Le politiche per il consumo sostenibile e il caso dei prodotti biologici

Le politiche per il consumo sostenibile e il caso dei prodotti biologici

Introduzione

Nella produzione di beni alimentari, il metodo biologico è comunemente preso a riferimento come un sistema in grado di assicurare il rispetto dei parametri di sostenibilità. D’altronde, da oltre un ventennio le politiche pubbliche hanno dedicato grande attenzione e destinato notevoli risorse finanziarie al sostegno e allo sviluppo della produzione biologica, sia per il suo contributo alla salvaguardia delle risorse naturali, sia per la sua funzione sociale estesa alla fornitura di beni pubblici che contribuiscono al benessere degli animali e allo sviluppo rurale (Reg. (CE) 834/2007).
L’incremento del consumo di prodotti biologici è quindi considerato un passaggio rilevante nell’ambito dello sviluppo sostenibile. E tale rafforzamento è particolarmente opportuno nel contesto italiano che, sebbene interessato da una crescita di rilievo, rimane uno dei paesi comunitari con il più basso consumo interno (Inea, 2014).
A questo riguardo, la politica pubblica può assumere un ruolo più incisivo dedicando maggiore attenzione a interventi mirati alla domanda dei prodotti biologici e diversificando l’approccio attuale che risulta orientato principalmente all’offerta. Partendo quindi da una disamina delle politiche dell’offerta e della domanda di prodotti biologici, si esplorano di seguito le possibilità di orientare l’approccio politico, conformemente all’evoluzione del dibattito più generale sulle politiche per il consumo sostenibile.

Le politiche a favore del consumo dei prodotti biologici

Sin dalle prime politiche promosse dall’Unione Europea (UE) al fine di incentivare lo sviluppo dell’agricoltura biologica, il legislatore ha attribuito un ruolo importante, perlomeno in linea di principio, alle misure in grado di incentivare la domanda dei prodotti biologici. Ciò nonostante, è innegabile che tali misure abbiano concretamente esercitato una funzione secondaria in seno alle politiche su questo fronte. Infatti, le risorse finanziarie e l’azione dei policy maker si sono storicamente concentrate sulle misure indirizzate a sostenere la produzione e l’offerta di alimenti biologici, piuttosto che in quelle atte a stimolarne i consumi (Hrabalova et al., 2005; Lockeretz, 2007; Stolze e Lampkin, 2009).
Anche guardando alla realtà nazionale, si è assistito ad uno sbilanciamento delle politiche a favore delle misure supply-oriented e ad una scarsa incidenza normativa sul fronte dei mercati e della domanda di alimenti biologici (Zanoli, 2007; Cicia e De Stefano, 2007; Abitabile e Povellato, 2010, Abitabile e Viganò, 2012). Secondo alcuni, tale lacunosità è tra le cause che, in Italia e in Europa, contribuiscono a rendere incerto il contesto politico-istituzionale entro cui si muoverà il comparto nel prossimo futuro (Stolze et al., 2007; Stolze e Lampkin, 2009).
In realtà, negli ultimi anni si è assistito ad un rafforzamento delle politiche di incentivazione dei mercati biologici che fanno principalmente leva sui consumi, pur se esse continuano a rivestire un ruolo minoritario in seno all’intero corpus normativo e programmatico. Allo stesso tempo, è bene sottolineare che il buon funzionamento sul piano dei risultati delle politiche demand-oriented presuppone necessariamente una compiuta definizione degli obiettivi che si intende perseguire e l’adozione di misure che siano direttamente orientate a tale perseguimento. Questo perché spesso il legislatore ha di fatto ritenuto che lo sviluppo dei consumi fosse una fisiologica conseguenza di politiche che fanno leva sulla produzione e ciò ha creato una sostanziale difficoltà nell’individuare una corrispondenza specifica tra gli strumenti di politica e gli obiettivi promossi.
Per enucleare l’orientamento delle politiche sul biologico seguendo una direttrice che vede ai poli opposti, da una parte, il sostegno svincolato dal mercato e, dall’altra, l’incentivazione ai consumi, Stolze e Lampkin (2009) hanno formulato un tentativo di classificazione basandosi sugli studi di Hrabalova et al. (2005), Nieberg e Kuhnert (2006) e Tuson e Lampkin (2007). Essi distinguono le misure proposte a livello comunitario e nazionale sia per tipologia di strumento di politica adottato (misure regolamentative, finanziarie, comunicative), che per orientamento nei confronti della domanda o dell’offerta. Riguardo a quest’ultima chiave interpretativa, a nostro giudizio la classificazione di Stolze e Lampkin (2009) è suscettibile di alcuni miglioramenti che consentano di distinguere le politiche direttamente indirizzate a favorire la coltivazione di colture biologiche rispetto a quelle volte a sostenere l’intera filiera o le fasi più a valle del canale di distribuzione.
Partendo dal lavoro di Stolze e Lampkin (2009), si è quindi effettuata una riclassificazione delle principali politiche a sostegno del comparto biologico in Italia per definire quali tipologie di politiche influiscono direttamente sui consumi e quali in modo mediato. Lo schema (tabella 1) articola quindi la classificazione sulla direttrice della filiera del biologico, passando cioè gradatamente dalle misure esclusivamente destinate alla produzione biologica primaria (land-oriented) fino a quelle indirizzate ad incentivare espressamente i consumi (demand-oriented). Inoltre, nell’ultima categoria - politiche trasversali - si è voluto tenere conto delle misure finalizzate a generare effetti pervasivi sull’intero settore.

Tabella 1 – Classificazione delle politiche sul biologico in Italia


Fonte: ns. classificazione

Per quanto attiene alle politiche demand-oriented, si tratta per la gran parte di misure promosse a livello nazionale o locale perlopiù ascrivibili a interventi di comunicazione/informazione che hanno grande importanza nel promuovere il consumo di prodotti bio e, più in generale, il consumo sostenibile. Per comprendere le ragioni di tale rilevanza, di seguito vengono introdotti i principali driver del consumo sostenibile.

I driver del consumo sostenibile e la definizione delle politiche

Larga parte del dibattito sulla realizzazione di un tracciato che conduca a una maggiore sostenibilità dei consumi è polarizzata sulla figura del consumatore, sulle motivazioni alla base del consumo e quindi sui possibili driver verso la sostenibilità, lasciando meno spazio agli elementi macro e strutturali - i protagonisti della politica e del mercato -, nonostante questi abbiano una grande importanza nel condizionare le scelte di consumo (Thøgersen, 2010).
D’altro canto, assumere comportamenti a favore dell’ambiente e della società ha un’implicazione di carattere pubblico, anche se tali comportamenti sono dettati da motivazioni di interesse personale: se si preferiscono prodotti alimentari biologici perché se ne apprezza la maggiore salubrità (obiettivo privato), tale scelta produce un minore impatto ambientale da agrofarmaci (ricaduta sociale). Ciò non solo è esemplificativo della possibilità di utilizzare la leva privata per raggiungere un obiettivo di sostenibilità, ma conferma anche la necessità di comprendere i fattori che sono alla base dei comportamenti di acquisto per definire interventi appropriati ed efficaci. Gli strumenti volti a condizionare i consumi sono diversi. Regolamenti, informazione e comunicazione, incentivi, rappresentano i dispositivi tradizionali finalizzati a influenzare direttamente il consumo di beni e servizi a minore impatto. Al riguardo, tuttavia, la politica pubblica può agire anche indirettamente intervenendo a livello del sistema di produzione e condizionando quindi la disponibilità e il grado di sostenibilità dei beni e servizi prodotti (Schrader e Thøgersen, 2011; EC, 2012). Sul fronte degli interventi diretti, da una recente rassegna della letteratura (Power e Mont, 2013), emerge come, ad oggi, uno degli strumenti preferiti per perseguire un cambiamento dei comportamenti di consumo sia la fornitura di informazioni.
La rilevanza degli interventi di comunicazione ed educazione alimentare è indiscussa. Questi, oltre a favorire la conoscenza dei consumatori sulle tematiche sociali e ambientali, ne aumentano la sensibilità facilitando l’introduzione di politiche più incisive per un consumo più sostenibile.
Come noto, le certificazioni rappresentano il principale strumento di comunicazione di sostenibilità dei prodotti biologici e possono accrescere la fiducia del consumatore verso alimenti a basso impatto ambientale e al tempo stesso migliorare la performance delle imprese verso comportamenti e processi produttivi sostenibili. Ma la definizione di una comunicazione efficace che soddisfi le esigenze dei diversi attori del consumo è ancora lontana; così, mentre il legislatore comunitario ha disposto da tempo che l’etichettatura dei prodotti alimentari fornisca chiare informazioni sulla natura e sulle caratteristiche dei cibi, il dibattito sulle possibili soluzioni è tuttora aperto a causa della complessità del problema e della possibilità di conflitti di interesse1.
Sul fronte educativo, diverse iniziative rilevanti sono state messe in campo a livello comunitario e nazionale. Un esempio tra tutti, il programma UE ‘Frutta nelle scuole’ che ad oggi ha coinvolto 8 milioni di bambini in 25 paesi UE, tra cui l’Italia, secondo beneficiario dopo la Germania (Oms, 2015). Le mense scolastiche - e più in generale la ristorazione pubblica - hanno infatti un grande potenziale nell’orientare il mercato verso comportamenti alimentari più virtuosi: i cibi biologici e i prodotti stagionali e locali inseriti nella dieta scolastica riducono l’utilizzo di fertilizzanti, imballaggi e trasporti, favorendo lo sviluppo delle comunità locali e una migliore conoscenza del territorio e dei suoi prodotti. Ha contribuito in tal senso l’introduzione dei criteri ambientali minimi (Cam) nei capitolati e nelle best practices per le forniture di alimenti a filiera corta e di prodotti biologici nella ristorazione collettiva pubblica, sulla scorta delle indicazioni comunitarie che discendono dalla Politica integrata dei prodotti (Cee, 2003; Galli e Brunori, 2012).
Il ricorso a iniziative di comunicazione istituzionale e di educazione al consumo rappresenta quindi un’opportunità capace di incidere sulla fidelizzazione del consumatore, soprattutto verso quei prodotti sostenibili, come i prodotti biologici, caratterizzati da requisiti specifici per la produzione e la lavorazione che il consumatore non può verificare né durante il processo di acquisto né dopo il consumo (Jahn et. al., 2005). Tuttavia, la complessità del messaggio da trasmettere e l’articolazione delle tendenze e delle sensibilità dei consumatori verso tipologie di prodotti che rispondono a specifici bisogni di sostenibilità rendono di esito incerto azioni di comunicazione indifferenziate. È stato dimostrato che marchi di qualità, loghi e certificazioni possono essere oggetto di equivoci, poiché i consumatori potrebbero fraintenderne il significato o volontariamente ignorare le informazioni presenti in etichetta o, nel caso delle indicazioni geografiche, addirittura non conoscere la regione/zona indicata (Grunert, 2005). Al contrario, una comunicazione indirizzata a target specifici di consumatori e che faccia leva sia sulle componenti estrinseche della qualità (sapore, aspetto, ecc.) sia su quelle intrinseche (tipicità, genuinità, ecc.), è in grado di rafforzare i requisiti propri del prodotto (biologico, Dop/Igp, ecc.) rappresentando un messaggio di trasparenza del processo produttivo e dell’agire sostenibile dell’impresa (Stefani et al., 2006).
Inoltre, il coinvolgimento del settore privato e della società civile contribuisce a rafforzare il messaggio trasmesso, come avvenuto nel caso danese, dove l’alleanza tra autorità governative e attori della filiera biologica ha conferito maggiore visibilità ai prodotti biologici, già noti grazie al marchio pubblico nazionale, aprendo le porte alla loro internazionalizzazione (Kilcher et al., 2011).

Semi di cambiamento

La correzione delle imperfezioni del mercato (asimmetria informativa) garantendo un maggior flusso informativo per i consumatori non considera tutti i fattori che determinano le scelte di consumo e che comprendono tra l’altro norme e regole sociali, abitudini, fattori culturali, l’immagine pubblica di sé. È stato poi dimostrato come l’incremento di sensibilità verso i temi ambientali influenzi le attitudini dei consumatori ma questo non si traduce in sostanziali modifiche nei comportamenti poiché altri fattori concorrono a determinarne le scelte effettive. Nel caso dei prodotti biologici, ad esempio, Padel e Foster (2005) hanno verificato l’esistenza di un gap tra le attitudini dei consumatori verso i prodotti biologici e il relativo comportamento di acquisto, più basso di quanto atteso a causa del prezzo elevato e della difficoltà di reperimento dei prodotti.
Sono quindi necessari approcci politici più sofisticati rispetto alle sole azioni informative, secondo strategie concertate che, tra l’altro: facilitino le condizioni di contesto per un cambiamento negli stili di consumo, rendendo più agevole l’adozione di nuovi comportamenti; coinvolgano i protagonisti del consumo (aziende, istituzioni, privati cittadini) in iniziative congiunte e finalizzate; stimolino comportamenti virtuosi anche mediante emulazione di pratiche adottate dalle stesse istituzioni (es. utilizzo di prodotti biologici nelle mense pubbliche, pratiche a favore dell’ambiente e delle relazioni nei luoghi di lavoro) (Jackson, 2005; Commissione Europea, 2012).
Un elemento utile deriva dallo stretto legame tra comportamenti individuali e contesto sociale che richiama l’importanza dei beni relazionali - e dunque delle comunità - per promuovere comportamenti più sostenibili, attraverso l’apprendimento sociale, il problem-solving partecipativo e il superamento degli automatismi (abitudini, routine) tramite il confronto sociale; come avviene nei seeds of change2 (Seyfang, 2009), espressione di rifiuto delle pratiche tradizionali e di manifestazione di valori diversi che si rivelano attraverso stili di consumo (e di vita) difformi, potenzialmente in grado di contaminare il sistema di riferimento. Rientrano tra i ‘semi’ del cambiamento le pratiche di consumo (alimentare) sostenibile adottate a livello locale, fenomeno in crescita che interessa comunità e aree metropolitane, dove i protagonisti della produzione e del consumo, congiuntamente alle istituzioni, modellano nuove idee secondo visioni e conoscenze condivise, rovesciando usi e canoni consolidati.
Gli esempi al riguardo sono numerosi e di diversa complessità e grado di sostenibilità. Nelle esperienze di filiera corta il rapporto diretto e reciprocamente vantaggioso tra produttore e consumatore urbano assume forme diverse in relazione all’organizzazione e ai contesti (AA.VV., 2013) in cui si realizzano, tra l’altro, mercati contadini, spacci aziendali, box schemes, organizzazioni di consumatori che fanno capo ai Gruppi di Acquisto Solidale o alle Reti e ai Distretti di economia solidale. La letteratura in tema è copiosa e testimonia per questi modelli un percorso evolutivo che ha prodotto più recentemente esperienze diverse, di più ampio respiro, che si estendono ad altre componenti del sistema alimentare coinvolgendo quindi una più estesa platea di attori. È in particolare il riconoscimento della rilevanza che assumono questi nuovi modelli per le ‘città sostenibili’ a determinare il cambiamento e a richiedere una rilettura del sistema agroalimentare urbano che cerca, attraverso la pianificazione e la governance condivisa, di diventare strumento di sostenibilità. Nascono così il Piano del cibo di Pisa (Di Iacovo et al., 2013) e le strategie alimentari urbane di altre città italiane (Torino, Milano), su modello delle urban food policies del mondo anglosassone (Morgan, 2009), dove si rafforza il legame tra agricoltura, cibo e aree metropolitane3, ma dove entrano in gioco molte altre componenti. I risultati di una recente consultazione pubblica finalizzata a identificare la food policy di Milano ha permesso di identificare dieci questioni nodali4 che, per un verso, sono espressione delle principali tematiche legate al cibo nel contesto specifico e, per un altro, individuano gli ambiti istituzionali di intervento, rimarcando così la responsabilità dei singoli attori ma sempre in una rappresentazione di sistema dove ricercare integrazioni e sinergie tra gli interventi; il cibo diventa cioè l’elemento unificante di politiche di origine diversa (agricola, territoriale, salute, commerciale, ecc.).

I segnali di cambiamento nei recenti orientamenti dell’UE

La centralità politica del biologico nella dimensione comunitaria è testimoniata dall’attenzione che il settore ha concentrato su di sé, sia con riferimento alle più ampie azioni di intervento indirizzate all’agricoltura attraverso la Pac, che in relazione alle norme quadro specificamente indirizzate al bio. Sebbene il sostegno attuato tramite la Pac sia stato fortemente ancorato all’idea di favorire lo sviluppo dal lato dell’offerta, dall’analisi dei più recenti documenti di riflessione adottati dall’UE sui futuri indirizzi per le politiche destinate al comparto biologico e al consumo sostenibile, si rinvengono segnali di un processo di rafforzamento della domanda.
All’interno del “Piano d’azione per il futuro della produzione biologica nell’Unione europea” (Com(2014) 179), un ruolo strategico in tal senso è riconosciuto alla Pac recentemente riformata, dove il comparto trova forme di sostegno talmente articolate da spingere la stessa Commissione ad attivare specifiche misure di informazione a vantaggio non solo degli operatori, ma anche dei consumatori. In questa direzione, il logo reso obbligatorio nel 2012 viene confermato come lo strumento principe, sebbene si sottolinei l’opportunità di monitorarne l’efficacia nel tempo, attraverso il ricorso a indagini volte a misurare il livello di fiducia dei consumatori. Sono considerate altresì azioni primarie la formazione per i più giovani e il potenziamento della comunicazione e dell’informazione, quest’ultimo anche per aumentare l’uso dei prodotti biologici all’interno degli appalti pubblici attraverso lo sviluppo di materiali informativi finalizzati a rendere più sensibili le pubbliche amministrazioni in merito ai requisiti di sostenibilità dei prodotti richiesti.
Ulteriori azioni sono poi previste per aumentare la fiducia dei consumatori, intervenendo sul sistema di certificazione, sull’informazione relativa ai prodotti di importazione, per l’istituzione di un meccanismo di tracciabilità, per prevenire frodi e violazioni.
Il rilancio del tema della produzione e del consumo sostenibili è stato affrontato anche dalla Direzione generale Ambiente della Commissione UE, che ha avviato una consultazione pubblica su “Delivering more Sustainable Consumption and Production” (2012), tramite la quale sono emersi suggerimenti e indirizzi di intervento con riferimento a quattro aree tematiche: Consumo e produzione sostenibili, Acquisti verdi della pubblica amministrazione, Impronta ambientale dei prodotti e Impronta ambientale dell’organizzazione.
Con riferimento al consumo sostenibile, anche in questo caso è emersa l’esigenza di un più ampio ricorso a tipologie di strumenti già utilizzati, tra cui: una più decisa armonizzazione degli strumenti regolatori esistenti; il ricorso a un sistema più articolato di incentivi, anche sotto forma di riduzione del livello di tassazione per i prodotti a maggiore sostenibilità; la diffusione di buone prassi e di codici di condotta per la comunicazione verso i consumatori.
La lettura congiunta dei due documenti – per quanto differenti per natura e funzione, oltre che per dimensione delle tematiche affrontate –, pone in evidenza alcuni elementi comuni che forniscono indicazioni sulle possibili future evoluzioni delle politiche a favore della domanda di prodotti ad elevato grado di sostenibilità, tra cui quelli biologici.
In primo luogo, si rileva come sia opinione diffusa la necessità di approfondire alcuni percorsi già intrapresi, tra i quali il rafforzamento dell’uso e della credibilità dei loghi che certificano l’adesione a processi produttivi “sostenibili”, la cui adozione e diffusione non sembra avere ancora realizzato tutti gli effetti attesi. A fianco di questo tema, un aspetto considerato prioritario riguarda la determinazione del livello di sostenibilità dei prodotti. In questa direzione, contributi rilevanti possono provenire dal sostegno ad attività di ricerca e sperimentazione, pubbliche e private, finalizzate alla definizione di metodologie condivise e standardizzate, adottabili su larga scala.
Analogamente, risultano deboli i risultati fin qui raggiunti attraverso le pur numerose attività a carattere formativo e informativo, ponendo in luce l’esigenza di una loro migliore programmazione, quanto meno con riferimento alla definizione degli obiettivi perseguiti, alla determinazione degli strumenti impiegati e alla identificazione dei destinatari finali. Anche in questo caso si pone in evidenza la necessità di adottare una sorta di processo continuo, che non può esaurirsi in un periodo limitato di tempo e che necessita di azioni in grado di rendere agevoli l’adozione di pratiche e di comportamenti sostenibili, nonché facilitare la partecipazione alle molte misure previste, nell’ottica di evitare una dispersione degli sforzi intrapresi.
Per il futuro, elevate sono le aspettative sul contributo che potrebbe derivare dall’inserimento dei requisiti “verdi” all’interno degli appalti pubblici. In questa direzione gli sforzi da mettere in campo sono ampi, poiché le procedure previste necessitano di una notevole opera di armonizzazione, prima di poter assumere la veste di una politica comunitaria. Infatti, l’introduzione di vincoli di sostenibilità all’interno di queste procedure richiede un complesso lavoro preparatorio che, tra l’altro, contempli la definizione delle procedure, la determinazione dei criteri minimi richiesti, l’individuazione di percorsi metodologici per la misurazione delle performance, la realizzazione di azioni informative indirizzate alle imprese e alle pubbliche amministrazioni.

Conclusioni

Le politiche pubbliche volte a stimolare la domanda di prodotti biologici hanno privilegiato fino ad oggi misure di comunicazione e di educazione, seguendo il tracciato più generale delle politiche per il consumo sostenibile. Sebbene giustificata dalla necessità di sensibilizzare una figura centrale come quella del consumatore, tale strategia non sempre produce gli effetti attesi poiché non comporta significativi cambiamenti nei comportamenti di acquisto. Sono in tal senso da mettere in campo interventi più incisivi, ricercando, tra l’altro, una maggiore semplicità per un messaggio specifico, indirizzato a categorie definite di consumatori, e utilizzando la leva della comunicazione come apripista per successivi e più marcati interventi.
In ogni caso, sono da privilegiarsi approcci integrati tra i diversi strumenti, stabilendo un obiettivo da raggiungere (ad esempio, in termini di aumento di quota di alimenti sostenibili consumati) e una roadmap coerente con altre agende politiche e tenendo presente che gli strumenti regolatori possono essere particolarmente efficaci per contrastare comportamenti di consumo non sostenibile (Commissione Europea, 2012). Nella definizione degli obiettivi e, più in generale, nel processo di progettazione e attuazione delle politiche è poi necessario il coinvolgimento dei protagonisti del consumo (aziende, istituzioni, privati cittadini), con particolare riferimento al mondo della distribuzione.
La definizione di politiche di tale profilo può essere favorita a livello locale, dove sono già in atto esperienze di consumo sostenibile che possono rappresentare per il biologico un’opportunità interessante, con il consolidamento di un rapporto solo in parte avviato ma che richiede il pieno riconoscimento del potenziale ruolo che i prodotti biologici possono avere nelle diete sostenibili. D’altronde, questo metodo produttivo è in linea con gli obiettivi dei movimenti del consumo sostenibile, grazie ai suoi stessi principi fondanti che in questi nuovi scenari vanno però ulteriormente rafforzati per garantire l’identità dei prodotti.
Per quanto attiene agli strumenti, sarebbe opportuno che, parallelamente all’implementazione di un nuovo Piano d’azione nazionale che fissi gli obiettivi generali e un’agenda nazionale, fossero previsti analoghi piani d’azione regionali, coordinati e coerenti rispetto al primo, dove si definiscano gli interventi sul territorio tenendo conto delle opportunità e dei vincoli specifici del contesto.

Riferimenti bibliografici

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  • 1. Il sistema di etichettatura nutrizionale “a semaforo”, voluta da alcuni paesi del nord Europa, ha trovato l’opposizione di molti paesi, tra cui l’Italia, preoccupata dell’impatto che questo tipo di etichetta può avere sull’esportazione di eccellenze alimentari ad alto contenuto calorico come, ad esempio, i formaggi Dop.
  • 2. L’espressione si riferisce a sistemi alternativi di fornitura e a istituzioni sociali che rifiutano l'imperativo corrente della crescita economica con l’espansione continua dei consumi e perseguono modelli di ‘sufficienza’. Si tratta perlopiù di iniziative che prendono avvio ‘dal basso’, che si alimentano dell’azione comunitaria e che sono suscettibili di replicazione in altri contesti, di aumento di scala e di pervadere il sistema dominante. Iniziative alimentari locali, edilizia a basso impatto, sistemi monetari comunitari sono tra le realizzazioni di tali modelli di consumo sostenibile. (Seyfang, 2009)
  • 3. Un altro modello di consumo sostenibile locale è rappresentato dalle Transition Towns, dove si lavora per “creare comunità libere dalla dipendenza dal petrolio e fortemente resilienti attraverso la ripianificazione energetica e la rilocalizzazione delle risorse di base della comunità (produzione del cibo, dei beni e dei servizi fondamentali)” [link].
  • 4. Governance, educazione, sprechi, accesso, benessere, ambiente, agroecosistema, produzione, finanza, commercio.
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