impronta di carbonio e le misure di mitigazione (obbligatorie o volontarie) delle emissioni.
Fra le campagne informative, spicca, ad oggi, il labelling dell’impronta di carbonio. Anche una recente analisi OECD (2010) ha posto attenzione sulla questione: “less carbon or less meat?”, sottolineando come spostamenti della domanda alimentare verso prodotti a basso contenuto di carbonio possano rappresentare un efficace metodo di abbattimento delle emissioni. I cambiamenti del regime alimentare e una conseguente diminuzione dei consumi ad elevata impronta di carbonio, per quanto siano sicuramente una soluzione efficace (poiché diminuendo i consumi si diminuiscono i capi di bestiame e, ovviamente, le emissioni ad essi collegate), non sono però una soluzione efficiente, da un punto di vista globale. La sfida posta all’agricoltura per i prossimi decenni è sfamare una popolazione crescente, che, verosimilmente, aumentando i suoi livelli di reddito, cambierà la propria dieta verso consumi maggiori di proteine di origine animale. È quindi plausibile pensare che la strada di riduzione (globale) dei consumi non sia quella più verosimile, ma che occorra, invece, guardare alla mitigazione come prima, anche se non esclusiva, strada da percorrere.
Va in questa direzione anche il recente rapporto FAO (2010) che analizza le emissioni collegate al settore lattiero caseario (con una metodologia LCA - Life Cycle Assessment) per individuare quei sentieri produttivi virtuosi (in un’ottica di emissioni di gas serra) che rappresentino un modello da imitare per i Paesi con più elevati livelli di emissioni.
L'approccio LCA è ampiamente accettato come un metodo per valutare l'impatto ambientale della produzione, e per di identificare le risorse e processi ad alta intensità di emissione all'interno del ciclo di vita di un prodotto. Il metodo è definito nelle norme ISO 14040 e 14044. In agricoltura, analisi di tipo LCA sono particolarmente utili per affrontare il tema della relazione tra la sicurezza alimentare (food security) e della sostenibilità delle produzioni.
Il dibattito sulle emissioni legate alla zootecnia globale, è ad oggi molto acceso. Studi recenti (FAO, 2006; Goodland e Anhang, 2009) hanno attribuito al ciclo del bestiame percentuali elevate delle emissioni globali di gas serra: dal 18% al 51%, mentre, secondo l’ultimo rapporto IPCC (2007) l’intero settore agricoltura (considerando quindi non solo il bestiame, ma anche i suoli agricoli) è responsabile di percentuali comprese tra il 10-12% (Rogner et al., 2007) e il 13,5% (Smith et al., 2007) delle emissioni globali. L’evidente discordanza tra le cifre presentate è data dal fatto che sono usati metodi diversi di stima. Gli studi di Goodland e della FAO utilizzano una metodologia LCA, che considera l’intero ciclo di vita del bestiame e delle attività ad esso connesse, nell’ottica di valutare le emissioni riferite al prodotto. Seguendo questa logica, gli studi citati stimano anche le emissioni dovute ai cambiamenti d’uso del suolo, come la conversione di foreste e praterie a pascolo o a terre coltivate per produrre mangimi; il trattamento e il trasporto del prodotto finale.
Senza considerare nel dettaglio le cifre proposte, alcune non condivisibili (cfr. Hsin, 2010), in sintesi, la maggior parte delle emissioni è ricollegabile alla deforestazione, al trasporto, alla fertilizzazione dei terreni, ecc., in generale, diciamo a processi “esterni al processo produttivo” in senso stretto.
Molto più utili risultano essere le stime dell’ISPRA, che utilizzano una metodologia diversa dalla LCA, ma basata sulle linee guida dell’IPCC (2006) utilizzate per redigere l’inventario nazionale per adempiere agli obblighi di reporting in sede di Protocollo di Kyoto. Queste stime forniscono un dato utile per avere un’idea del peso delle emissioni della zootecnia, e soprattutto rappresentano il dato ufficiale delle emissioni, comprendendo quelle che provengono dai processi digestivi degli animali (emissioni di metano, CH4) e dalla gestione delle deiezioni che sono originate dalla modalità di stoccaggio del liquame e letame (emissioni di metano e protossido di azoto, N2O). Inoltre, pur essendo riportate nella categoria “suoli agricoli”, anche le emissioni relative al’azoto escreto al pascolo possono essere contabilizzate nella stima delle emissioni zootecniche. Secondo queste stime il complesso della zootecnia italiana è responsabile del 3,6% delle emissioni nazionali nel 2008 (ISPRA 2010).

Il recupero di biogas

La diminuzione dei consumi o lo stimolo dei consumi più consapevoli non sono le uniche strade percorribili per ridurre le emissioni zootecniche, anche perché non tengono conto delle esigenze nutrizionali o dei gusti dei consumatori. Ad oggi la scelta più efficiente, che permette cioè di ridurre l’impatto ambientale, cercando di limitare le ripercussioni sulla produzione e quindi sul reddito del settore, è la strada della mitigazione delle emissioni.
Nel comparto zootecnico, le misure di mitigazione da attuare sono riferibili a tre obiettivi principali, di cui i primi due sono direttamente collegati alle emissioni del bestiame, ovvero la riduzione delle emissioni da fermentazione enterica (CH4) e da gestione delle deiezioni (CH4 e N2O) e il terzo è genericamente collegato alla riduzione delle emissioni per la fertilizzazione dei terreni per le coltivazioni ad uso zootecnico (N2O).
Nel valutare le misure di mitigazione, però, si devono considerare diversi aspetti legati alla qualità delle produzioni, così come si deve tenere presente che, forme di produzione più intensive, possono avere ripercussioni negative sulla qualità delle acque, del suolo, sulla biodiversità, sul paesaggio e sul benessere degli animali (Ieep, 2007).
Per quanto attiene alle emissioni da gestione delle deiezioni, tra le misure che mirano ad abbattere le emissioni finali assume un ruolo di rilievo il recupero di biogas, ovvero l’utilizzo degli effluenti per produrre una miscela gassosa, costituita in prevalenza da anidride carbonica e metano, attraverso il processo di digestione anaerobica. In un’ottica di ricerca di strategie win-win, il recupero di biogas rappresenta un’opzione quattro volte positiva poiché abbatte le emissioni di gas serra agricole, contribuisce al raggiungimento dell’obiettivo nazionale del pacchetto clima Ue del 17% della produzione di energie da fonti rinnovabili, aiuta a risolvere il problema legato alla gestione delle deiezioni nelle aziende zootecniche, e, soprattutto ad oggi, costituisce un’importante modalità di integrazione del reddito agricolo, grazie alla tariffa omnicomprensiva.
In considerazione del ruolo multifunzionale dell’impresa, la produzione di bioenergia oggi può rappresentare un’opportunità per gli imprenditori agricoli, che trovano nuovi sbocchi per le loro coltivazioni. Nello stesso tempo, però, a livello di policy, si deve agire con accortezza per evitare che la nuova frontiera delle bioenergie trasformi l’agricoltura in una sorta di esclusivo bacino di produzione per la filiera bioenergetica, a scapito della qualità delle produzioni e con una conseguente trasformazione dello spazio e del paesaggio rurale.

Meccanismi economici di incentivazione alla mitigazione

Si possono inoltre prevedere meccanismi economici (come strumento di una regolamentazione che può essere vincolante o meno) che incentivino alla mitigazione. In maniera molto sintetica, si possono prevedere sussidi per servizi ecosistemici, meccanismi di regolamentazione diretta del settore, tassazione o imposizione fiscale, o approcci di tipo ETS (Emissions Trading Scheme). Questi ultimi sono meccanismi di mercato che possono essere di vari tipi (project and credits; open cap-and-trade, closed cap-and-trade) che consentono di commerciare crediti o quote di emissioni su mercati preposti. Si basano essenzialmente sull’eterogeneità dei costi di abbattimento per i diversi partecipanti al mercato, e pertanto presentano vantaggi rispetto all’imposizione di standard emissivi; gli emettitori che hanno costi minori di abbattimento potranno vendere sul mercato le loro quote di emissione e coloro che hanno costi maggiori potranno acquistarne.
In agricoltura, però, soluzioni di tipo cap-and-trade sono ad oggi considerate poco efficienti per diversi motivi. Innanzitutto ci sono problemi legati alla stima delle emissioni, che può risentire di incertezze elevate; inoltre gli elevati costi di transazione dovuti all’inclusione delle aziende agricole (soprattutto le più piccole) nell’ETS, supererebbero i benefici sia in termini di riduzione delle emissioni, che di aumento dei costi di gestione. Si tratta di problemi che possono essere risolti scegliendo di includere le aziende in modi diversi: utilizzando degli “intermediari” (broker) che si occupino delle transazioni e del monitoraggio; includendo nel sistema ETS solo le aziende maggiori (scegliendo opportunamente la soglia dimensionale); includendo tutte le aziende agricole, ma attribuendo l’onere della mitigazione a valle del processo produttivo (Ancev, 2008). Quest’ultima soluzione è stata scelta dalla Nuova Zelanda, al momento l’unico paese che abbia stabilito di adottare un sistema di gestione delle emissioni vincolante per l'agricoltura (che dovrebbe entrare in vigore dal 2015) (Oecd, 2009). Ad oggi (salvo possibilità di cambiamenti previsti entro giugno 2010) la scelta neozelandese consiste nello spostare l'onere di riduzione delle emissioni a livello dei produttori di fertilizzanti, del settore lattiero-caseario e dei macelli. Questa scelta ha il vantaggio di semplificare sostanzialmente gli aspetti gestionali, anche se avrà come effetto una diminuzione delle produzioni nazionali di carne, latte e derivati (Ancev, 2008). È bene sottolineare, comunque, che in Nuova Zelanda la percentuale delle emissioni di origine agricola sul totale (escluso il settore LULUCF) è pari a 47%, mentre nel caso europeo, appare meno stringente, in termini di emissioni del settore, la necessità di inserire l'agricoltura nel sistema di ETS.
L’agricoltura potrebbe peraltro trarre beneficio dall’inclusione negli schemi regolatori di tipo ETS, anche se le sue emissioni non sono incluse nel sistema. Infatti gli agricoltori potrebbero essere autorizzati a fornire crediti di carbonio derivanti da pratiche di sequestro del carbonio o riduzione di altre emissioni, alle imprese che hanno tetti alle emissioni, aumentando il proprio reddito (ICTSD-IPC, 2009).
Per quanto riguarda la tassazione, ad oggi essa non rappresenta la risposta più frequente ai problemi di riduzione delle emissioni, in quanto si preferisce lasciare al settore l’onere di come distribuire il costo della mitigazione, senza considerare tutte le problematiche relative alla redistribuzione della ricchezza generata dalla tassazione che deve essere coerente con la finalità politica perseguita (ICTSD-IPC, 2009).
Considerate tutte le opzioni precedenti, i sistemi di incentivazione attraverso sussidi per chi adotta pratiche virtuose in termini di riduzioni delle emissioni appaiono i più efficienti e, comunque, rappresentano lo strumento più utilizzato ad oggi per la mitigazione in agricoltura1. Va in questa direzione l’introduzione delle nuove sfide nell’Health Check della Pac, tra le quali, la “sfida” che contiene, tra le azioni previste, il recupero di biogas. Si tratta peraltro di un intervento non diretto ai cambiamenti climatici (anche se, come accennato, la produzione di energia con effetti sostitutivi rispetto alle fonti fossili di energia contribuisce a raggiungere tale obiettivo), ma finalizzato alle energie rinnovabili. In tabella 1 una sintesi della spesa pubblica derivante dai fondi Health Check che sono stati destinati alle energie rinnovabili.

Tabella 1 - Spesa pubblica derivante dall’Health Check stanziata per la sfida “energie rinnovabili”

Fonte: Ns elaborazioni su dati Rete Rurale Nazionale, 2010

In generale la sfida “energie rinnovabili” non è stata tra le più finanziate (5,8% del totale dei fondi dell’Health Check e del Recovery Plan), con solo 10 Regioni ad averla attivata. Tra queste Veneto, Marche e Sardegna hanno stanziato di più a livello assoluto, mentre Sardegna, Valle d’Aosta e Marche sono le Regioni che hanno destinato di più in percentuale sui fondi a disposizione. Non va dimenticato, però, che nei Piani di Sviluppo Rurale vengono utilizzate 18 azioni per la sfida in oggetto, 9 delle quali erano già esistenti (per approfondimenti cfr. RRN, 2010). In particolare, il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr) sostiene gli investimenti finalizzati alla generazione di energia degli impianti con una potenza fino a 1 milione di Watt (MW), che trattino prevalentemente materia prima agricola e/o forestale; mentre gli impianti di potenza superiore sono realizzati con il sostegno della politica di coesione. Pertanto, i fondi stanziati per la produzione di energie rinnovabili non sono solo quelli che si ricavano dalla tabella, ma ad essi vanno aggiunti quelli già previsti, che non sono stati considerati in quanto l’analisi proposta vuole solo valutare l’attenzione data alla sfida energie rinnovabili in sede di distribuzione delle risorse aggiuntive.
Un contributo alla lettura di questi dati può venire dall’analisi seguente, che sintetizza graficamente le maggiori potenzialità regionali dal recupero di biogas da allevamenti bovini e suini, confrontandole con le stime delle emissioni da gestione delle deiezioni (ISPRA 2009) nel 2005, ultimo anno disponibile per la disaggregazione regionale. I dati sul potenziale di biogas sono stati ripresi da uno studio dell’ENEA (Colonna et al., 2009), secondo cui, in Italia, il potenziale lordo di recupero di biogas dal settore bovino nel 2006 sarebbe di 1.500 milioni di m3 l’anno, che si ridurrebbe del 45% considerando solo le aziende al di sopra di una determinata soglia dimensionale (100 capi bovini). La previsione di una soglia dimensionale minima è dovuta alla necessità di considerare sia condizioni tecniche sia economiche, che rendano l’investimento conveniente; si può prevedere anche una soglia dimensionale di 50 capi, al di sopra della quale è prospettabile un investimento nella realizzazione di impianti consortili, in presenza di requisiti di distanza tra le aziende e terreni per lo spandimento del sottoprodotto della digestione anaerobica (c.d. digestato) prodotto dall’impianto: in questo caso il potenziale si ridurrebbe del 25%. Per i suini, nel 2008, il potenziale lordo è di 350 milioni di m3 l’anno, che si riduce solo del 6,5% (mentre in numero di aziende si riduce dell’86,0%) considerando una soglia dimensionale di 500 capi (in ipotesi di opportuna codigestione); mentre si riduce del 32,0% considerando una soglia di 2.000 capi.

Figura 1 - Potenziale di produzione di biogas (Nm3*106 l’anno) da deiezioni bovine per soglia dimensionale ed emissioni da gestione delle deiezioni

Fonte: Ns elaborazioni su dati Ispra e Colonna et al., 2009.

Figura 2 - Potenziale di produzione di biogas (Nm3*106 l’anno) da deiezioni suine per soglia dimensionale ed emissioni da gestione delle deiezioni

Fonte: Ns elaborazioni su dati Ispra e Colonna et al., 2009.

Evidentemente il potenziale maggiore è associato alle Regioni con maggiori emissioni; da rilevare che i valori presentati sono quelli assoluti, per cui le Regioni con maggiori capi sono quelle con maggiori emissioni, senza nessun tipo di considerazione sull’intensità di emissione, la produttività, ecc.
Per quanto riguarda lo stato dell’arte, il Centro Ricerche Produzioni Animali (CRPA) ha identificato in Italia, attraverso un Censimento degli impianti di biogas, 154 impianti nel 2007, di cui 39 sono in costruzione o in fase autorizzativa. Il 40% di questi impianti opera in co-digestione di effluenti zootecnici con colture energetiche e residui dell’agroindustria. Questi impianti sono localizzati in Lombardia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna e Veneto, cioè nelle Regioni che, tranne il Trentino, figurano tra quelle con maggiori potenzialità, oltre che con maggiori emissioni.

Considerazioni conclusive

L’agricoltura ha un ruolo unico nello sviluppo umano. Il settore sarà gravemente affetto dai cambiamenti climatici e l’adattamento sarà cruciale nel suo sviluppo futuro, in un contesto di popolazione mondiale crescente. Essendo fonte di emissioni essa avrà anche un ruolo nella loro mitigazione, un impegno che non deve essere portato avanti a prescindere da valutazioni sulla produttività, in caso contrario si avranno solo effetti di “spostamento” delle emissioni da un paese all’altro (c.d. carbon leakage), senza nessun effetto positivo, né sui redditi degli agricoltori locali, né tantomeno sulle emissioni di gas serra.
La produzione di biogas da effluenti zootecnici ha una forte potenzialità di crescita in Italia e il settore agricolo, zootecnico e agroindustriale, possono essere la forza motrice di questa crescita, se ci saranno interventi del decisore politico che, oltre a rendere chiare le procedure autorizzative e di cessione alla rete elettrica, incentivino interventi alla costituzione di impianti in tal senso. Vanno in questa direzione gli stanziamenti della Pac in favore della sfida “energie rinnovabili” derivanti dall’Health Check.
Ancora da studiare, invece, è la possibilità di realizzare sistemi di gestione delle emissioni di livello comparabile con quanto realizzato per il settore energetico.

Riferimenti bibliografici

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  • 1. Ovviamente se non si considerano le restrizioni normative che, pur conseguendo altri obiettivi, hanno impatti positivi per la mitigazione delle emissioni agricole, come ad esempio la direttiva nitrati, o la direttiva Ippc.
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