PAC: da politica agricola a politica rurale

PAC: da politica agricola a politica rurale
Una proposta dal Regno Unito: intervista ad Allan Buckwell.

Allan Buckwell, già Presidente della Associazione Europea degli Economisti Agrari (EAAE), è Chief Economist della Country Land and Business Association. L’intervista di Francesca Bignami si è svolta a Londra il 30 novembre 2005.

Iniziamo dall'acceso dibattito sul budget dell'Unione Europea (UE): alcuni criticano il fatto che un budget moderno non dovrebbe dedicare il 40% della spesa alla politica agricola. Che cosa ne pensa della proposta di Tony Blair di ridimensionare la spesa per l'agricoltura europea?
Associare il peso dell'agricoltura sul PIL alla quota del budget, 2% contro 40%, mi sembra solo un artificio politico per il pubblico britannico e non è certo di aiuto.
Se abbiamo deciso che l'Europa si sarebbe occupata solo di due politiche, la politica di coesione e quella agricola, è normale che il budget dell'UE sia concentrato su di esse. Se avessimo affidato all'UE la difesa, l'istruzione o la salute, allora il peso della politica agricola sarebbe stato minore. L'unico motivo per cui Blair sostiene la necessità di tagliare le spese è che non gli è mai piaciuta la PAC, perché la Gran Bretagna ne beneficia poco e si rifiuta di rinunciare al rimborso ottenuto ai tempi della Tatcher.
Se proviamo a domandare al nostro Governo, come molti hanno fatto, "qual è la vostra idea sull'attuale riforma?", non otteniamo alcuna risposta. Ancora, se lo chiediamo al Segretario di Stato per l'agricoltura (Margaret Beckett, Secretary of State for Environment, Food and Rural Affairs), c'è silenzio. Se domandiamo al DEFRA (Department for Environment, Food and Rural Affairs: il Ministero inglese per l'ambiente, l'alimentazione e gli affari rurali) quali sono le proposte di riforma e di che cosa parla Blair, la loro unica idea è che vorrebbero ridurre la spesa; vorrebbero fare meno.

Le accuse mosse contro la PAC riguardano anche i danni ambientali provocati da un processo di intensificazione dell'attività agricola incentivata dai sostegni alla produzione. Gli appelli alla liberalizzazione poggiano sull'idea che l'estensivizzazione dell'agricoltura sarebbe positiva per il territorio rurale; inoltre, i fondi destinati al sostegno dei prezzi potrebbero essere utilizzati per lo sviluppo rurale. Può spiegare queste tesi?
È esattamente quello che sta lentamente accadendo dalla riforma Mac Sharry in poi. I prezzi di intervento sono stati ridotti e le risorse sono state spostate dalle alte restituzioni alle esportazioni e dalle tariffe sulle importazioni ai pagamenti diretti. Agenda 2000 ha continuato questo processo e le ultime riforme hanno disaccoppiato i pagamenti dalla quantità prodotta.
C'è stata quindi una chiara progressione per passare da una politica agricola basata sulle politiche comuni di mercato ad una basata su pagamenti agli agricoltori non per produrre prodotti agricoli, ma per mantenere la terra in buone condizioni agricole e ambientali. Questa è la cosiddetta eco-condizionalità per ricevere i pagamenti. Mi sembra una frase molto efficace. Come parte del contratto per ottenere i pagamenti, i coltivatori e i gestori delle terre si impegnano a salvaguardare i caratteri del paesaggio o, almeno, a evitare pratiche profittevoli ma dannose per quegli habitat.
Penso che la società sia d'accordo sul fatto che il modo migliore per garantire la sicurezza alimentare nel lungo termine sia mantenere la terra in buone condizioni. Al momento i costi sono così alti che ci impediscono di competere sui mercati internazionali. Quindi, la politica deve essere quella di liberalizzare l'agricoltura, riducendo le sovvenzioni che distorcono il commercio, migliorando l'accesso ai mercati ed eliminando le restituzioni alle esportazioni. Ci siamo impegnati a fare tutto ciò. Siamo coinvolti nelle trattative del WTO. Ritengo che l'orientamento sia completamente accettato; la discussione è su quanto tempo impiegherà il processo a realizzarsi. Gli altri Paesi del mondo vorrebbero che lo completassimo da un giorno all'altro mentre gli agricoltori europei preferirebbero che lo facessimo più lentamente (per esempio, le organizzazioni agricole hanno sempre cercato di rallentarlo). Qui sta il dibattito: quanto in fretta, e quando iniziarlo?
La politica è questa: ridurre i sostegni e liberalizzare l'agricoltura. Poi, come dice lei, una volta rimossi gli incentivi a coltivare la terra o ad allevare gli animali con alti prezzi, gli agricoltori decideranno quanti animali tenere e quanti ettari di terra coltivare in base alla domanda del mercato. Non c'è dubbio che in molte parti d'Europa si verificherà una riduzione dell'intensità della produzione.
Ci vorrà un po' prima che la politica cambi, che venga implementata e che gli agricoltori se ne rendano conto e che reagiscano.

Pensa che la liberalizzazione sia il punto di partenza per la promozione dello sviluppo rurale?
La politica di sviluppo rurale è il complemento della liberalizzazione agricola.
A mio parere il nome non è stato mai scelto bene. Se prendiamo le due parole "sviluppo" e "rurale", secondo me "sviluppo" significa creare occupazione, migliorare le condizioni di vita, combattere la povertà e l'esclusione sociale. Uniamo questa parola a "rurale" perché stiamo cercando di fare tutto questo in particolari zone che chiamiamo rurali. Quindi "sviluppo rurale", a mio avviso, significa sviluppo economico: diversificare l'economia, aumentare le occasioni di occupazione per permettere agli agricoltori di lavorare part-time e di avere altre fonti di reddito.
Se andiamo a guardare in molti Stati Membri, la maggior parte dello sviluppo rurale è la politica agro-ambientale. Questa, che tecnicamente è parte delle misure per lo sviluppo rurale, è molto differente: consiste nel pagare i proprietari terrieri e le aziende affinché forniscano beni pubblici.
Se chiedessimo agli agricoltori europei di competere con i bassi prezzi sudamericani della carne e riducessimo le barriere tariffarie, li esporremmo ai prezzi internazionali e ai produttori di prodotti agricoli a basso costo. Secondo me possono farcela ma poi avremmo grandi aziende a bassa densità di popolazione, le siepi scomparirebbero e il paesaggio sarebbe molto diverso da quello a cui siamo abituati in Europa. In alcune parti del nostro continente è già successo. Se togliessimo anche quei pochi alberi e quelle dolci colline in Toscana e al loro posto creassimo un paesaggio lunare per produrre grano a basso prezzo, non credo che la società ci ringrazierebbe. È una questione di diritti di proprietà: riconosciamo che la terra appartiene agli agricoltori ma non vogliamo che il paesaggio europeo si trasformi in questo modo.
Quindi, riconosciamo che gli agricoltori non solo garantiscono la base alimentare ma anche altri beni di interesse collettivo che il mercato non paga. Poiché il mercato da solo non garantisce l'offerta di questi output multifunzionali, dobbiamo creare noi un mercato per il paesaggio e per i servizi ambientali. Dobbiamo incoraggiare gli agricoltori a coltivare in modo da preservare gli alberi, le siepi o i laghi. Significa che i contribuenti devono pagare gli agricoltori o significa cercare nuovi motivi per cui i cittadini siano d'accordo a pagare gli agricoltori per coltivare in un certo modo? È una questione di competenza europea, nazionale o di chi altro?

C'è il rischio che questi pagamenti vengano percepiti come un pretesto per una nuova forma di protezionismo?
Sì, è vero: il rischio è alto e tutti fuori dall'Europa pensano che quello che stiamo facendo è proprio prendere gli stessi sussidi, "verniciarli" di verde e far finta che servano a pagare servizi per l'ambiente. Secondo me, l'unico modo per mettere a tacere queste critiche consiste nel dimostrare che i pagamenti siano effettivamente subordinati a un comportamento rispettoso nei confronti dell'ambiente. Se lo dimostriamo, perché l'Australia o l'Argentina dovrebbero lamentarsi?
Dobbiamo passare da sostegni basati sulla produzione a sostegni legati a pratiche ambientali.
Certo, quando proviamo a metterlo in pratica, ciò risulta molto complicato perché l'ambiente è multidimensionale. Produrre grano è abbastanza semplice; produrre la biodiversità ambientale e modellare i paesaggi è incredibilmente complicato. È un concetto molto difficile, è dinamico, è sfaccettato; i gusti cambiano spesso: ora siamo preoccupati di conservare l’avifauna, ora dei fiori, quindi dobbiamo provvedere a erogare servizi che siano un misto di protezione dell’avifauna, di fiori, ecc.
La persona che fornisce servizi ambientali, nel momento in cui decide di fare un grosso investimento e votare il suo futuro alla salvaguardia dell'ambiente, deve avere la garanzia che fra venti o trenta anni siamo ancora interessati ad averli. Secondo me sì perché la società, a mano a mano che diventa ricca, dà più valore a beni immateriali come la cultura o l'ambiente che, in gergo economico, hanno un'alta elasticità al reddito.
I costi di transazione potrebbero sconfiggere questa politica; ecco perché dobbiamo avere un rete più semplice e meccanismi politici più comprensibili per facilitare l'erogazione di questo complesso mix. Dobbiamo continuamente monitorare quanto stiamo facendo per migliorare l'ambiente. È troppo, o troppo poco?

Passiamo ora al tema dell'implementazione della politica rurale. Sarebbe d'accordo a passare più responsabilità agli Stati Membri? Quali sarebbero i benefici della decentralizzazione?
In primo luogo, data la storia, conosciamo la direzione dell'evoluzione della PAC; ne abbiamo appena parlato. Secondo, la legislazione sulla biodiversità è europea. Natura 2000 e altri regolamenti ambientali o direttive sulla protezione dell’avifauna o sull'habitat sono europei perché abbiamo un mercato unico europeo di beni e servizi. Pertanto, se vogliamo implementare queste leggi, dobbiamo rispettare la concorrenza tra i Membri dell'UE.
Molte di queste politiche oltrepassano i confini degli Stati perché non ci preoccupiamo della biodiversità solo qui in Inghilterra ma in tutta Europa. E visto che gli uccelli, i pesci e le malattie non rispettano i confini nazionali, abbiamo bisogno di una politica comune.
In terzo luogo, abbiamo costruito una cultura europea e la tramandiamo come eredità. Quando un turista va in Italia, si aspetta di vedere paesaggi con borghi medioevali, antiche torri e dolci colline. Questi sono valori di cui ci preoccupiamo ma che non sono forniti naturalmente dal mercato, a meno che non ci sia un ritorno economico.
Il mix preciso di beni e servizi varia enormemente dalla Grecia alla Finlandia: i gusti delle persone, la storia, le zone climatiche, ecc. sono diverse e così anche le sfide, le strutture agricole e le leggi. Ecco perché gli strumenti e i meccanismi devono essere decisi a livello locale. Perciò, una volta che abbiamo fissato gli obiettivi generali comuni, il mix preciso di gestione dell'ambiente appropriato a ogni territorio verrà meglio capito e portato a compimento dalle persone che vivono là. È un tema di carattere prettamente locale.
Quindi, prima definiamo lo schema generale delle politiche e poi individuiamo gli strumenti specifici che devono operare a livello locale. Questo è esattamente ciò che stiamo cercando di fare con il Regolamento per lo sviluppo rurale: definiamo gli obiettivi principali e poi diciamo alle regioni e agli Stati Membri: "tocca a voi decidere come bilanciare queste misure per promuovere ciò che è importante nelle vostre regioni".
Per esempio, qualcuno dirà che il problema principale nella propria regione è la disoccupazione e si sforzerà di aumentare l'occupazione prima di tutto. In un'altra regione il problema sarà di preservare le foreste. Le Regioni decideranno come implementare e bilanciare queste misure a livello locale.
Questo diventa un problema di responsabilità democratica.
Se stabiliamo quali sono i problemi principali di una certa regione italiana, chi dovrà decidere cosa fare: i cittadini che vivono in quella regione, Roma o Bruxelles? La risposta corretta è: tutti loro. È evidente che c'è una tensione. Un possibile equilibrio è che l'UE decida i requisiti obbligatori da rispettare ovunque, Roma abbia la responsabilità di preparare un programma e la Regione lo implementi.
Tutto quello che possiamo fare è trovare una cornice, ma, oltre la democrazia decentralizzata, è il livello più basso che deve indicare le priorità.

Quindi, l'UE dovrebbe avere il ruolo di coordinatrice, mentre le istituzioni locali dovrebbero decidere come implementare le politiche?
Sì; è un dato di fatto che il potere è nelle mani dell'Europa che, per esempio, si è fatta carico dei diritti di proprietà per la protezione delle specie animali rare, e gli Stati Membri sono tenuti a garantirla. Se non lo fanno, sono sottoposti alla Corte di Giustizia Europea. In questo caso abbiamo tolto alle persone il potere di decidere cos'è importante e abbiamo detto loro: QUESTO è importante.
Cerchiamo di restringere l'approccio e di lasciare più discrezionalità alle aree locali. A mio parere è un problema insolubile. È la politica: la politica viene implementata, la controlliamo e rivediamo di continuo.
A volte i cittadini ritengono che le decisioni prese a Roma o a Bruxelles siano così intrusive che decidono di ignorarle, cessano di creare occupazione e non crescono. In quel caso la regolazione è andata troppo oltre.
È sempre una questione di diritti di proprietà: chi ha il diritto di prendere decisioni sulle risorse? Questo è un dibattito senza fine.

A proposito di dibattito, si discute molto in Italia sui confini tra la città e la campagna. A livello europeo non c'è una definizione comune di zone rurali: il criterio più usato per definire la frontiera tra rurale e urbano è la densità di popolazione. Le zone rurali sono quelle caratterizzate da una più bassa densità di popolazione rispetto alle zone urbane, di conseguenza sono meno fornite di servizi. Qual è l'opinione in Gran Bretagna?
Nella misura in cui sono meno popolate, ciò è vero: meno scuole, meno negozi e meno ospedali. Questo era il presupposto: c'è una differenza reale tra spazi urbani e spazi rurali, quindi abbiamo bisogno di politiche separate per affrontare lo sviluppo economico nelle due aree.
Questa è stata la convinzione per molto tempo ma oggi un numero sempre maggiore di zone rurali non è affatto meno fornito di servizi: la qualità della vita è migliore e la mortalità è più bassa che nelle città. Credo che ciò sia vero per alcune parti dell'Inghilterra e per molte parti dell'Italia. Tutti quegli svantaggi che anni fa venivano associati alle zone rurali, oggi appartengono alle città.
Quindi è un problema di tutte le aree rurali? In generale, questo è vero per le zone rurali remote, ma non per tutte quelle che classifichiamo a bassa densità che sono molto ricche. Non mi dispiacerebbe vivere là. Dobbiamo stare molto attenti.
Quello che ho imparato dieci anni fa dal gruppo CARPE1, da persone ome Franco Sotte ed Elena Saraceno, è che non sono la politica agricola o la politica rurale a determinare il livello di sviluppo economico nelle zone rurali; la ricchezza è legata alla posizione geografica o ai flussi di reddito derivanti da persone benestanti che abitano in città vicine. In queste aree la struttura dell'occupazione non è molto diversa da quella delle città: sono entrambe dominate dai servizi, il 40% della popolazione è impiegato nell'industria e il 2-3% nell'agricoltura.
Il grado di sviluppo di una zona rurale è conseguenza dello sviluppo economico nazionale e non della politica agricola o rurale. Se la campagna è povera, guardiamo al Portogallo o alla Grecia, è perché il livello generale di sviluppo è basso.
C'è voluto tempo per capirlo e credo che ancora in molti non accettino l'idea che la PAC e la politica di sviluppo rurale hanno un impatto sull'occupazione e sui livelli di vita minore di quello che hanno le politiche dei trasporti o dell'istruzione. Ecco perché dobbiamo essere cauti su quanto il regolamento agro-ambientale e la politica rurale possono davvero fare: entrambe possono aiutare il settore agricolo affinché vada un po' meglio, ma non molto di più.

Parliamo ora del tema del finanziamento della PAC. Perché la modulazione è stata così impopolare tra gli Stati Membri?
Siamo d'accordo che la tendenza della politica rurale europea deve spostarsi da politica agricola a politica rurale. Questo significa aumentare l'offerta di servizi ambientali e di sviluppo rurale. In pratica, all'interno della PAC significa spostare risorse dal I Pilastro, che è il vecchio sistema di sostegno del mercato, al II Pilastro, che comprende le azioni per lo sviluppo rurale e l'ambiente.

Se siamo davvero preoccupati per i temi ambientali, cosa ci impedisce di farlo?
Ci sono due motivi che ci frenano.
Il primo è che non tutti sono convinti che ciò che ho appena detto sia vero: molti ancora pensano che abbiamo bisogno di una politica agricola e che dobbiamo dare soldi agli agricoltori. Non riesco a capirlo. Abbiamo provato a spiegar loro che liberalizzazione significherebbe prezzi più bassi; non moriremo di fame in Europa perché possiamo comprare prodotti alimentari da tutto il Mondo. Qual è la minaccia allora? Potremmo comprare il cibo là dove è conveniente e le risorse sarebbero allocate in modo più efficiente. Gli economisti lo dicono da 200 anni.
Quindi, la prima ragione è che gli agricoltori non ne sono convinti, ma ci vuole solo tempo.
Il secondo motivo è puramente tecnico: i pagamenti del I Pilastro sono finanziati interamente dal FEOGA mentre le misure del II Pilastro sono tutte co-finanziate metà e metà dal budget dell'UE e dagli Stati Membri. Ad esempio, se in Italia muoviamo 100 euro dal I Pilastro per spenderli in misure ambientali e di sviluppo rurale, poiché questi schemi sono co-finanziati, è necessario prendere altri 100 euro di denaro dei contribuenti italiani per spendere i primi 100. Il sistema aumenta la spesa pubblica complessiva per la politica rurale, ma alcuni Stati Membri semplicemente non vogliono spendere di più per la politica rurale perché stanno già spendendo troppo.
Quindi, per non aumentare la spesa complessiva, dovremmo spostare 100 euro dal I Pilastro ma spendere solo 50 euro di fondi europei e 50 euro del Governo italiano, in modo da ridurre il budget dell'UE di quell'ammontare. Andrebbe bene al Governo perché non spenderebbe un euro di più per la politica rurale e l'Italia ne beneficerebbe in quanto contribuente.

Lei ha suggerito che il I Pilastro della PAC dovrebbe essere co-finanziato dagli Stati Membri. Paesi come la Francia rifiutano questa proposta e la definiscono una "ri-nazionalizzazione" della PAC. Potrebbe spiegare i motivi di un co-finanziamento del I Pilastro?
Se rinazionalizzare significa spostare fondi dal I al II Pilastro, dato che il II Pilastro è co-finanziato, allora è vero.
Ci sono molti buoni motivi per cui il II Pilastro è co-finanziato. In realtà, tutte le politiche europee, PAC a parte, sono co-finanziate: per esempio, i fondi strutturali sono co-finanziati. Solo il mercato agricolo comune era diverso. Perché era l'unica politica finanziata al 100% dall'UE? La risposta sta nelle organizzazioni comuni di mercato che sono state la base della PAC da quando è nata fino al 1992, quando Mac Sharry ha iniziato a modificarla. Quindi, per quaranta anni ha funzionato con preferenza comunitaria, alti prezzi unici e solidarietà finanziaria.
L'accordo era che il prezzo del grano in Europa sarebbe stato di 130 euro per tonnellata e gli agricoltori avrebbero commerciato in tutta Europa a quel prezzo. Sostenevamo il prezzo di intervento, molto più alto di quello mondiale, tenendo fuori dall'Europa il grano straniero e imponendo tariffe esterne doganali comuni.
In secondo luogo, poiché gli alti prezzi stabili incoraggiavano ad aumentare l'offerta, se qualunque Paese produceva un'eccedenza, questa veniva ritirata dal mercato per mantenere il prezzo alto e, alla fine, esportata con le restituzioni. Il costo dell'esportazione non poteva riversarsi sul Paese che aveva prodotto quel surplus, perché il sostegno dei prezzi beneficiava indistintamente tutti i coltivatori all'interno dell'area protetta, perfino quelli dei Paesi che avevano un deficit. In un tale contesto, aveva senso la solidarietà finanziaria. Se abbiamo un sistema di sostegno basato sulle politiche comuni di mercato, è ovvio che dobbiamo finanziarlo da una fonte comune, altrimenti il costo cadrebbe sul Paese che ha prodotto il surplus. La logica secondo cui abbiamo finanziato la politica agricola al 100% con il FEOGA è semplice e chiara. Nel I Pilastro c'erano prezzi unici, preferenza comunitaria e finanziamento comune. Pagavamo gli agricoltori per produrre su intervento e non seguendo il mercato, perciò nel 1992 abbiamo iniziato a distruggere tutto questo. Abbiamo detto: "è una follia" e abbiamo smesso di fare dumping all'Africa o al Medio Oriente, di distruggere i loro mercati e di provocare loro danni enormi. Tutto questo è cambiato con il processo di disaccoppiamento e adesso gli agricoltori ottengono i pagamenti se mantengono la terra in buone condizioni.
La giustificazione del finanziamento al 100% dal FEOGA è svanita. Pertanto, se finanziamo entrambi i Pilastri sullo stesso piano, cioè co-finanziamo anche il I Pilastro, ai Governi non costerà un euro in più.

In che modo il co-finanziamento del I Pilastro aiuterebbe nell'allocazione delle risorse finanziarie tra gli Stati Membri?
Se cambiamo il meccanismo di finanziamento, di certo modifichiamo le posizioni degli Stati, contribuenti e beneficiari netti. È molto semplice: i Paesi che beneficiano del I Pilastro sono i grandi produttori ed esportatori agricoli come la Francia o la Spagna. Quando questi Paesi dovranno pagare tutti i loro agricoltori, contribuiranno molto di più. D'altra parte, Paesi come il Regno Unito, la Germania, i Paesi Bassi e la Svezia, che sono contribuenti netti della PAC, vedranno i loro pagamenti scendere.
Il nuovo sistema ridistribuirebbe le risorse e beneficerebbe quei Paesi che al momento contribuiscono di più al budget europeo, mentre imporrebbe costi maggiori ai grandi beneficiari della PAC: Francia, Spagna e Grecia.
Il co-finanziamento dei pagamenti diretti del I Pilastro dividerebbe il peso del budget in modo più equo ma i Paesi che dovrebbero pagare di più si oppongono fermamente a questa proposta, La Francia al primo posto. È diventata la battaglia tra Blair e Chirac: Chirac è stato il più strenuo difensore della PAC, è Mister PAC. Chirac dice: "molla il tuo rimborso" e Blair risponde: "molla i tuoi sussidi".
Grazie.

  • 1. Buckwell, A.E., et al., 1998. Toward a Common Agricultural and Rural Policy for Europe. Il Summary del ‘Rapporto Buckwell’ in italiano è stato pubblicato dall’Associazione “Alessandro Bartola” nella sua Collana Appunti n.2, 1998 ed è disponibile on line in formato pdf nel sito www.associazionebartola.it, assieme alla versione integrale in inglese.
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