Le molte ambiguità delle politiche rurali dell’UE: come affrontarle dopo il 2020?

Le molte ambiguità delle politiche rurali dell’UE: come affrontarle dopo il 2020?

Abstract

Le politiche comunitarie di sviluppo rurale hanno molteplici ambiguità dovute a ragioni diverse, che si sono andate sovrapponendo nel tempo. Le varie riforme finora realizzate non sono riuscite a risolverle. Si sostiene che dopo il 2020 ci sia una maggiore probabilità di riforma sostanziale della Politica Agricola Comunitaria (Pac) e dei Fondi Strutturali (FS), imposta dall’uscita della Gran Bretagna dall’UE e dalle nuove priorità da affrontare. E’ dunque una buona occasione per ragionare senza pregiudizi sulle trasformazioni avvenute nelle zone rurali e il futuro delle politiche a loro destinate. Si discutono quattro di queste ambiguità e, in sede conclusiva, si propongono molto schematicamente tre ipotesi di riforma, una più ambiziosa ma poco realistica nel breve periodo, una intermedia, meno ambiziosa ma ben indirizzata, ed infine una senza alcuna ambizione, che eliminerebbe di fatto, se non di nome, le politiche rurali europee.

Introduzione

Circa vent’anni fa, in una riunione a cui partecipavo a Bruxelles, coordinata dal prof. Arnaldo Bagnasco, si discuteva sul futuro dei FS. Uno dei partecipanti –olandese- disse che prima di considerare le diverse proposte di riforma, bisognava chiarire se i FS fossero semplicemente un meccanismo di compensazione finanziaria1 tra Stati Membri (SM), senza alcuna vera giustificazione economica, oppure se vi fosse una strategia coerente di redistribuzione di risorse tra Stati e Regioni ricche a favore di quelle più povere. Nel primo caso, la questione è prevalentemente politica e non c’è molto da discutere per gli esperti, salvo chiarire la gerarchia di obiettivi perseguita. Nel secondo caso, la questione dei principi e criteri che informano questo tipo d’interventi è legittima. Il chiarimento richiesto allora mette il dito su un’ambiguità che da sempre ha caratterizzato l’intervento dei FS. Non mi sembra utile porre la questione come una scelta tra restituzione’ e ‘redistribuzione’: entrambe hanno da sempre informato i FS e rispecchiano la realtà che i policymakers devono affrontare. Nel caso dei FS sono dati della realtà da cui bisogna partire per affrontare eventuali riforme, equilibri da risolvere, interazioni da valutare. Qui mi occuperò del caso delle politiche rurali dell’UE, finanziate in modo frammentato dai diversi FS, con la particolarità che il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (Feasr) ha una doppia appartenenza, ai FS e alla Pac: di conseguenza restituzioni e redistribuzioni avvengono nei confronti di entrambi e rendono estremamente complesso ogni tentativo di riforma.
Quest’ambiguità originaria non è l’unica: nel caso delle politiche di sviluppo rurale, all’interno dei FS, ce ne sono almeno altre tre.

  • La prima si riferisce all’ambiguità tra settore e territorio: non è chiaro se gli interventi siano indirizzati prevalentemente agli agricoltori oppure alla popolazione rurale nel suo insieme. Quest’ambiguità si riproduce negli interventi per la sostenibilità ambientale, giustamente considerati come territoriali ma poi destinati soltanto gli agricoltori.
  • La seconda riguarda la molteplicità di ‘modelli’ amministrativi d’intervento -dall’alto, dal basso- e di livelli istituzionali coinvolti (comunitari, nazionali, regionali), di un disegno coerente.
  • La terza riguarda la frammentazione delle politiche rurali tra i cinque FS a livello europeo, per di più con il modesto pregio di svolger un ruolo residuale in ognuno di essi (Metis, 2009).

Se si vuole ragionare sulle riforme che saranno necessarie dopo la fine del periodo programmatorio in corso (nel 2020) queste ambiguità vanno considerate non come anomalie da eliminare ma piuttosto come aspetti della realtà complessa da affrontare. Oggi si discute del futuro dei FS, soprattutto per le conseguenze che l’uscita della Gran Bretagna2 dall’UE avrà sul bilancio comunitario. Ciò significa, diversamente dal passato, che questa volta bisognerà decidere dove e quanto si deve ridurre o modificare la spesa, per ognuno dei cinque Fondi esistenti e per la Pac, poiché queste due voci rappresentano circa l’80% del totale della spesa comunitaria. Questi tagli obbligano a riforme in profondità, dare spazio a nuove priorità, con logiche di restituzione e redistribuzione diverse rispetto al passato. Inoltre, non è ancora chiaro se queste nuove priorità -migrazione, crescita, occupazione, ambiente, sicurezza, difesa-: si aggiungono agli obiettivi dei FS esistenti oppure si creano nuovi fondi e strutture. In questo quadro di esigenze, le politiche rurali e le modalità con cui vengono attuate andrebbero osservate con occhi freschi, tenendo presente la loro evoluzione e il ruolo che le zone rurali stanno svolgendo nei confronti delle nuove priorità, piuttosto che negli equilibri precedenti, riducendo le molteplici ambiguità che si sono andate accumulando nel tempo. In sede conclusiva considero tre ipotesi di riforme possibili, con diversi livelli di ambizione.

Restituzione vs. redistribuzione

Le politiche redistributive tra SM sono state giustificate a livello comunitario come compensazioni, agli SM e alle zone considerate svantaggiate o in ritardo sullo sviluppo economico, per bilanciare gli effetti negativi che il mercato comune europeo poteva comportare per loro. La teoria dell’epoca (anni ’70) sosteneva che le economie più avanzate -più competitive- avrebbero ottenuto maggiori benefici dall’allargamento del mercato interno; di conseguenza era necessaria una redistribuzione di risorse finanziarie a favore delle zone in via di sviluppo. Queste dovevano facilitare gli investimenti strutturali e ridurre così le disparità o squilibri esistenti. I FS sono nati con il compito di svolgere questa funzione e favorire in questo modo la convergenza e la possibilità di competere ad armi pari nel mercato comune. In questo quadro concettuale, l’agricoltura e le zone rurali erano considerate, senza differenze, strutturalmente svantaggiate, dunque bisognose di trasferimenti per affrontare gradualmente la loro modernizzazione.
Osservando oggi il risultato delle politiche redistributive, la riduzione dei divari c’è stata più tra SM che tra regioni, ed anche per alcune zone rurali (Terluin, 2001). Inoltre, l’analisi del mondo rurale trovò che in realtà, queste zone si erano sviluppate non soltanto attraverso la modernizzazione dell’agricoltura, ma anche –in modo inatteso- diversificando le attività con il turismo, le piccole e medie imprese industriali, i servizi, il pendolarismo, l’ambiente (Ocse, 2006), attribuendolo non soltanto ai trasferimenti ricevuti ma anche allo sviluppo locale, endogeno, un concetto nuovo.
A un’altra scala, il processo di globalizzazione dei mercati ha modificato i presupposti che avevano informato gli obiettivi dei FS e la loro logica redistributiva. Si affermò che, se si vuole essere competitivi a livello mondiale, la sola redistribuzione di risorse interna è insufficiente per raggiungere quest’obiettivo (Sapir et al., 2003). Dopo la crisi economica del 2008, che tuttora persiste ed ha colpito indiscriminatamente economie avanzate e svantaggiate, le ricette per uscirne hanno fatto leva sulla crescita e l’occupazione in generale, le riforme fiscali e finanziarie della spesa pubblica, con lo strumento della regolamentazione, piuttosto che con la redistribuzione di risorse. Tutto ciò ha messo in discussione i presupposti della logica redistributiva. Di conseguenza, le disparità e gli squilibri territoriali all’interno dell’UE non sono più visti come il problema principale da risolvere. In questo capovolgimento dei problemi, vi sono indicazioni che, in generale, le zone rurali e svantaggiate abbiano resistito meglio durante la crisi, delle zone urbane e sviluppate in termini di crescita e occupazione (Eurostat 2017; European Commission 2013; Ecorys, 2010)3.
Tutto questo indica che argomentare a favore di una continuità delle politiche redistributive dei FS nelle prossime riforme, con una logica considerata insufficiente, sarà più difficile che in passato. Sebbene i divari territoriali persistano e siano importanti, nuovi squilibri, come le crescenti disuguaglianze sociali che colpiscono classi medie e operaie, prevalentemente urbane, in regioni e SM considerati in passato sviluppati, indeboliscono l’intervento redistributivo classico. Questa nuova situazione potrebbe invece rafforzare la logica ‘restitutiva’ nei negoziati sulla ripartizione delle risorse in quanto essa offre agli SM che sono oggi ‘contributori netti’ al bilancio comunitario e in difficoltà economiche nonostante lo status di paesi sviluppati, argomenti meno meschini di quelli a suo tempo sostenuti da Margaret Thatcher, con il suo “voglio i miei soldi indietro”.
Le zone rurali, in questa situazione, dovranno rielaborare gli argomenti basati sulle disparità e il riequilibrio, soprattutto sugli svantaggi che non sono più ovunque tali, orientandosi verso legittimazioni che sottolineino la specificità e varietà delle competitività possibili: produzioni di nicchia legate o meno alla tradizione, economie di scopo, combinazione di redditi diversi, stili di vita più sostenibili e meno costosi, turismo, prodotti di qualità, ed altri ancora da identificare- in combinazioni variabili secondo il mix di risorse disponibile a livello locale. In altre parole, bisognerebbe accompagnare e rafforzare la differenziazione dello sviluppo avvenuta, accettare la disomogeneità strutturale della modernizzazione rurale attuale, indicando in questo modo una nuova via alle zone rimaste marginali. Ciò implica politiche adattate a tale diversità, capaci di rispondere a bisogni differenziati, con conseguenze rilevanti per chi fa che cosa ai diversi livelli istituzionali. Nei confronti delle nuove priorità dell’UE, le zone rurali dovrebbero giustificare il sostegno richiesto sulla base del loro contributo alla crescita e all’occupazione di solito sottovalutato (Eurostat 2017; Ocse, 2015), al ruolo positivo che potrebbero svolgere nei confronti dell’immigrazione – si ricordi che l’agricoltura intensiva è un’utilizzatrice di manodopera non più disponibile nelle zone rurali-, alle nuove opportunità e stili di vita che possono offrire a coloro che non le trovano più nelle città.

Settore vs. territorio

L’ambiguità tra politiche agricole e politiche rurali territoriali si manifesta in modo specifico e rilevante sia all’interno della Pac, tra il primo e il secondo pilastro, che all’interno degli altri FS. Il Feasr finanzia programmi di sviluppo rurale (Psr) che includono interventi settoriali (maggioritari) e territoriali. Negli altri FS, gli interventi settoriali per l’agricoltura sono modesti –ma possono esserci- mentre quelli per altri settori, zone urbane e infrastrutture sono predominanti nel Fesr e nei Fondi di Coesione (FC), per interventi di formazione, occupazione e inclusione sociale nel Fondo Sociale (Fse) e per le zone costiere nel Fondo per la pesca (Fep). Per sapere quanto si spende per le zone rurali in Europa dovremmo cercare nei circa 450 programmi dei Fondi Strutturali, a intervento avvenuto e riaggregando i singoli interventi (Saraceno, 2014). Quest’ambiguità risponde alle dinamiche interne dell’UE per quanto riguarda la distribuzione dei compiti tra direzioni generali, ma resta il fatto importante che le politiche rurali territoriali sono residuali sia nella Pac che negli altri FS.
Nella Pac l’ambiguità risponde allo sfasamento tra le trasformazioni reali avvenute nelle zone rurali europee dagli anni ’70 in poi da un lato e all’inerzia della politica agricola dall’altro, pur nelle successive riforme. Il primo intervento territoriale all’interno della Pac, destinato alla popolazione rurale, è l’Iniziativa Comunitaria Leader, iniziata nel ‘91 e mantenuta fino ad oggi con qualche modifica, accumulando un’esperienza di 26 anni. A questa iniziativa si sono aggiunte negli anni ’90 nuove misure territoriali. Mentre la Pac è stata avviata nel ’62 per il settore agricolo, come intervento comune a tutti gli SM, le politiche rurali territoriali sono arrivate più tardi (il secondo pilastro è del ’99) con una spesa molto inferiore: all’interno dei Psr rappresentano a consuntivo tra il 25 e il 20% della spesa Pac, e questa quota include interventi di cui sono beneficiari soltanto gli agricoltori (Metis, 2009).
D’altra parte, la diversificazione delle opportunità di reddito nelle zone rurali ha ampliato le occasioni di lavoro extra-agricolo per le famiglie con piccole e medie aziende, riducendo la necessità di un sussidio generalizzato, e, nel caso delle grandi aziende è probabile che le necessità effettive di sussidio siano minori da sempre. Ciò implica che i criteri con cui si attribuiscono i pagamenti diretti a sostegno del reddito andrebbero riconsiderati in modo sostanziale, privilegiando le aziende famigliari più vulnerabili e progetti per uscire da tale vulnerabilità, sia attraverso la specializzazione agricola che la diversificazione in attività in altre filiere o settori.
Gli studi sulle tendenze nelle zone rurali europee segnalano un buon andamento per la maggioranza delle zone rurali peri-urbane, intermedie, e perfino di quelle più remote (secondo la classificazione dell’Ocse) e attribuita all’attrazione di attività e residenti non legati all’agricoltura (Espon, 2011, European Commission, 2013; Ocse, 2006 e 2015). Tuttavia, quest’evoluzione positiva non sembra aver influito in modo significativo sui presupposti delle politiche di sviluppo rurali comunitarie, né sulle riforme della Pac che si sono susseguite. La probabile spiegazione di quest’ambiguità non è dunque di natura conoscitiva ma politica. Data la modesta entità dei finanziamenti di tipo territoriale, e i tempi relativamente recenti in cui sono stati adottati, è azzardato affermare che lo sviluppo rurale osservato sia il risultato degli interventi del secondo pilastro della Pac. E’ probabile invece che queste tendenze si siano verificate in forma spontanea, e le politiche rurali attuate le abbiano accompagnate e dato visibilità, rafforzandole. Si potrebbe argomentare che se lo sviluppo rurale avvenuto è poco imputabile alle politiche rurali esistenti, andrebbe spiegato perché si dovrebbero sostenere. In primo luogo perché stanno funzionando come valvola di sfogo ai problemi delle aree urbane, soprattutto in tempi di crisi (anche in passato hanno svolto questa funzione); in secondo luogo perché servono a ridimensionare le politiche agricole, riorientandole verso le nuove opportunità offerte dalla diversificazione, in terzo luogo per ripensare l’intervento di sostenibilità ambientale, rafforzandolo, che si considera di seguito.
Non è chiaro quale ruolo abbia la sostenibilità ambientale nei diversi interventi destinati ai territori rurali, tanto per quanto riguarda gli agricoltori, quanto per gli altri attori dello sviluppo rurale. Nel primo caso gli interventi sono considerati sia un obbligo di conformità minimo e variabile secondo gli standard degli SM per ricevere i pagamenti diretti, sia un beneficio aggiuntivo nel caso delle misure agro-ambientali. Nel caso riguardante gli interventi per l’economia rurale nel suo complesso, vi sono soltanto vincoli di conformità con leggi nazionali e regionali. Questa disparità di esigenze tra settore e territorio non è spiegabile con i dati empirici sulla sostenibilità di questa o quell’attività, ma si capisce meglio considerando l’evoluzione della Pac, dalle politiche di mercato senza vincoli ambientali, fino ai pagamenti diretti con qualche vincolo in più. Questi ultimi coincidono pressappoco con i pagamenti storici disaccoppiati, e suggeriscono una ‘via ambientale’ alla riforma della Pac che ne giustifichi la continuità.
A mio parere la sostenibilità ambientale è una questione trasversale, che interessa tutti i settori di attività e i consumatori, variabile secondo il territorio. L’agricoltura ha dei problemi specifici da risolvere in materia ambientale, che riguardano l’uso dell’acqua e dei terreni, l’inquinamento dovuto ai mezzi tecnici utilizzati nelle coltivazioni, le emissioni degli allevamenti, e altro ancora, che l’impostazione produttivistica della Pac ha contribuito ad aggravare. Questi andrebbero regolati secondo il principio che chi inquina paga. Se poi, gli agricoltori, o chiunque altro, voglia offrire servizi ambientali utili per le zone rurali, questi dovranno essere pagati come beni pubblici, senza confonderli con i pagamenti diretti. L’ambiguità segnalata tra vecchi sussidi e pagamenti verdi va distinta per non sommare nuove distorsioni a quelle già esistenti, rendendo tali servizi difficili da definire, amministrare e controllare. Le esigenze di sostenibilità ambientale non dovrebbero essere utilizzate per giustificare la continuità della Pac. I problemi di sostenibilità delle zone rurali non si limitano all’agricoltura, ma vanno considerati nel loro insieme, evidenziando i conflitti possibili, ad esempio, tra l’uso turistico e per il tempo libero di un territorio rurale, con esigenze di conservazione del paesaggio. Le regole nell’uso del territorio vanno stabilite per tutti, non soltanto per alcuni, e devono considerare tutti gli usi non sostenibili.
L’ambiguità tra settore e territorio all’interno della Pac, a cui si è aggiunta una dimensione ambientale, è dovuta soprattutto all’influenza dei gruppi d’interesse agricolo, sommato a quello degli SM, orientato a massimizzare le ‘restituzioni’ ottenute attraverso i due pilastri della Pac. Va sottolineato come tali ‘restituzioni’ non abbiano nulla di ‘distributivo’ nel senso indicato a favore delle zone svantaggiate, ma al contrario privilegia SM e regioni con agricolture ricche e modernizzate. Ciò ha creato un combinato disposto che ha rallentato, se non ostacolato la riduzione degli squilibri tra zone rurali.

Interventi dall’alto e dal basso, frammentazione delle politiche rurali vs. concentrazione

Tra Cap e FS troviamo una molteplicità di logiche d’intervento e di livelli istituzionali nell’attuazione delle politiche rurali. Le politiche di mercato della prima Pac erano necessariamente comuni e ‘’dall’alto’. Successivamente, con i pagamenti diretti si introducono margini di decisione a livello nazionale che differenziano gli interventi. L’iniziativa Leader introduce una logica diversa, dal ‘basso’ e con misure definite al livello locale, poi inserita nel contenitore Psr, definito invece a livello nazionale o regionale, con un mix di misure comuni (pagamenti per le zone svantaggiate o ai giovani agricoltori) regolate dall’UE, misure obbligate regolate a livello di programma (agro-ambientali) e misure libere. Nel caso degli altri FS non ci sono ‘menu’ di misure, ma priorità e obiettivi, e l’approccio locale è stato reintrodotto nell’ultimo periodo di programmazione, con qualche forma di coordinamento (con scarso successo).
Le ragioni di questa molteplicità di logiche e modelli risiede esclusivamente nella loro accumulazione nel tempo: ad ogni tornata di programma, si aggiungono nuove logiche e regole, senza eliminare del tutto quelle precedenti. L’ambiguità, in questo caso, riguarda i contenuti, le regole applicabili, le autorità che intervengono. Ciò che arriva ai beneficiari attraverso tutti questi canali è molto diverso, poco coordinato e comparabile, senza un disegno coerente (Saraceno, 2014). Inoltre, influiscono negativamente sui risultati ottenuti dai programmi (Enrd, 2011). E’ vero che si potrebbe argomentare che tale molteplicità non è un ostacolo ma una ricchezza della costruzione europea che richiede l’adattamento alla diversità di situazioni e assetti istituzionali degli SM. Tuttavia, se questo fosse il principio che guida le politiche rurali, tutti gli aspetti che non sono coerenti con quest’obiettivo di assecondare la diversità e i vantaggi competitivi delle singole zone, dovrebbero essere corretti o eliminati. Ma così non è, ed è questa l’ambiguità da correggere. La crescente diversità tra zone rurali consiglierebbe la definizione dei programmi al livello istituzionale più vicino agli attori dello sviluppo, con misure da loro definite, ma questo entra in conflitto con attribuzioni precedenti di competenze ad altri livelli, la necessità di controlli e monitoraggio. In principio, se le zone rurali saranno sempre più differenziate tra di loro, le prescrizioni comuni d’intervento saranno sempre meno efficaci. Andrebbero dunque trovati modi di lasciare la decisione agli attori locali, accordandosi su controlli che permettano di valutare la correttezza della spesa da parte delle amministrazioni esterne che le finanziano.
Anche il problema della frammentazione a livello europeo delle politiche rurali tra diverse direzioni generali rappresenta un aspetto difficile da giustificare dal punto di vista dell’efficienza organizzativa e suggerisce una concentrazione degli interventi, più volte suggerita e più volte scartata. La divisione del lavoro iniziale tra direzioni generali non prevedeva interventi di sviluppo rurale, e, quando sono stati aggiunti, sono stati considerati in competizione con i loro interventi principali. Il problema, anche in questo caso, è politico. Un’eventuale concentrazione, per esempio nella DG Regionale dello sviluppo rurale territoriale, toglierebbe alla direzione dell’agricoltura margini di manovra per eventuali riforme della Pac, mentre una loro concentrazione in quest’ultima solleverebbe l’opposizione della direzione regionale, perché le politiche territoriali sono percepite come di propria competenza.

Qualche conclusione: tre ipotesi

Le ambiguità delle politiche rurali comunitarie qui considerate sono quattro: il carattere restitutivo e retributivo degli interventi; la sovrapposizione tra settore e territorio tanto all’interno della Pac come negli altri FS; la molteplicità di modelli e livelli istituzionali di intervento non sempre coerenti e la frammentazione degli interventi tra diverse direzioni generali. Le ragioni di queste ambiguità sono politiche, introducono inefficienza e complessità nell’attuazione e andrebbero affrontate con le riforme previste per il 2020. L’uscita della Gran Bretagna dall’UE, poco prima di questa scadenza, con la riduzione del suo contributo finanziario, unita all’introduzione di nuove priorità, obbliga a ragionare su dove tagliare la spesa. Ciò offre un’occasione unica per riforme più ambiziose che in passato, ma non è scontato che ci si riesca. Mi sembra che si possa ragionare su tre ipotesi di riforma in maniera molto schematica.
Cominciamo da quella meno ambiziosa, che risolverebbe alcune ambiguità, ma a mio avviso sarebbe come buttare il bambino invece dell’acqua sporca. Le politiche territoriali di sviluppo rurale sono relativamente recenti, frammentate tra Pac e FS, residuali ovunque, in competizione con gli interventi principali dei diversi fondi e senza un gruppo d’interesse organizzato che le appoggi e promuova a livello politico. II rischio evidente è che, messi di fronte alla necessità di tagli, queste siano eliminate per prime, per potersi concentrare sulla difesa del ‘core business’. La Pac ridiventerebbe tutta settoriale, eliminando l’ambiguità tra settore e territorio e continuando a considerare la sostenibilità ambientale come un bene pubblico da retribuire agli agricoltori. Non mi pare che gli altri FS, ed in particolar il Fesr e il FC, messi di fronte alle stesse necessità di tagli, optino per assorbire il rurale territoriale: è molto più probabile che si concentrino su infrastrutture e politiche urbane. Una cosa è discutere di riforme in un quadro di risorse crescenti e priorità mantenute nel tempo; un’altra ben diversa, quando queste sono decrescenti e ci si confronta con nuove priorità.
I vantaggi di questa soluzione sono che è relativamente facile da realizzare e si soddisfano le richieste dei gruppi d’interesse che vogliono ridurre il meno possibile i finanziamenti destinati agli agricoltori. Gli svantaggi sono tuttavia rilevanti: s’isolano le politiche agricole su un modello d’intervento non più coerente con la realtà rurale; s’ignora come i processi di diversificazione abbiano influito sulle aziende agricole, si riproduce un assistenzialismo generalizzato, senza limiti di durata, che non esiste per nessun altro settore con crisi ben più serie, indebolendo così la legittimazione della Pac. Si mantiene il combinato disposto tra SM e organizzazioni professionali sulle ‘restituzioni’ che ha funzionato in modo regressivo rispetto agli squilibri territoriali. Si perderebbe l’esperienza europea di sviluppo locale, dal basso, che è stata ricca e originale, imitata da organismi internazionali e paesi in via di sviluppo.
Consideriamo ora l’ipotesi più ambiziosa, espressa in modo un po’ provocatorio ma utile per capire più chiaramente quali sono le poste in gioco e indicare quale potrebbe essere, nel medio-lungo periodo, la situazione che si vuole favorire. Per fare questo esercizio bisogna abbandonare una visione delle zone rurali in cui soltanto le attività agricole sono possibili, non vi sono altre opportunità di occupazione in altri settori e la qualità della vita è inferiore a quella delle zone urbane (Ocse, 2015). Ci saranno sempre zone rurali ‘all’antica’ dove la diversificazione non è avvenuta, ma ciò che conta è seguire il cammino di quelle che si sono diversificate, piuttosto che di quelle che sono rimaste agricole, anche con strutture moderne, ma sempre bisognose di sussidi, neanche sufficienti a garantire il ricambio intergenerazionale delle aziende, evitare lo spopolamento, una qualità accettabile di servizi.
Se dovessimo impostare una nuova Pac oggi, con le conoscenze che abbiamo, questa avrebbe un solo pilastro, rurale, con interventi rivolti ai settori di attività e alla popolazione residente in un determinato territorio, agricoltura compresa, con misure ritagliate sulle specifiche necessità delle diverse zone. Questo pilastro, con un fondo unico, cofinanziato, dovrebbe finanziare investimenti di modernizzazione e di riqualificazione ambientale, servizi innovativi adeguati alla bassa densità demografica, sviluppare la diversificazione delle attività, sostenere temporaneamente le aziende che ne hanno bisogno aiutandole nei loro progetti. In altre parole, intervenire in tutte le dimensioni della ruralità moderna e sostenibile che oggi sappiamo che c’è e funziona e ha le sue peculiarità rispetto alle zone urbane. Il peso dell’agricoltura, come degli altri settori, non è predefinito ma può variare da zona a zona. L’unicità del fondo e l’inclusione degli interventi per gli agricoltori dovrebbero facilitare una visione comprensiva del territorio, lo sviluppo di complementarità tra settori -piuttosto che di concorrenza-, di scambi con l’esterno. E prevedibile che i percorsi di modernizzazione siano differenziati tra di loro -e questo è un bene-, lasciando libertà di scelta nella formulazione dei programmi secondo i bisogni degli attori locali, stabilendo opportuni vincoli e controlli.
E’ un’ipotesi di riforma in profondità, in cui i pagamenti diretti del primo pilastro sono stati isolati e gradualmente eliminati. Il livello di ambizione è alto, richiede un cambio di visione poco probabile a breve, proprio per le ambiguità segnalate e i rapporti di forza tra i vari gruppi d’interesse, inclusi gli SM. Tuttavia se si considera questa ipotesi non come una riforma da attuare nei prossimi due anni, ma come un punto di arrivo, d’indirizzo per il medio-lungo periodo, si possono ordinare e orientare i passi necessari per arrivarci, guardando in avanti, invece che indietro. Sarebbe una politica che costa molto meno della Pac attuale e, conoscendo la direzione di marcia, consente a tutti di organizzarsi e adeguarsi. Il principio di redistribuzione tra zone ricche e povere, degli squilibri territoriali, che ha perso significato negli ultime anni, dovrebbe essere ridimensionato, per lo meno per quanto riguarda le politiche rurali, a favore del principio di diversificazione e integrazione, facilitato dal nuovo fondo unico. Le molteplici ambiguità sopra analizzate sarebbero in gran parte superate. A livello europeo queste competenze dovrebbero essere gestite da una DG Agri ribattezzata, tutta rurale. L’alternativa di attribuirle alla DG Regio, coerente per quanto riguarda l’approccio territoriale, avrebbe come controindicazione l’assenza di un’esperienza in materia di politica agraria, punto di partenza obbligato nel percorso di diversificazione rurale.
Tra queste due ipotesi di riforma opposte, vanno individuate ipotesi intermedie a breve, che consentano di utilizzare nel modo più lungimirante i tagli alla spesa che si renderanno necessari con l’uscita della Gran Bretagna dall’’UE. Da quanto affermato fin qui, sarei favorevole alla scelta più ambiziosa come riferimento di lungo periodo. I passi intermedi per arrivarci, per quanto riguarda la Pac sono in primo luogo la definizione di una ‘roadmap’ per smobilitare il primo pilastro, possibilmente introducendo soglie massime ai pagamenti diretti, utilizzando i redditi misti delle aziende famigliari come riferimento per definire i pagamenti diretti, introducendo un sistema di assicurazioni sul rischio sovvenzionate, il principio di chi inquina paga. In secondo luogo andrebbe riorganizzato il secondo pilastro, semplificando le misure per sostenere gli investimenti delle imprese, non solo delle aziende agricole ma di tutte le imprese del territorio, favorendo progetti intersettoriali e quelli che si rivolgono alle nuove priorità, inclusi gli interventi necessari per mettere il territorio in sicurezza nei confronti dei disastri ambientali, la fornitura di servizi per la sostenibilità, aperti a chiunque sia in grado di garantirne la qualità, servizi di trasporto e comunicazione locali, collegati alle reti nazionali, servizi innovativi alla popolazione attraverso le telecomunicazioni, centri multiservizio, per menzionare soltanto quelli che sono già stati sperimentati con successo. Consentire la sperimentazione d’iniziative innovative, facilitandone la successiva diffusione.
Si tratta d’ipotesi di riforma molto schematiche, soltanto per dare un’idea, ancora vaga, che serva ad orientare la strada da percorrere, o da evitare. Ognuna di queste risolve in modo diverso le ambiguità descritte con implicazioni importanti su ciò che si mantiene. Le riforme più ambiziose richiedono tempi più lunghi e gradualità nei cambiamenti.

Riferimenti bibliografici

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  • 1. Il termine utilizzato, che mi è rimasto impresso, fu «tuyauterie financière».
  • 2. Ironicamente –è utile ricordarlo- l’entrata della Gran Bretagna nella Comunità Economica Europea (Cee) nel 1973 aveva contribuito a rafforzare il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fesr) per dare una ‘restituzione’ alla Gran Bretagna che altrimenti si sarebbe trovata a contribuire al bilancio comunitario ottenendo in cambio pochi benefici dai FS.
  • 3. Il dato non è generalizzabile a tutte le zone rurali dell’UE: in una gran parte degli SM (Belgio, Olanda, Francia, Germania, Regno Unito, Austria, Portogallo, Grecia, Slovenia) i tassi di occupazione nelle zone rurali tra il 2007 e il 2017 sono stati superiori a quelli urbani, mentre tra i nuovi SM, con Italia e Spagna, questi erano superiori nelle zone urbane; nella Repubblica Checa, Irlanda, Svezia, Finlandia, Danimarca i tassi si mantengono molto simili tra zone rurali e urbane (Eurostat 2017). Inoltre, anche per quegli SM con aree rurali più deboli di quelle urbane, si osserva una tendenza alla diversificazione dei settori di occupazione e un miglioramento graduale dei tassi di occupazione che suggerisce una tendenza comunque positiva (European Commission, 2013).
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