Il fattore umano per lo sviluppo dell’impresa rurale

Il fattore umano per lo sviluppo dell’impresa rurale

Azienda o impresa: è questo il problema?

In questo periodo di riformulazione dei Piani di Sviluppo Rurale è ricorrente, nel dibattito tra gli addetti ai lavori, la questione della selezione dei potenziali beneficiari degli interventi in relazione agli obiettivi definiti dal regolamento UE 1698/2005.
L’argomento è centrale per l’efficacia dei programmi ma fonte di notevole preoccupazione tra gli amministratori che dovranno coordinare e gestire questi interventi. Infatti limitare l’accesso ai finanziamenti pubblici è una operazione molto delicata sia sotto il profilo amministrativo che politico, in quanto causa di insoddisfazione tra gli esclusi e potenzialmente motivo di contenziosi.
Questo è un contributo alla discussione che si muove sul piano esclusivamente tecnico-scientifico e si sviluppa attraverso alcune riflessioni che possono aiutare a definire il profilo del beneficiario e le modalità per individuarlo.
Esso si riferisce in particolare agli interventi previsti nell’ambito del primo Asse, quello destinato ad “accrescere la competitività del settore agricolo e forestale sostenendo la ristrutturazione, lo sviluppo e l'innovazione”, poiché questa tipologia di aiuto è una delle più problematiche, in quanto prefigura l’opportunità, se non la necessità, di selezionare i destinatari in base al loro profilo imprenditoriale.
Non sarà quindi presa in considerazione l’innegabile valenza ambientale e sociale di tutte le aziende agricole indipendentemente dal loro orientamento al mercato, ruolo che va però inquadrato all’interno degli altri assi strategici del PSR.
Il regolamento stabilisce per il primo asse numerosi obiettivi volti a sviluppare e migliorare il capitale umano e fisico, la qualità dei prodotti e delle produzioni.
Si tratta di obiettivi che intendono promuovere lo sviluppo socio-economico delle aree rurali e si rivolgono in particolare a quei soggetti economici che professionalmente operano in agricoltura ovvero agli imprenditori.
La questione che non tutte le aziende agricole sono imprese è un tema presente da molti anni nel dibattito economico-agrario, e molti autori hanno cercato di definire l’incerto confine tra azienda ed impresa (1).
Senza voler ripercorrere il dibattito scientifico, sembra utile in questa riflessione riportare alcuni dati statistici che fanno comprendere come la questione non sia di interesse prettamente teorico.
I dati del grafico si riferiscono al censimento dell’agricoltura del 2000, ma è ragionevole ritenere che non siano cambiati radicalmente negli ultimi anni.
La definizione di impresa agricola utilizzata dall’Istat in questa pubblicazione riguarda “le aziende con personalità giuridica (società, enti, consorzi, ecc.) e le comunanze o affittanze collettive nonché le aziende individuali che hanno dichiarato di avere commercializzato nel 2000 tutto o parte della propria produzione aziendale”.

Figura 1 - Quota delle imprese sulle aziende agricole totali per regione nel 2000

Fonte: ISTAT – Volume tematico sull’impresa agricola

Al di là della metodologia utilizzata, in verità poco selettiva, la figura evidenzia che in media poco più del 60% delle aziende agricole italiane hanno dichiarato scambi commerciali. In assenza o quasi, di rapporti con il mercato è sicuramente difficile pensare ad una crescita competitiva ed a un miglioramento delle condizioni reddituali e questa condizione escluderebbe almeno il 40% delle unità produttive.
Il regolamento applicativo però non pone vincoli generali, in quanto lascia la possibilità alle nuove imprese di nascere e/o di svilupparsi a partire da condizioni “fuori mercato”, purché garantiscano l’obiettivo del miglioramento dei risultati economici.
E’ allora giusto limitare l’accesso a questa tipologia di aiuti pubblici?

Per molti ma non per tutti

La risposta non è affatto scontata in quanto dipende dalla capacità di valutare l’efficacia di questi aiuti per la crescita della struttura aziendale, ovvero occorre considerare non tanto l’impresa come si presenta, ma come vuole diventare.
La risposta alla domanda precedente è allora questa: se si ha la capacità e/o possibilità di giudicare i progetti di sviluppo aziendale non è necessaria una valutazione ex-ante, in caso contrario questa diventa indispensabile.
E’ facilmente comprensibile che se si valuta il progetto questo diventa il metro attraverso il quale esprimere il giudizio di ricevibilità della domanda. Esistono però ostacoli oggettivi che non sempre sono riconducibili alle competenze necessarie per la valutazione dei progetti aziendali (2).
Le difficoltà sono molteplici ed iniziano dalla standardizzazione dei progetti, che devono rispondere alle esigenze amministrative di una valutazione rapida ed oggettiva. Sotto il profilo delle procedure è possibile ipotizzare schemi progettuali che portino a indicatori comuni di sintesi, ma il problema più rilevante è un altro.
Le attività agricole riguardano una vastissima gamma di possibilità imprenditoriali, e anzi, proprio gli obiettivi comunitari incentivano a diversificare ulteriormente le produzioni e i servizi attraverso l’adozione della multifunzionalità. Questo comporta una notevole variabilità delle proposte progettuali e, di fatto, l’impossibilità di verificare l’attendibilità e la veridicità di tutte le informazioni di base utilizzate per dimostrare la sostenibilità economico-finanziaria del progetto.
Quale soggetto potrebbe valutare oggettivamente, ad esempio, il prezzo di mercato di un chilo di chiocciole sgusciate o la tariffa oraria per il noleggio di un carretto trainato da un simpatico asinello? Si tratta forse di una esagerazione, ma la fantasia degli agricoltori potrebbe mettere in seria crisi qualsiasi tentativo di realizzare un prezziario di riferimento.
Malgrado tutti questi problemi, una soluzione ci sarebbe, ed è quella di non limitarsi ad una valutazione di merito del progetto, ma di seguirlo nel conseguimento dei risultati economici. Sono proprio questi infatti che dovrebbero essere il vero oggetto della valutazione. Sono questi che misurano il successo di una iniziativa imprenditoriale e l’efficacia della spesa pubblica.
E’ più importante valutare ad esempio che il tipo di attrezzatura ammessa a co-finanziamento abbia le stesse caratteristiche tecniche specificate nel modulo di domanda, oppure che l’investimento abbia prodotto un incremento del fatturato?
Anche in questo caso la risposta appare ovvia, ma la realtà suggerisce come l’approccio più efficace risulti invece il più complicato sotto il profilo amministrativo, perché è difficile rendicontare i risultati economici e applicare le conseguenti penalità, mentre è relativamente semplice, o meglio deresponsabilizzante, effettuare una scrupolosa verifica della documentazione giustificativa della spesa.
Non si tratta invero solo di una scelta amministrativa, ma l’esigenza deriva anche dal rispetto delle norme di rendicontazione comunitaria. E’ certo però che questo approccio non facilita né la semplificazione delle procedure, né il miglioramento dell’efficacia degli interventi.
Data quindi l’impossibilità di valutare il progetto e i suoi risultati, non resta che valutare lo stato del richiedente all’atto della domanda, e semmai i suoi buoni propositi di crescere come imprenditore. In questo contesto, lo strumento del business plan (BP), previsto in alcune misure del PSR, potrebbe essere il mezzo per esprimere una valutazione quali-quantitativa del progetto di impresa ma, per i motivi prima citati, potrà essere al massimo un documento dal quale attingere alcuni indicatori ex-ante.
Così facendo il BP viene privato di una delle sue funzioni basilari, quella di essere un mezzo di valutazione, da parte dei potenziali finanziatori, dell’idea progettuale nel complesso.
Il BP rischia quindi di diventare uno strumento di comunicazione verso l’esterno ma, paradossalmente, questo che appare essere un punto di debolezza, può diventare invece un’opportunità di crescita imprenditoriale.
Il fatto che il BP non diventi la modalità di valutazione per accedere al finanziamento potrebbe consentire di utilizzarlo proprio per il suo scopo originario, quello di strumento di valutazione interna all’impresa. Strutturare l’idea di business e valutarne preventivamente i punti di forza e debolezza nonché la raggiungibilità dei risultati attesi, diventa un formidabile percorso di autoformazione e autovalutazione per ogni imprenditore agricolo.
Se il BP fosse invece utilizzato come fonte informativa che determina o meno l’accesso agli aiuti, si verificherebbe ciò che è già accaduto per i piani di miglioramento, ovvero il proliferare di progetti “clonati e mutati” da abili consulenti alla gestione.

Agricoltore o imprenditore: questo è il problema

Uno dei punti di maggiore criticità per la competitività in agricoltura è la crescita delle capacità imprenditoriali, e un corretto utilizzo del BP potrebbe essere di valido ausilio.
In effetti, il dibattito che ruota attorno a questa tipologia di azione pubblica, è molto, troppo, focalizzato sull’impresa e non sull’imprenditore.
Le dotazioni aziendali sono importanti, ma lo è ancora di più il fattore umano in un contesto di sviluppo socio-economico che richiede spiccate capacità di adattamento. Da decenni gli agricoltori hanno dimostrato queste capacità, ma prevalentemente orientate al breve periodo, mentre si è affievolita la visione prospettica di medio-lungo periodo.
E’ un fenomeno difficile da misurare direttamente, ma che si può desumere dal processo di semplificazione degli orientamenti produttivi o dal rilevante ricorso a risorse esterne all’azienda: come ad esempio il lavoro del contoterzista o i terreni in affitto.
L’atteggiamento adattivo è un razionale comportamento imprenditoriale adottato per affrontare una situazione in rapida evoluzione e fortemente orientata ad agire sulle attività correnti, piuttosto che sulle strutture produttive. Nell’attuale contesto, e in particolare in seguito all’introduzione del Pagamento Unico Aziendale disaccoppiato, questo atteggiamento diventa penalizzante per gli imprenditori in quanto non sono più abituati a pianificare le scelte nel medio lungo-periodo (atteggiamento anticipativo) come richiesto dal contesto più mutevole.
La destrutturazione aziendale che ha interessato l’agricoltura italiana è un effetto della prevalenza dell’atteggiamento adattivo, che complica l’efficacia di una politica di sviluppo imprenditoriale.
Gli attuali imprenditori agricoli dovrebbero recuperare la capacità di immaginare il proprio lavoro non solo nell’immediato ma per gli anni a venire. Si tende a pensare che sia una questione di età, ma solo in parte ciò è vero. L’età è una caratteristica importante, in quanto determina l’ampiezza dell’orizzonte temporale entro il quale l’imprenditore può effettuare le sue scelte, ma non è il segnale distintivo della presenza di un soggetto economico: il segno della presenza di un imprenditore è dato dal tipo di atteggiamento che il conduttore agricolo ha nell’affrontare il suo futuro professionale.
Gli imprenditori che hanno un atteggiamento anticipativo sono quelli che offrono maggiori garanzie per lo sviluppo imprenditoriale in quanto sono propensi ad affrontare gli inevitabili rischi e le incertezze, ammettendo quindi che possano esserci ripercussioni negative sulla propria impresa e sul proprio reddito. Gli altri, che hanno un atteggiamento adattivo, sono invece più prudenti e preferiscono affrontare i problemi correnti piuttosto che tentare di immaginare un futuro che ritengono troppo incerto.
La valutazione del fattore umano ed imprenditoriale diventa quindi cruciale per un razionale utilizzo delle risorse pubbliche in ambito di politica economica. Queste dovrebbero favorire la crescita imprenditoriale dei soggetti che mostrino di possedere un approccio razionale allo sviluppo aziendale. La valutazione delle sole caratteristiche aziendali nella fase di accoglimento delle domande, è approssimativa e rischia di premiare quelle situazioni che meno hanno la necessità di accedere alle risorse pubbliche.
Per migliorare la competitività della nostra agricoltura non servono solo imprese adeguatamente strutturate ma imprenditori capaci di organizzarle e di gestirle.
Lo sforzo che la PA dovrebbe affrontare nei prossimi anni è quindi quello di spostare progressivamente l’attenzione dalle strutture produttive ai soggetti economici e dallo status di impresa ai risultati conseguiti dalle attività imprenditoriali.
In questo modo non solo si riaffermerebbe la centralità dell’imprenditore agricolo in quanto perno sul quale ruota lo sviluppo agricolo, ma il fattore umano assumerebbe un valore economico esplicito da incrementare e capitalizzare grazie anche alle risorse pubbliche.

Note

(1) Due pubblicazioni sul tema. La prima è la storica analisi di Fabiani G., Scarano G. (1993), “Una stratificazione socioeconomica delle aziende agricole: pluralismo funzionale e sviluppo territoriale”, la Questione Agraria, n°59; la seconda è la recente riflessione di Sotte F., “Quante sono le imprese agricole, in Italia?”, AgriRegioniEuropa numero 5, 2006.
(2) La scarsa competenza per la valutazione progettuale è una critica che sovente viene rivolta alle strutture amministrative pubbliche.

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Commenti

Intervengo in quanto condivido l'analisi di Arzeni ma mi voglio spingere più in la analizzando ciò che è scritto nella misura 1.1 del nuovo PSR Marche in attesa che fra 5-6 mesi la Commissione Europea ce lo restituisca e inizi la sua spendibilità. Mi soffermo al momento solo sul tutoraggio di 150 ore in azienda (ambito insediamento aziendale). Nella mia azione di consulenza avevo almeno cercato di cambiare in con per l'azienda. Ho proposto un percorso misto affinche si arrivi a definire un fabbisogno formativo attraverso un semplice bilancio di competenze e quindi relativi servizi consulenziali e pacchetti formativi ad hoc per arrivare al monte ore di 150. Dal businness plan ad un parallelo percorso formativo anche con la metodologia dei vaucher in considerazione che l'assessorato alla formazione fra un pò emanerà il catalogo generale regionale dell'offerta formativa (a pagamento e non), Poteva essere quell'integrazione fra fondi comunitari complementari sull'obiettivo competitività e cultura di impresa, menzionato in tutti i punti di analisi opportunità/debolezza ma poi non meritevole di una sua specifica progettualità. Per chi fosse interessato ho comunque elaborato un percorso formativo per consulente di orientamento professionale che tiene conto delle nuove esigenze culturali e professionali e del tecnico e del nuovo imprenditore.

Commento originariamente inviato da 'Pierini Stefano' in data 09/05/2007.