La resilienza all'insicurezza alimentare

La resilienza all'insicurezza alimentare
a Università di Firenze, Dipartimento di Scienze per l’economia e l’Impresa
b ESA Division, Food and Agriculture Organization (Fao), Roma

Introduzione

“Avere resilienza” ed “essere resilienti” sono espressioni entrate prepotentemente nel recente dibattito politico nei campi più disparati1. Ciò è da mettere in relazione alla crescita dei rischi cui famiglie, imprese, economie, sistemi istituzionali e finanche interi Paesi sono stati sottoposti negli ultimi anni.
In termini molto generali, la resilienza designa la capacità di un sistema di far fronte agli shock, cioè l’abilità del sistema di continuare a svolgere le proprie funzioni in un mondo caratterizzato da rischi e incertezze. Si tratta di un concetto che, nato originariamente nella teoria generale dei sistemi, è stato poi utilizzato in diversi campi, come l’ecologia, l’ingegneria, la psicologia e l’epidemiologia. Negli ultimi 10-15 anni esso ha cominciato ad essere utilizzato anche nelle scienze sociali e, in particolare, nell’analisi dei sistemi complessi come i sistemi socio-ecologici, cioè sistemi in cui la componente ecologica e quella socio-economica sono fortemente integrate2. Più recentemente, alcuni studiosi e diverse organizzazioni internazionali (Fao, Unicef, Wfp, 2012; EU Commission, 2012) hanno proposto di utilizzare la resilienza per l’analisi della sicurezza alimentare e nutrizionale.
L’obiettivo di questo lavoro è cercare di chiarire alcuni aspetti dell’uso del concetto di resilienza per l’analisi della sicurezza alimentare3, rispondendo ad alcune domande:

  • perché dovremmo occuparci della resilienza all’insicurezza alimentare;
  • in cosa si differenzia la resilienza rispetto ad altri concetti già utilizzati per l’analisi della sicurezza alimentare;
  • come si misura la resilienza all’insicurezza alimentare.

La struttura di questo contributo ricalca l’articolazione di tali domande, per poi fornire un esempio di come può essere effettuata l’analisi. Infine, nelle considerazioni conclusive, verranno brevemente discusse alcune implicazioni politiche.

Perché occuparsi di resilienza all’insicurezza alimentare

Buona parte dell’interesse pratico verso il tema della sicurezza alimentare è legata alla possibilità di riuscire a predire in maniera sempre più accurata l’insorgenza di una crisi alimentare in modo da poterla prevenire. L’enfasi della ricerca si è pertanto concentrata sul miglioramento di sistemi di allerta precoce (early warning) che consentono di prevedere l’insorgere di una crisi sulla base di cambiamenti che si manifestano in particolari indicatori.
Viceversa, la resilienza fornisce un quadro interpretativo per comprendere quale è la migliore combinazione di strategie di breve e lungo periodo per far sì che le persone non ricadano nell’area della povertà o dell’insicurezza alimentare. L’analisi della resilienza è interessata a capire quali sono le determinanti della vulnerabilità, quali le strategie adottate per sopravvivere e come tali strategie vengono modificate per ridurre gli impatti di shock futuri.
In altri termini, l’analisi di resilienza non rappresenta un approccio alternativo all’analisi di vulnerabilità (vedi oltre) e ai sistemi di allerta precoce, ma piuttosto un approccio ad essi complementare. Mentre l’approccio della vulnerabilità cerca di predire l’insorgenza di una crisi, l’approccio della resilienza cerca di valutare quale è lo stato di salute di un sistema (la famiglia, una comunità, un settore economico, un sistema economico, ecc.) e quindi la sua capacità di far fronte agli shock nel caso questi si manifestino. Inoltre, l’analisi della resilienza riconosce che la maggior parte dei sistemi in cui vivono le attuali società sono sistemi complessi. Ciò rende meno accurata la capacità predittiva dei modelli, minando l’efficacia degli approcci basati sulle previsioni. Un’alternativa potrebbe essere puntare al mantenimento della capacità del sistema di affrontare eventuali shock futuri, cosa che può essere fatta migliorando la resilienza del sistema.
Ciò è particolarmente rilevante se si considera il complesso di rischi cui sono sottoposti gli individui più vulnerabili e gli strati più poveri della popolazione, soprattutto nei paesi meno sviluppati: shock economici (volatilità dei prezzi e crisi finanziarie), ambientali (cambiamento climatico e disastri naturali), sociali e politici (conflitti, violenze, mancanza dello stato di diritto). I dati mostrano, infatti, che alcuni di questi shock sono diventati più frequenti e/o più severi negli ultimi anni. I prezzi dei beni alimentari sono diventati quasi tre volte più volatili a partire dal 2007-08 rispetto al periodo precedente e il livello di tali prezzi dopo il 2007-08 è mediamente più elevato di quello del periodo precedente, determinando un significativo aumento della povertà e dell’insicurezza alimentare (Fao, 2011). La crisi economica del 2008-09 ha causato un aumento di quasi 100 milioni di sottonutriti (Fao, 2009a). Il cambiamento climatico è una realtà (World Bank, 2009; Ipcc, 2013) che farà diminuire in maniera significativa le produzioni di riso, grano e mais nei prossimi decenni, con un probabile aumento di sottonutriti e malnutriti (Wheeler e von Braun, 2013; Lloyd et al., 2011). In alcune aree tropicali le alluvioni aumenteranno (Westra et al., 2013), così come la frequenza e l’intensità degli uragani a causa del riscaldamento globale (Webster et al. 2005). Circa 1,5 miliardi di persone vivono in aree soggette a conflitti (World Bank 2011), con un numero di rifugiati pari a circa di 10 milioni, mentre gli sfollati (internally displaced) sono circa 17 milioni (cioè, più di un terzo rispetto al 2007) (Unhcr, 2012). Tutto lascia prevedere che tale tendenza continuerà anche nei prossimi decenni, mettendo sotto pressione le disponibilità alimentari dei paesi in via di sviluppo, con un impatto notevole sulla sicurezza alimentare e nutrizionale dei soggetti più vulnerabili (Zseleczky and Yosef, 2014).

Cos’è la resilienza all’insicurezza alimentare

Alinovi et al. (2008: 300) definiscono la resilienza come “la capacità di una famiglia di mantenere un certo livello di benessere (p.e. la sicurezza alimentare) pur in presenza di shock e stress e di riorganizzarsi in modo che possa continuare a svolgere le stesse funzioni, mantenendo la medesima struttura e identità”. Più recentemente, il Technical Working Group sulla Misurazione della resilienza (Fsin, 2013: 6) definisce la resilienza come “la capacità che consente di non avere conseguenze avverse di lunga durata a causa di shock e stress negativi”.
Da queste definizioni emerge che la resilienza presenta due caratteristiche importanti, che sono fondamentali per differenziare tale concetto da altri simili e per la sua misurazione (vedi oltre):

  • capacità da parte dei soggetti di promuovere azioni ex ante o ex post per contrastare gli effetti negativi di uno shock: la resilienza mette l’enfasi sulle azioni che consentono all’agente oggetto dell’analisi (sia esso un individuo, una famiglia, una comunità, ecc.) di aumentare la possibilità di assorbire uno shock, di adattarsi ai cambiamenti o, addirittura, di modificare le proprie strategie di sopravvivenza pur di continuare a mantenere un livello di benessere soddisfacente;
  • il lungo periodo come orizzonte di riferimento su cui valutare gli impatti di uno shock: l’analisi di resilienza non è interessata a modificazioni temporanee di un certo indicatore di benessere (reddito, consumo o assunzioni alimentari), ma alle modificazioni che mostrano una certa persistenza nel tempo4. È evidente, quindi, come esista un’asimmetria tra vulnerabilità (che prende in considerazione la probabilità di ricadere in una certa condizione non desiderabile – povertà, insicurezza alimentare – a prescindere se tale condizione si verifica temporaneamente o in maniera persistente) e resilienza. In altri termini, mentre l’assenza di vulnerabilità implica la resilienza, la vulnerabilità non necessariamente implica la mancanza di resilienza.

Nell’ambito della letteratura sulla gestione del rischio esistono un paio di concetti - stabilità e vulnerabilità - che sono collegati al concetto di resilienza, ma non hanno il suo stesso significato. Il concetto di stabilità si riferisce alla capacità di un sistema di ritornare a una posizione di equilibrio se esso viene disturbato (Holling, 1973). Tuttavia, rigidi meccanismi di controllo che puntano a una maggiore stabilità potrebbero erodere la resilienza e facilitare il collasso del sistema: essi potrebbero distruggere un’organizzazione flessibile o rimuovere meccanismi di risposta creativa/adattativa, con conseguenze negative in termini di benessere.
La vulnerabilità è un concetto ex ante che misura la probabilità di ricadere in futuro in una condizione non desiderabile dal punto di vista del benessere, ad esempio l’insicurezza alimentare o la povertà. Essa dipende dalle opzioni (livelihood strategies) che gli individui hanno a disposizione e dalla loro capacità di trattare i rischi con cui essi si confrontano, oltre che dalla loro esposizione al rischio (Dercon, 2001). Le prime due componenti largamente determinano la resilienza e, quindi, la vulnerabilità dipende dall’esposizione al rischio e dalla resilienza agli shock. Quando un sistema perde resilienza diventa vulnerabile a shock che in precedenza sarebbero stati assorbiti. Inoltre, in un sistema resiliente i cambiamenti presentano delle potenzialità per creare opportunità di sviluppo e di innovazione.
In sintesi, benché i concetti di stabilità e vulnerabilità abbiano dei punti di contatto con il concetto di resilienza, essi sono sostanzialmente differenti. L’interesse per la stabilità e la vulnerabilità come concetti-guida nell’analisi di un ambiente instabile/rischioso è limitato perché essi si concentrano esclusivamente sulle conseguenze negative di una crisi. In altri termini, essi guardano alla suscettibilità ad un eventuale danno, piuttosto che ai meccanismi utilizzati dagli individui per adattarsi alle nuove condizioni generate dalla crisi e, possibilmente, per migliorare il proprio livello di benessere.

Come si misura la resilienza all’insicurezza alimentare

Considerazioni generali

Prima di cominciare qualunque analisi è necessario definire l’oggetto dell’analisi stessa, le cui caratteristiche avranno poi importanti implicazioni per la misurazione. Noi siamo interessati all’analisi della sicurezza alimentare, che è un concetto multi-dimensionale (economico, sociale, istituzionale, tecnologico e culturale), che può essere declinato a differenti scale (globale, nazionale, locale) e che evolve nel corso del tempo (sia perché cambiano le condizioni al contorno, sia perché si modificano le preferenze degli individui). Da ciò deriva che per analizzare la sicurezza alimentare è necessario un approccio olistico (sistemico), cioè che consideri tutte le dimensioni della sicurezza alimentare, identificando la scala più appropriata a cui effettuare l’analisi in funzione dello specifico obiettivo della ricerca e adottando una struttura analitica di tipo dinamico, che consenta cioè di misurare come il fenomeno si modifica nel corso del tempo.
La resilienza è un concetto perfettamente adatto a questa struttura analitica, essendo un concetto che ha senso solo se applicato a un contesto sistemico e in un’analisi dinamica (cfr. Folke, 2006). Essa, inoltre, può essere declinata a diverse scale. Quest’ultimo aspetto è estremamente importante perché la scala di riferimento definisce contemporaneamente:

  • il sistema oggetto di studio
  • la variabile che misura lo stato del sistema
  • la variabili che influenzano tale stato.

In buona sostanza, la struttura analitica più generale possibile può essere immaginata come una relazione tra la variabile dipendente, Y, che indica lo stato del sistema, e le variabili indipendenti, Xi, (i = 1, …, n) che influenzano tale stato:
(1)
Il sistema oggetto di studio varia a seconda della scala di analisi, che può essere globale (mondo, regione geografica), nazionale (Paese, settore) o locale (comunità, famiglia). In funzione del sistema, cambia la variabile che indica lo “stato di salute” del sistema: ad esempio, se stessimo analizzando la sicurezza alimentare a livello di Paese, l’indicatore potrebbe essere la disponibilità media pro-capite dei cittadini di quel Paese, individuata attraverso i bilanci alimentari nazionali (food balance sheet), mentre se stessimo analizzando una famiglia, l’indicatore potrebbero essere le assunzioni alimentari (food caloric intake) o un qualche altro indice nutrizionale (food consupmtion score, household dietary diversity score).
Almeno da Sen (1981) in poi, l’interesse della maggior parte degli studiosi è per analisi al livello più disaggregato possibile. In questo quadro, il sistema di riferimento per l’analisi è la famiglia, perché è a questo livello che viene presa la maggior parte delle decisioni riguardanti la sicurezza alimentare. Inoltre, la famiglia è essa stessa un sistema, che risponde come un insieme agli stimoli esterni, individuando le più adatte strategie di sopravvivenza: come ottenere i mezzi per vivere, come e dove investire/disinvestire, come gestire eventuali crisi, ecc. Quindi, è la famiglia l’oggetto del nostro lavoro e i dati necessari per l’analisi devono essere a livello familiare.
Dov’è la resilienza nella relazione (1)? La nostra ipotesi di lavoro è che ci sono alcune caratteristiche (interne alla famiglia o di contesto) che rendono una famiglia più resiliente di un’altra allo stesso shock. Quindi, si tratta di individuare quali sono le determinanti di questa “capacità” di resilienza, in simboli: (2)
dove le variabili da 1 a m determinano la resilienza, che ha un impatto sulla variabile Y che indica lo stato del sistema oggetto di studio (ad es. la sicurezza alimentare), e quelle da + 1 a n sono altre variabili che hanno un’influenza su Y, pur non influenzando la resilienza, R.
Il problema è, quindi, come misurare tale “capacità” (indice di resilienza, R) e come stimare la relazione (2), che collega l’indice di resilienza e le altre determinanti alla variabile dipendente che descrive lo stato dei componenti della famiglia in termini di sicurezza alimentare.

Misurazione dell’indice di resilienza

La resilienza in quanto capacità non è direttamente osservabile e, quindi, può essere misurata solo indirettamente. Al riguardo va sottolineato che alcuni approcci lasciano separati i vari fattori che determinano la resilienza, altri invece li aggregano al fine di avere un singolo indice di resilienza. Nel primo caso, Maxwell et al. (2013) utilizzano sette variabili per rappresentare la resilienza, mentre Barrett e Constas (2014) mettono in evidenza le capacità di assorbimento, adattamento e trasformazione come indicatori di resilienza. Nel secondo caso, la resilienza viene misurata come variabile latente, il cui comportamento è influenzato da una serie di variabili che possono essere invece osservate. In particolare Alinovi et al. (2010)5 utilizzano un approccio a due stadi: dapprima sono stimate sei dimensioni della resilienza (reddito, asset produttivi e non, accesso ai servizi di base, reti di solidarietà/sicurezza sociale, sensibilità agli shock, capacità di adattamento) come variabili latenti individuate a partire da un insieme di variabili elementari osservabili; successivamente, la combinazione di queste sei dimensioni serve a stimare l’indice di resilienza, ottenuto anch’esso come variabile latente.
Esistono diversi modelli statistici/econometrici che possono essere utilizzati per passare da un certo numero di variabili elementari osservabili a un indice di resilienza, come l’analisi delle componenti principali, l’analisi fattoriale (Alinovi et al., 2008 e 2010) e i modelli di equazioni strutturali (structural equation models) (d’Errico et al., 2014, 2015a, 2015b).
I dati necessari per ottenere le variabili elementari possono essere raccolti attraverso approcci qualitativi e quantitativi. Con i metodi qualitativi i dati vengono raccolti per mezzo di consultazioni di gruppo con i soggetti interessati e/o persone informate sulla realtà studiata (focus group, interviste semi-strutturate). Nell’approccio quantitativo i dati sono raccolti tramite questionari a livello individuale e familiare, su un campione statisticamente rappresentativo della popolazione studiata. Un’integrazione tra i due metodi, il cosiddetto mixed-method approach (d’Errico et al., 2014) è probabilmente la soluzione migliore, che integra la rappresentatività statistica dei metodi quantitativi con la flessibilità e la capacità di cogliere anche aspetti non quantificabili, propri degli approcci qualitativi.
Nelle applicazioni condotte finora, la struttura dei dati è stata sia di tipo trasversale (cross-section), che longitudinale (panel). Nel primo caso, l’analisi è necessariamente statica, non è possibile una modellizzazione dinamica e neanche effettuare proiezioni future. L’analisi attraverso i dati cross-section si limita a dare una fotografia della situazione esistente del livello e della struttura della resilienza di una famiglia o comunità. Con dati panel (osservazioni ripetute nel tempo sugli stessi soggetti) è possibile effettuare una vera analisi di tipo dinamico, stimando come si è evoluta la resilienza nel corso del tempo (crescita o riduzione) ed evidenziando quali fattori incidono maggiormente sulla variazione della resilienza. Una soluzione intermedia è l’utilizzo dei synthetic panel, seguendo un nuovo approccio che mette in relazione due cross-section accorpando coorti delle distribuzioni con caratteristiche simili6.

Il collegamento tra resilienza e sicurezza alimentare

Una volta calcolato l’indice di resilienza, se si dispone di dati panel, possono essere adottate tecniche econometriche per stimare una relazione come la (2):  (3)
dove la variazione della variabile di stato (consumo alimentare pro-capite della famiglia h) tra t e t + 1 è funzione della resilienza (R) al momento t, degli shock sistemici (S) e idiosincratici (I) intervenuti tra t e t + 1, delle strategie di sopravvivenza della famiglia (Liv), di caratteristiche che variano nel corso del tempo (X) o che non variano con il tempo (Z) e dell’errore casuale.

Alcuni recenti risultati

Misurazione dell’indice di resilienza

In questa sezione presentiamo alcuni esempi di stima quantitativa dell’indice di resilienza, facendo riferimento dapprima al metodo di stima utilizzato dalla Fao, che usa l’analisi fattoriale per la stima dell’indice di resilienza, e poi all’approccio structural equation model (Sem), che ne rappresenta un’evoluzione.
Il modello Fao (Alinovi et al., 2008; Alinovi et al., 2010; Ciani e Romano, 2011; Fao, 2013) è un modello a due stadi, in ciascuno dei quali l’analisi fattoriale viene utilizzata per stimare delle variabili latenti (figura 1): nel primo stadio sono utilizzate delle variabili elementari osservabili per stimare quelle che sono definite dagli autori “dimensioni” della resilienza (tabella 1) e nel secondo si stima il vero e proprio indice di resilienza a partire da tali dimensioni. I risultati, che si riferiscono al caso di studio dell’impatto dell’uragano Mitch sulla sicurezza alimentare di famiglie rurali in Nicaragua (yab. 2) mostrano che le dimensioni sono tutte statisticamente significative e positivamente correlate con l’indice di resilienza (segno positivo).

Figura 1 - Metodo di stima dell’indice di resilienza come variabile latente attraverso l’analisi fattoriale

Fonte: Ciani e Romano, 2011
 

Tabella 1 - Variabili osservabili e dimensioni usate per il calcolo dell’indice di resilienza, Nicaragua


Fonte: Ciani e Romano, 2011
 

Tabella 2 Factor loadings delle dimensioni della resilienza, Nicaragua

La figura 2 rappresenta, invece, la logica del modello Sem (d’Errico e Pietrelli, 2014; d’Errico et al., 2015a, 2015b). Come nel caso dell’analisi fattoriale, anche il Sem parte da variabili elementari osservabili e stima le relazioni esistenti con le variabili latenti e le correlazioni tra ognuna di queste variabili, ma, a differenza dell’analisi fattoriale, i modelli di equazioni strutturali prendono in considerazione anche la correlazione tra gli errori residuali. In questa maniera è possibile individuare statisticamente il modello che più si avvicina alla reale struttura di relazioni che esiste tra le variabili. L’indice di resilienza è quindi stimato come combinazione (lineare) dei fattori principali che spiegano queste relazioni.

Figura 2 - Metodo di stima dell’indice di resilienza come variabile latente attraverso il modello delle equazioni strutturali

La tabella 3 riporta le stime per il caso dell’Uganda (d’Errico et al., 2015a), da cui si evince il ruolo primario giocato dall’accesso alle infrastrutture. Anche l’istruzione gioca un ruolo rilevante, mentre l’influenza sulla resilienza dell’accesso ai servizi di base e alla terra è meno importante. Possesso di bestiame e asset hanno un impatto irrilevante, mentre le reti di sicurezza sociale non sono statisticamente significative.

Tabella 3 - Stima dell’importanza delle varie dimensioni dell’indice di resilienza, Uganda


Il collegamento tra resilienza e sicurezza alimentareFonte: d’Errico et al. (2015a)

I risultati delle analisi dinamiche di resilienza su Nicaragua (Ciani e Romano, 2011), Mali (d'Errico e Pietrelli, 2014), Burkina Faso (d'Errico et al., 2015) e Uganda (d'Errico et al., 2015) mostrano che l’indice di resilienza è un valido predittore del consumo alimentare pro-capite.
Ad esempio, nell’analisi sul Mali (tabella 4), l’indice di resilienza, stimato in una cross-section, si dimostra un valido predittore per la spesa pro-capite.

Tabella 4 - Stima della sicurezza alimentare, cross-section, Mali

Errori standard in parentesi 
***p<0,01, **p<0,05, *p<0,1

L’adozione di panel data ovviamente migliora la qualità dell’analisi e le sue potenzialità, come mostrato dal caso di studio dell’Uganda (tabella 5). In questo esempio è chiaro l’effetto che la resilienza può avere sulla differenza tra il consumo al tempo t-1 e quello al tempo t, oltre che l’effetto negativo degli shock sulla spesa pro-capite.

Tabella 5 - Stima della sicurezza alimentare, panel data, Uganda

Errori standard in parentesi 
***p<0,01, **p<0,05, *p<0,1

Uso dell’indice di resilienza

L’indice di resilienza può essere utilizzato per due scopi: il targeting e la valutazione di impatto delle politiche sociali adottate.
Un esempio interessante, che mette in evidenza le differenze in termini di resilienza per genere del capofamiglia, è un’analisi in Niger svolta dalla Fao e dalla Banca Mondiale nel 2014 (Zezza e d’Errico 2014). Il grafico radar (figura 3) riporta le correlazioni tra la resilienza e le sei dimensioni con cui è calcolata - reddito e accesso al cibo (Ifa), accesso ai servizi di base (Abs), asset (Ast), reti di sicurezza sociale (Ssn), sensibilità agli shock (S), capacità adattativa (AC) - mentre la distanza dal centro indica il valore della correlazione. Differenze tra i tracciati sono interpretate come una differente struttura di resilienza: è chiaro come la struttura della resilienza per le due tipologie di famiglie differisca per Abs, S, AC e Ssn. Queste differenze rappresentano interessanti informazioni per effettuare interventi mirati (targeting) al fine di migliorare la resilienza dei diversi gruppi, in questo caso tra famiglie il cui capofamiglia è donna rispetto a quelle con capofamiglia maschio.

Figura 3 - Differenze delle dimensioni della resilienza sulla base del genere del capofamiglia, Niger


Fonte: Fao 2014

L’altro utilizzo dell’indice di resilienza è come indicatore di impatto delle politiche o di un dato progetto/programma. In pratica, l’indice di resilienza viene stimato prima che l’intervento sia implementato e dopo che l’intervento è stato effettuato. Quindi, l’indice di resilienza post-intervento viene confrontato con un controfattuale identificato sulla base delle caratteristiche della popolazione di intervento iniziale (matching) per verificare se l’intervento ha avuto un impatto. Un esempio di tale utilizzo, con riferimento alla Palestina, è riportato in figura 4, da cui si evince che l’impatto del progetto in esame è stato positivo, dato che l’incremento di resilienza nella popolazione dei beneficiari è maggiore di quello della popolazione di controllo.

Figura 4 - Differenze tra beneficiari e non-beneficiari, prima e dopo l’intervento, Palestina


Fonte, Fao, 2009b

Considerazioni conclusive

Negli ultimi anni, il concetto di resilienza si è imposto all’attenzione degli addetti ai lavori e della politica come uno dei più promettenti concetti guida per orientare gli interventi di sviluppo in un mondo in cui rischi e incertezze aumentano sempre più. Benché la sua applicazione sia relativamente nuova nelle scienze sociali, e in particolare nell’analisi della sicurezza alimentare, abbiamo cercato di mostrare come essa possa essere un valido complemento degli approcci basati sull’analisi della vulnerabilità. I risultati delle poche applicazioni empiriche condotte finora sembrano essere incoraggianti e consentono di trarre alcune implicazioni politiche che, per quanto non definitive, permettono di individuare alcuni principi di base che possono rivelarsi utili nel disegno di interventi orientati a salvaguardare/rafforzare la resilienza nei sistemi agro-alimentari in generale e in particolare la resilienza all’insicurezza alimentare. Al riguardo, le parole chiave sono (Petschel-Held e Lasco, 2005):

  • integrazione: interventi singoli, che puntino a risolvere un singolo problema, non rappresentano che soluzioni parziali e sono raramente un fattore di successo nel lungo periodo se si interviene in sistemi complessi come i sistemi agro-alimentari. Gli interventi devono invece considerare una pluralità di obiettivi e/o settori, cioè devono essere integrati;
  • flessibilità: gli interventi dovrebbero essere disegnati in modo tale da permettere l’evoluzione delle regole che governano il sistema, dato che le variabili socio-economiche e ambientali si modificano nel corso del tempo. Inoltre, gli interventi dovrebbero essere capaci di tener conto anche dell’incertezza attraverso una gestione adattativa;
  • governance: una governance efficace, caratterizzata cioè da competenza e integrità degli attori coinvolti, è essenziale per il successo degli interventi. Pertanto, una precondizione necessaria a qualsiasi intervento è avere una buona infrastruttura istituzionale.

L’adozione della resilienza come criterio per il disegno degli interventi implica spostare l’accento da politiche che cercano di controllare il cambiamento in sistemi assunti come stabili, verso la gestione della capacità del sistema di assorbire gli shock, adattarsi ai cambiamenti e trasformarsi per cogliere le opportunità implicite nei cambiamenti. Le politiche che permettono il mantenimento o il miglioramento della resilienza sono politiche che monitorano le variabili chiave dei sistemi agro-alimentari, promuovono la diversità ecologica, economica e culturale e permettono l’accumulazione dei diversi tipi di capitale (naturale, umano, sociale, finanziario e fisico).
Molti interventi della politica di sviluppo rurale (come la diversificazione delle attività economiche, la gestione del rischio, l’accesso al credito, i servizi di assistenza tecnica agricola, lo sviluppo delle infrastrutture, il rafforzamento del ruolo delle donne, ecc.) possono contribuire a mantenere e migliorare la resilienza dei sistemi agro-alimentari. Viceversa, interventi che puntano a risolvere problemi immediati di scarsità alimentare (come l’aiuto alimentare, le importazioni di beni alimentari, la vendita di asset, ecc.) in generale non migliorano la resilienza degli individui, benché giochino un ruolo chiave nel salvare vite umane. Al lettore non sfuggirà che queste due tipologie di intervento corrispondono, rispettivamente, al “primo binario” (miglioramento della sicurezza alimentare nel lungo periodo) e al “secondo binario” (soluzione di problemi immediati di fabbisogno alimentare) del cosiddetto “twin-track approach” della Fao (Stamoulis e Zezza, 2003).
In conclusione, gli interventi che si basano sulla resilienza sembrano essere meno adatti a contesti di emergenza, quando la priorità assoluta è salvare vite umane, piuttosto che rafforzare la resilienza. Viceversa, nelle fasi di riabilitazione post-emergenza tali interventi, se implementati in maniera appropriata, possono aumentare la resilienza, migliorando la capacità del sistema di resistere agli shock e contribuendo in maniera significativa alla sicurezza alimentare e nutrizionale.

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  • Zseleczky L., Yosef S. (2014), “Are shocks really increasing? A selective review of the global frequency, severity, scope, and impact of five types of shocks”, in Fan S., Pandya-Lorch R., Yosef S. (eds.) Resilience for Food and Nutrition Security, IfpriI, Washington, DC: 9-17

  • Zezza A, d’Errico M (2014), “Livelihood, Vulnerability and Resilience in Africa’s Drylands”, in “The Economic of Resilience in the Drylands of Sub-Sahara Africa”, The World Bank, forthcoming

  • 1. A titolo di esempio, basti qui ricordare che la Social Protection and Labor Strategy proposta dalla Banca Mondiale nel 2012 si intitolava “Resilience, Equity, Opportunity”, che il World Economic Forum 2013 a Davos aveva per tema “Resilient Dynamism” e che l’ultima Ifpri 2020 Conference, tenutasi ad Addis Abeba nel 2014, aveva come obiettivo “Building Resilience for Food and Nutrition Security”.
  • 2. Questo è precisamente il caso dei sistemi agro-alimentari, soprattutto nei Pvs dove interi gruppi sociali e comunità ricavano la propria sopravvivenza dall’uso delle risorse naturali rinnovabili (agricoltura, agro-selvicoltura, pesca, ecc.).
  • 3. Per sicurezza alimentare si intende “una situazione che si ha quando tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico a quantità sufficienti di cibo sano e nutriente in modo da soddisfare i propri fabbisogni dietetici e le proprie preferenze per svolgere una vita sana e attiva” (Fao, 1996). È evidente come tale concetto includa sia dimensioni quantitative (la quantità di calorie assunte giornalmente), che qualitative (la composizione della dieta in termini di micro e macro nutrienti). Più recentemente alcuni organismi internazionali hanno voluto enfatizzare quest’ultima dimensione, parlando di sicurezza alimentare e nutrizionale. In questo lavoro, per brevità, si continuerà a utilizzare il termine sicurezza alimentare intendendo anche gli aspetti nutrizionali.
  • 4. Usando il linguaggio dell’analisi di povertà, la resilienza non è interessata a fenomeni di povertà transitoria, ma a quelli di povertà cronica o persistente, cioè è pienamente inserita nel dibattito sulle trappole della povertà e delle irreversibilità ad essa collegate (Carter e Barrett, 2006; Addison et al., 2009; Barrett e Constas, 2014).
  • 5. E successive modificazioni, cfr. Ciani e Romano (2011), Fao (2013) e d'Errico e Pietrelli (2014).
  • 6. È questo l’approccio proposto da d'Errico et al. (2014) per l’analisi di resilienza in Burkina Faso.
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