La valorizzazione della qualità agroalimentare: diverse strategie a confronto

La valorizzazione della qualità agroalimentare: diverse strategie a confronto
a Università della Tuscia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura, le Foreste, la Natura e l’Energia

Premessa

L’agroalimentare italiano gode di una indiscussa vocazione alla qualità. Ciò è vero non solo per la fama delle nostre tradizioni gastronomiche, ma anche grazie al pregio delle materie prime agricole ed alla loro grande varietà, dovuta ad un intreccio particolarmente felice e vario di condizioni ambientali e sedimentazioni storico-culturali. Intreccio che, possiamo affermare senza enfasi retorica, si snoda lungo l’intera penisola, nessuna area esclusa. In particolare, la ricchezza e la varietà di tradizioni gastronomiche nel nostro paese rappresentano senz’altro un importante punto di forza in un contesto di apprezzamento crescente di prodotti tradizionali, diversificati e con un forte contenuto di tipicità. E’ comunemente riconosciuto che, per il sistema agroalimentare italiano, puntare sulla qualità –di volta in volta intesa in una o in alcune delle sue molteplici accezioni- è una scelta obbligata in quanto le aree suscettibili di recuperare margini di competitività sul fronte della produttività e dunque della compressione dei costi di produzione sono piuttosto limitate.
Puntare sulla qualità richiede l’attivazione di una serie di funzioni aziendali tutt’altro che banali, mirate alla esatta definizione degli attributi qualitativi del prodotto, alla individuazione del target di mercato, alla scelta dei canali commerciali e via dicendo. In particolare, vi è la necessità di compiere un intenso sforzo in attività di comunicazione in quanto la maggior parte degli attributi qualitativi dei prodotti agroalimentari non è di immediata determinazione.
Queste funzioni sono complesse e richiedono capacità manageriali e investimenti specifici che non sempre sono alla portata delle imprese che operano nel settore agroalimentare del nostro paese, ma anche di altri paesi europei. E’ questa la ragione per la quale in questo settore -soprattutto nella fase agricola e nel segmento di imprese di minori dimensioni tra quelle di trasformazione- sono relativamente diffuse strategie collettive di valorizzazione della qualità, anche molto diverse tra di loro, ma che hanno tutte in comune l’obiettivo di rendere riconoscibile il prodotto e fornire informazioni ed assicurazioni circa la sua qualità effettiva ed in particolare per quanto riguarda la natura tradizionale dei prodotti e la loro tipicità.
Scopo di questa nota è di presentare brevemente alcune di queste strategie, evidenziandone i punti di forza e di debolezza ma anche le possibili sinergie. A questo fine, il prossimo paragrafo discute molto sinteticamente i tratti più generali che caratterizzano tutte le iniziative collettive di valorizzazione della qualità, anche se in misura diversa. Il paragrafo n. 3 è dedicato alla presentazione di tre diverse forme di valorizzazione collettiva della qualità: i) la certificazione europea della tipicità, ovvero le Denominazioni di origine protetta (DOP) e le Indicazioni geografiche protette (IGP); ii) diverse forme di associazione tra produttori che si possono affermare sulla base di affinità territoriali e/o merceologiche, ne sono esempio le strade del vino o le associazioni delle città dell’olio e via dicendo; iii) lo sviluppo di filiere corte nelle quali i produttori cooperano variamente assieme formando una rete per aggregare la propria offerta rivolgendola direttamente ai consumatori finali.

Peculiarità della valorizzazione collettiva della qualità

L’accertamento della qualità dei prodotti agroalimentari da parte dei consumatori avviene perlopiù al momento del consumo anche se in non pochi casi solo analisi di laboratorio o altre verifiche complesse, al di fuori della portata dei consumatori, consentono di stabilire la vera natura del bene. Naturalmente, i consumatori preferiscono fare le loro scelte in presenza di quante più informazioni possibile in modo da restringere il margine di incertezza sulla qualità dei beni acquistati.
Ciò implica che, per il funzionamento dei mercati agroalimentari e per la promozione e la valorizzazione della qualità, le imprese devono attivare specifiche forme di comunicazione ed assicurazione (Verbeke, 2005). Inoltre, per gli aspetti della qualità che rivestono una importanza particolare, come ad esempio quelli legati alla salubrità dei cibi e/o dell’ambiente, occorre che sia fissato un sistema normativo che preveda degli standard, dei divieti ed un sistema di controllo e certificazione sotto il controllo pubblico.
Le attività legate alla comunicazione sono, come è noto, costose e, in particolare, richiedono investimenti altamente specifici, di tipo non recuperabile. Inoltre, affinché un prodotto sia riconoscibile sul mercato, occorrono quantitativi adeguati e rifornimenti non sporadici. Queste due circostanze rendono difficile alle piccole imprese che predominano nel settore agroalimentare, soprattutto in quello italiano, far affermare il proprio nome sul mercato in modo tale da renderlo una garanzia di qualità per i consumatori. Questa è, in breve, la principale ragione per la quale in questi mercati si affermano frequentemente strategie per la valorizzazione dei prodotti caratterizzate dall’aggregazione di una pluralità di soggetti, i quali possono così beneficiare di una visibilità che altrimenti non riuscirebbero ad avere, nonché della possibilità di ripartire i costi connessi alle attività direttamente o indirettamente legate alla comunicazione.
Prima di passare alla presentazione di alcune di queste strategie collettive di valorizzazione della qualità è opportuno richiamare, seppur brevemente, la complessità che le caratterizza. Innanzitutto, queste iniziative presuppongono la capacità, da parte dei soggetti che ne fanno parte, di individuare un interesse comune da perseguire, cosa che può implicare l’accettazione di un compromesso e l’imposizione di un insieme di regole che può limitare, in misura non trascurabile, l’autonomia decisionale delle singole imprese. Inoltre, occorre considerare che la condivisione dell’immagine, talvolta del nome stesso con il quale il prodotto arriva sul mercato, genera un legame di reputazione e che questo legame ha ripercussioni profonde sul meccanismo competitivo (Tirole, 1996). Per ciascuna impresa ciò vuol dire che la sua performance dipende anche dalle strategie e dai comportamenti delle altre. E’ per questo che avere una reputazione comune vincola le imprese a comportamenti e strategie comuni ed al reciproco controllo della qualità immessa sul mercato e comunicata ai consumatori, nonché alle strategie di prezzo, in quanto questo viene comunemente utilizzato dai consumatori quale “indicatore” di qualità (Akerlov, 1970; Pilati, Flaim, 1994).
Tuttavia, vi sono due importanti ordini di ostacoli lungo questa direzione. In primo luogo vi è l’eterogeneità delle imprese che rende difficile la definizione di strategie di posizionamento del prodotto non contraddittorie o conflittuali, che, da un lato, consentano una sufficiente specificazione delle caratteristiche del prodotto, e, dall’altro lato, non esasperino la concorrenza di prezzo a detrimento della qualità ma anche di alcune delle tipologie di imprese che partecipano all’iniziativa.
Anche per quel che riguarda il processo decisionale attraverso il quale vengono definite le caratteristiche del prodotto è bene sottolineare che si può determinare una condizione di asimmetria tra le imprese. In generale, le imprese di maggiori dimensioni uniscono al maggiore potere di mercato, una maggiore incisività nella fase di negoziazione delle regole che presiedono al funzionamento dell’iniziativa. Infine, un ulteriore ostacolo all’adozione di comportamenti cooperativi deriva dalla convenienza all’adozione di comportamenti di free riding; convenienza che, paradossalmente, aumenta con la nascita della iniziativa collettiva e l’affermazione di una comune reputazione. Infatti, alcuni produttori, approfittando della reputazione condivisa con altri, possono essere indotti ad abbassare la qualità del proprio prodotto per ridurre i costi di produzione e lucrare, così, la differenza con il prezzo di vendita. Questo comportamento farebbe aumentare, anziché ridurre, l'eterogeneità dei prodotti e, col tempo, potrebbe arrivare a compromettere la reputazione comune.

Alcuni esempi di valorizzazione della qualità basata su iniziative collettive

Lo strumento europeo per la valorizzazione della tipicità

La tipicità è un aspetto qualitativo al quale i consumatori annettono una crescente importanza. Questo termine indica la specificità territoriale delle caratteristiche qualitative di un alimento (Gaeta e Peri, 1999); dove il termine territorio è inteso nella sua accezione più vasta che include, oltre alle caratteristiche ambientali anche la specifica sedimentazione culturale, ivi incluso lo sviluppo di tecniche produttive peculiari. Si tratta di una caratteristica che il consumatore non è comunemente in grado di accertare né prima dell’acquisto, né con il consumo. Per essere certa, l’origine del prodotto deve, dunque, essere in qualche modo garantita e certificata. La certificazione presuppone, a sua volta, l’esistenza di un sistema di norme che vincoli i produttori al rispetto delle regole produttive e stabilisca le modalità alle quali i consumatori possono e devono essere informati. Più puntualmente, la regolamentazione ha un duplice scopo: dal lato della domanda, quello di fornire assicurazioni sulla rilevanza dell’informazione fornita e sulla sua veridicità; dal lato dell’offerta, quello di ridurre il pericolo di comportamenti opportunistici da parte di alcuni produttori; di limitare gli effetti restrittivi della concorrenza alle situazioni di oggettiva differenziazione dei prodotti; e di riequilibrare il potere di mercato dei soggetti operanti lungo la filiera a favore della fase agricola e, in ultima analisi, di migliorare la competitività delle imprese favorendo processi più ampi di sviluppo locale nella aree rurali (Carbone, 2003).
L’espressione più compiuta ed ufficiale della tipicità agroalimentare è rappresentata dai prodotti a Denominazione di origine protetta e da quelli a indicazione geografica protetta , istituite con il Reg. Ce 2081/92 sostituito ad aprile scorso con il Reg. UE 510/06.
Da un paio di anni il numero di DOP e IGP italiane ha superato quello francese, conseguendo il primato europeo. Questo traguardo viene comunemente interpretato come testimonianza, al tempo stesso, della spiccata vocazione nazionale alla qualità ed alla tipicità, e della dinamicità di questo segmento di mercato (Ismea, 2004). A seguito del grande impulso dell’ultimo decennio, il numero complessivo di DOP ed IGP è salito a 152. Di questi, 104 sono DOP e 48 IGP.
Tuttavia, se si tenta di quantificare l’importanza economica effettiva di questi prodotti con i pochi dati disponibili, si ottiene un quadro pieno di ombre che impone riflessioni ben più approfondite. Complessivamente, il fatturato alla produzione dei prodotti DOP ed IGP ammonta a circa 3,7 miliardi di Euro che rappresentano l’11,3% del fatturato complessivo dei corrispondenti comparti (Tabella 1).

Tabella 1Fatturato alla produzione di DOP e IGP (dati 2001-2002)

Note: il fatturato è relativo ai prezzi percepiti alla produzione
Fonte: *Inea; **Ismea

Si tratta, dunque, di un segmento di tutto rispetto sia in termini assoluti che relativi. Guardando ai singoli comparti si nota immediatamente che formaggi e salumi totalizzano, da soli, la quasi totalità del fatturato dei prodotti tipici con più di 3,6 miliardi di Euro, di questi circa i due terzi si devono ai formaggi mentre il restante terzo a salumi e carni conservate. Inoltre, anche in termini di peso relativo al rispettivo comparto, queste due voci sono le uniche a rivestire un ruolo significativo, con quote del 18,7% e del 16% dei fatturati dei rispettivi comparti. Viceversa, sia gli oli di oliva che i prodotti ortofrutticoli -pur con i molti prodotti ai quali viene riconosciuto il diritto di fregiarsi della DOP o della IGP- si attestano su valori di fatturato estremamente bassi: 36 e 21 milioni di Euro rispettivamente, con quote sui comparti di 1,8% e 0,2% (Carbone, 2006).
Estremamente significativo è anche il grado di concentrazione che si verifica in questo segmento in termini di partecipazione dei singoli prodotti al fatturato complessivo DOP-IGP (tabella 2). I primi quattro prodotti totalizzano più dei due terzi del fatturato complessivo. Inoltre, l’apporto dei prodotti posti dopo la decima posizione nella classifica è estremamente esiguo. Tra i prodotti economicamente più importanti vi sono quasi esclusivamente formaggi e salumi con le due sole eccezioni dell’olio “Toscano”, e della “Nocciola del Piemonte”, rispettivamente al sedicesimo e diciassettesimo posto in graduatoria (Carbone, 2006).

Tabella 2Fatturato delle prime 20 DOP e IGP e grado di concentrazione

Fonte: elaborazione su dati Ismea

I dati mostrano inequivocabilmente che la grande maggioranza di DOP ed IGP ad oggi riconosciute restano sostanzialmente inoperanti, nel senso che non portano sul mercato volumi significativi di prodotto certificato. Occorre domandarsi quali siano le ragioni del mancato decollo di queste iniziative, ovvero, quali siano le ragioni che impediscono a tante denominazioni, di giungere sul mercato con quantitativi significativi di prodotto.
Le ragioni per cui molte delle Denominazioni e Indicazioni di origine - portate alla luce con un processo che dura spesso alcuni anni e che richiede l’impegno di una pluralità di soggetti - vengono scarsamente utilizzate sono riconducibili a tre principali ordini di circostanze.
In primo luogo vi è il ruolo giocato dalle Istituzioni nel processo di creazione di una denominazione; questo è quasi sempre preminente rispetto al coinvolgimento degli stessi produttori. L’attivismo istituzionale in tal senso trova origine, da un lato, nella progressiva chiusura dei tradizionali canali di sostegno settoriale all’agricoltura, che rende necessaria l’attivazione di politiche che aiutino i produttori ad individuare più efficaci strategie di collocamenti dei prodotti; dall’altro lato, vi è la relativa facilità di portare avanti queste iniziative che rispetto ad altre hanno costi piuttosto contenuti e riescono ad avere una gran risonanza, non solo nel ristretto ambito degli agricoltori. Conseguenza dell’insufficiente coinvolgimento delle imprese è una attenzione insufficiente agli aspetti tecnico-economici e commerciali – tra i quali vi è in primo luogo la definizione dell’areale di produzione indicato nel disciplinare - senza la quale l’iniziativa non può avere successo in quanto una denominazione o indicazione di origine non rappresenta il punto di arrivo di una strategia di valorizzazione ma piuttosto un punto di partenza. Contrariamente a quanto comunemente si crede, una denominazione non è affatto in grado “automaticamente” di aprire nuovi spazi di mercato, aumentare la disponibilità a pagare dei consumatori, ridurre la concorrenza dei prodotti delle altre aree e scongiurare eventuali falsificazioni.
In secondo luogo vi sono lmitazioni dovute alle dimensioni delle imprese ed alla loro capacità di collocarsi sul mercato in modo funzionale alla valorizzazione della qualità. Come è noto, le quantità prodotte dalle singole imprese possono essere così ridotte da rendere impraticabile l’opzione della trasformazione e/o del confezionamento che, invece, è una condizione necessaria per arrivare al consumatore finale che è disposto a riconoscere la tipicità del prodotto ed a pagare per essa. Inoltre, quasi sempre in aziende molto piccole mancano le capacità finanziarie e imprenditoriali necessarie alla valorizzazione commerciale dei prodotti sui canali più lunghi e complessi sui quali viaggiano le denominazioni.
Se a questa circostanza si aggiunge la scarsa propensione degli imprenditori agricoli italiani ad associarsi in cooperative o a trovare altre forme per gestire in comune fasi della produzione o della commercializzazione, se ne conclude che il vincolo dimensionale agisce tuttora quale forte fattore di limitazione all’uso delle denominazioni. Infine, ad un livello più generale, un ulteriore aspetto di debolezza deriva dall’inadeguato impegno sul fronte della comunicazione e promozione dell’intero sistema della certificazione europea della tipicità agroalimentare. Ciò è causa della scarsa conoscenza da parte dei consumatori del significato di questo sistema di certificazione, della sua distinguibilità dagli altri segni di qualità presenti sul mercato, quando non della sua stessa esistenza (Privitera, Platania, 2004). E’ chiaro come questi problemi colpiscano soprattutto le denominazioni nate più di recente che devono farsi strada nei mercati, affermando la propria buona reputazione e peculiare identità, facendo anche leva sulla notorietà e buona reputazione dell’intero sistema delle certificazioni della tipicità (Carbone, 2003; Carbone, 2005).

Filiere corte

Una strada alternativa per la valorizzazione di alcuni prodotti agroalimentari è quella della loro commercializzazione sulle cosiddette filiere corte. Le filiere corte possono essere di tipo diverso: dalla semplice vendita diretta in azienda, alla vendita per corrispondenza, all’e-commerce, alla consegna a domicilio a singoli o a gruppi organizzati di consumatori. Queste iniziative raccolgono sempre più interesse da parte di singoli produttori e di gruppi di produttori ma anche da parte dei consumatori per una serie di ragioni che riassumiamo brevemente qui di seguito. Agli occhi dei consumatori i prodotti commercializzati su canali brevi hanno il pregio di aver subìto un minore numero di passaggi attraverso intermediari che allungano i tempi che intercorrono tra il completamento del processo produttivo ed il consumo. Le filiere lunghe, infatti, rendono necessario effettuare stoccaggi e conservazioni che riducono la freschezza del prodotto e possono pregiudicarne le caratteristiche organolettiche e le proprietà nutritive e, in casi estremi, finanche di salubrità.
Una conseguenza non meno importante, del lungo e complesso percorso compiuto dai prodotti lungo le filiere tradizionali, è anche la minore chiarezza sull’origine dei prodotti e, talvolta, la sua minore certezza (Lamine, 2005). La possibilità di conoscere direttamente i produttori e la zona geografica di provenienza del prodotto è considerata da alcuni segmenti della domanda, come una forma di indicazione a garanzia della qualità stessa del prodotto. Inoltre, alcuni consumatori apprezzano la possibilità di sostenere, in questo modo, le piccole imprese locali.
Infine, la limitazione del trasporto e del numero di passaggi può avere un effetto di contenimento dei prezzi, i quali crescono progressivamente con l’avvicinarsi all’anello finale delle filiere, ovvero quello della distribuzione il quale, anche in virtù del potere di mercato che detiene, riesce ad appropriarsi di una parte consistente del valore aggiunto creato lungo l’intera catena.
Dal lato dei produttori, l’inserimento dei prodotti sulle filiere corte ha, dunque, il vantaggio di consentire l’acquisizione di una maggiore quota di valore aggiunto. Accanto a questo, vi è anche la possibilità che un contatto più diretto, e in un certo senso più personalizzato, con i consumatori sia una premessa per un rapporto fiduciario e durevole nel tempo che aiuti ad aumentare la stabilità degli sbocchi commerciali.
Evidentemente, accanto ad alcuni vantaggi, queste modalità di commercializzazione incontrano anche alcune significative difficoltà, soprattutto ai fini dell’adeguamento dell’offerta alle esigenze della domanda - sia per quanto riguarda la definizione del profilo qualitativo del prodotto che per quanto riguarda la sincronizzazione temporale tra offerta e domanda e per tutti i servizi da incorporare nel prodotto - ma anche ai fini dell’organizzazione delle funzioni di vendita e/o consegna delle merci.
La messa in comune di alcune di queste funzioni con altri produttori, perlopiù della zona, anche se non necessariamente, può rappresentare un’occasione per superare le difficoltà che sorgono, oltre a far aumentare la visibilità delle singole imprese che, come si è visto più sopra, rappresenta una condizione necessaria per valorizzazione della qualità presso i consumatori finali. Sempre più spesso negli ultimi anni, gruppi di agricoltori gestiscono in comune il rapporto con i clienti lungo la filiera corta aumentando così il ventaglio dell’offerta e proponendo un servizio comune di consegna a domicilio, o sul luogo di lavoro, che semplifica la gestione degli acquisti da parte dei clienti.

Associazioni diverse di produttori

Una terza strada possibile per la valorizzazione collettiva della qualità agroalimentare è quella che vede i produttori aggregarsi in iniziative anche temporanee e di natura varia per promuovere prodotti non necessariamente omogenei dal punto di vista merceologico, ma in qualche modo sinergici. Questo è il caso, ad esempio, delle Associazioni di comuni caratterizzati dall’importanze di un prodotto comune, come, ad esempio, l’Associazione delle città dell’olio o quella delle città delle ciliegie. E’ anche il caso delle strade del vino che si snodano lungo territori nei quali vi è una spiccata tradizione produttiva e dei quali si vuole promuovere la conoscenza. Talvolta queste iniziative sono parte di più complesse strategie di marketing territoriale, attraverso le quali, si mira a promuovere la conoscenza di un intero territorio con le diverse attività che vi sono insediate, da quelle produttive a quelle turistico-ricreative.
Queste iniziative - che possono sostanziarsi di attività anche molto diverse tra loro, come fiere, sagre, mercatini tematici, degustazioni, brevi corsi tematici, gare, festival, apertura delle aziende al pubblico, apertura di monumenti, campagne mirate di promozione, e molto altro ancora - hanno in comune una notevole complessità che deriva dalla presenza di più ordini di obiettivi e dalla pluralità di soggetti che vi sono coinvolti. Infatti, più che la semplice promozione di uno o più prodotti, in questo modo ci si propone di promuovere tutta una serie di beni e servizi e la conoscenza dell’intero territorio con le sue attrattive artistiche, paesaggistico-naturalistiche, ricreative, gastronomiche, culturali in senso lato. Il fulcro di questo tipo di strategie è il territorio ed il suo intimo legame, unico e inscindibile, con le diverse attività che vi si svolgono. Tutto ciò implica una organizzazione ed un coordinamento niente affatto banali proprio in quanto sono necessari più livelli di raccordo tra soggetti anche molto differenti e distanti tra loro. Oltre alla partecipazione delle aziende agricole si richiede un coinvolgimento dei ristoratori, degli albergatori, dei commercianti, dei soggetti pubblici che possono utilmente coordinarsi all’iniziativa come musei, riserve naturali, ecc. (Carbone, Velazquez, 2005). Proprio per questo si tratta di strategie estremamente complesse e che non sempre riescono a funzionare secondo le aspettative dei promotori.

Alcune riflessioni conclusive

Puntare sulla qualità è sempre più una scelta obbligata per le imprese dell’agroalimentare italiano, una scelta che, come si è mostrato nelle pagine precedenti, implica, il più delle volte, il perseguimento di strategie di valorizzazione commerciale alle quali più imprese devono collaborare in modo cooperativo. Ciò comporta una serie di difficoltà non banali, soprattutto quando i soggetti coinvolti sono numerosi e tra loro eterogenei, sotto il profilo strutturale, della specializzazione produttiva e via dicendo. In altre parole, le diverse strategie di valorizzazione commerciale della qualità agroalimentare - intraprese da soggetti differenti e coinvolti in stadi diversi delle filiere, nonché dai soggetti pubblici preposti - non si rivelano sempre ottimali nel fornire adeguate garanzie ai consumatori, né nell’assicurare un miglior posizionamento sui mercati e migliori performance economiche agli operatori.
La discussione svolta in queste pagine ha mostrato vantaggi e limitazioni di alcune possibili forme di valorizzazione della qualità che vedono uno sforzo comune di più imprese. In particolare si è visto come un aspetto cruciale sia quello della consapevolezza, che spesso purtroppo manca, che per tutte queste iniziative, al pari di quelle intraprese su base individuale dalle imprese, occorre predisporre indagini conoscitive del mercato nel quale si va ad operare ed occorre al tempo stesso la consapevolezza dei vincoli ai quali le imprese sono chiamate a sottoporsi per il buon esito dell’iniziativa comune.
Un'altra indicazione di tipo propositivo implicitamente emersa nelle pagine precedenti e che in sede conclusiva si vuole esplicitare e sottolineare, riguarda la possibilità di attuare congiuntamente forme diverse, di valorizzazione della qualità ma che possono agire in modo complementare e sinergico. La scelta tra queste alternative dipenderà, di volta in volta, dalla configurazione delle filiere, dalle possibilità di coordinamento, dalle caratteristiche del mercato al consumo finale e così via.

Riferimenti bibliografici

  • Akerlov G. A., (1970), “Il mercato dei bidoni: incertezza sulla qualità e meccanismo di mercato», traduzione in italiano in E. Saltari (a cura di) Informazione e teoria economica, 1990, Il Mulino, Bologna
  • Carbone A., (2003), “Il sistema delle denominazioni di origine tra legislazione e mercato: il caso del Pecorino Romano”, QA-La questione agraria, n. 1
  • Carbone A., Velazquez B. E. (2005), “El sector Frutas y Hortalizas en Italia. Estructura, políticas y estrategias de valorización”, in S. Mili e S. Gatti (eds), Mercados agroalimentarios y globalización. Perspectivas para las producciones mediterráneas, Editorial CSIC, Colección Estudios Ambientales y Socioeconómico
  • Carbone A., (2006) “La valorizzazione della tipicità agroalimentare in Italia: riflessioni ed evidenze empiriche sull’efficacia delle DOP-IGP”, in corso di stampa in Atti del XXII Congresso SIM
  • Gaeta D., Peri C., (1999), “Denominazioni di origine e certificazioni di filiera come strumenti di valorizzazione dei prodotti agroalimentari”, in Vinci S. (a cura di), Il sistema agroalimentare europeo e la sfida della competizione globale, ISMEA, Roma
  • Ismea, (2004), I prodotti agroalimentari protetti in Italia, Roma
  • Lamine C., (2005), “Settling Shared Uncertainties: Local Partnership Between Producers and Consumers”, Sociologia Ruralis, vol 45, n.4, October
  • Pilati L., Flaim R., (1994), “Il ruolo dei marchi collettivi in agricoltura”, Rivista di Economia Agraria n.3 a. XLIX
  • Privitera D., Platania M., (2004), “Il ruolo dell’informazione nelle strategie di marketing. Verifiche empiriche per i marchi DOP e IGP”, Atti del XL Convegno di Studi SIDEA La liberalizzazione degli scambi dei prodotti agricoli tra conflitti ed accordi: il ruolo dell’Italia
  • Tirole J., (1996), “A Theory of Collective Reputations (with Applications to the persistence of corruption and to firm quality)”, Review of Economic Studies, vol. 63
  • Verbeke W., (2005), “Agriculture and the food industry in the information age”, European Review of Agricultural Economics, vol 32(3)
Tematiche: 
Rubrica: