Introduzione1
Il 13 dicembre 2014 sarà una data importante sia per i consumatori sia per le aziende del comparto agroalimentare dell’Unione Europea (UE), poiché sarà pienamente applicabile il Regolamento (UE) n. 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori2. Tale regolamento avrà il compito di armonizzare le varie normative nazionali, superando le prescrizioni della precedente Direttiva 2000/13/CE che richiedevano di essere aggiornate in relazione alle mutate dinamiche dei mercati e alle nuove esigenze informative dei consumatori.
L’art. 9 “Elenco delle indicazioni obbligatorie” del Reg. 1169/2011 contiene le informazioni che, tranne deroghe ed eccezioni, dovranno essere contenute nell’etichettatura degli alimenti o fornite in altro modo al consumatore. Tra esse, sono di strategica importanza per il comparto agroalimentare nazionale le indicazioni inerenti il paese d’origine o il luogo di provenienza ove previsto all’articolo 26 (art. 9, par. 1, lett. i).
Partendo dall’evoluzione normativa di alcune nozioni base si analizzerà l’attuale situazione delle regole di settore a livello comunitario, per poi presentare lo stato odierno della normativa nazionale e gli importanti nessi tra i due livelli. Infatti, i prossimi sviluppi in ambito europeo delineeranno meglio la cornice entro cui il legislatore italiano potrà muoversi. All’interno dell’analisi si farà risaltare l’importanza anche economica del tema per il comparto agroalimentare nazionale e si esporranno infine alcune conclusioni.
Evoluzione normativa di alcune nozioni di base
Paese di origine e luogo di provenienza non hanno identico significato giuridico. Ai sensi dell’art. 2, par. 2 del Reg. 1169/2011, per “paese d’origine” si intende la definizione traibile ai sensi del vecchio “Codice doganale comunitario” (Cdc)3 il quale, dopo la parentesi del “Codice doganale comunitario aggiornato” (Cdca)4, è stato infine abrogato dal Regolamento (UE) n. 952/2013 che ha istituito il “Codice doganale dell'Unione” (Cdu) e risulta pertanto il testo cui riferirsi. Quest’ultimo così recita:
- "Le merci interamente ottenute in un unico paese o territorio sono considerate originarie di tale paese o territorio" (art.60, par. 1);
- "Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione" (art. 60, par. 2).
Di conseguenza, se è lineare definire l’origine di un prodotto la cui filiera si sia svolta in toto in un’unica realtà statuale o territoriale, dalle materie prime fino al prodotto imballato da mettere a scaffale, è ben più complesso farlo quando si parla di prodotti con filiere snodate su vari paesi o territori.
In particolare, definire l’ultima trasformazione sostanziale non è facile poiché essa varia per prodotto, filiera e iter di lavorazione, dunque valutazioni specifiche vanno svolte caso per caso. Analoga operazione può avere diversa rilevanza in differenti processi di lavorazione: ad esempio, la fase di packaging ad atmosfera modificata per ortaggi di IV gamma ha peso assai dissimile rispetto al confezionamento di nocciole con guscio vendute in semplici sacchetti.
L’art. 60 del Cdu segna un ritorno al passato rispetto alle innovazioni introdotte dal Cdca - le quali comportavano notevoli semplificazioni ma non furono mai applicate in mancanza di misure d’esecuzione (Albisinni, 2011) - e mantiene in toto l’impianto normativo previsto dal Cdc, articoli 23-24, eccezion fatta per l’elenco di cui all’art. 23 che specifica cosa s’intenda per “merci ottenute interamente in un paese”5: forse considerato costrittivo e poco elastico, esso è stato eliminato. Tuttavia, le predette disposizioni del Cdu si applicheranno a partire dal 01/06/20166 per cui al momento rimangono in vigore quelle dei sopracitati articoli del Cdc.
Sempre all’art. 2 del Reg. 1169/2011, per “luogo di origine” si intende "qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento ma che non è il “paese d’origine”" ai sensi del Codice doganale comunitario. Contestualmente, si specifica che "il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare ai sensi del presente regolamento".
Al contrario, in relazione al campo d’applicazione delle suddette norme, l’art. 59 del Cdu ricalca fedelmente l’art. 35 dell’ora abrogato Cdca e, in accordo a quanto già scritto (Albisinni, 2011), rispetto alle disposizioni contenute nel Cdc le definizioni in tema di origine hanno ora espressamente portata generale: esse includono sia le misure, tariffarie e non, relative allo scambio delle merci, sia le “altre misure comunitarie relative all’origine delle merci”, comprese quindi le norme sull’etichettatura.
Analisi e sviluppi della disciplina europea
La possibilità di comunicare l’origine dei prodotti agroalimentari, specie la loro provenienza nazionale, al consumatore, sfruttando l’appeal del cosiddetto Made in Italy (per approfondimenti, si veda Carbone et al., 2012), rappresenta un fattore non indifferente per accrescere l’appetibilità dei nostri prodotti sul mercato interno e su quelli internazionali.
Il Made in Italy può costituire un elemento importante per differenziarsi da analoghi prodotti dei competitor e aumentare il value for money percepito dal consumatore: ciò influisce sulle strategie di pricing da adottare e consente di “flettere” la curva di domanda, passando da una condizione sostanziale di price taker ad una ove si può agire sulla leva prezzo e ampliare il premium price.
Nel tempo le istituzioni comunitarie hanno mostrato tendenziale contrarietà rispetto all’obbligatorietà delle indicazioni di provenienza dei prodotti e ai marchi d’origine, poiché ritengono che riconoscere a un alimento una connotazione di qualità che prescinda dalle sue caratteristiche concrete e sia legata a un fattore immateriale come l’origine possa pregiudicare il mercato unico europeo, limitando la libera circolazione delle merci (si veda l’art. 28 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea): si pensi al possibile favore da parte dei consumatori per i prodotti nazionali a scapito di quelli, almeno in apparenza identici, di altri Stati membri (Giacomini, 2011). L’UE privilegia le differenze basate su caratteristiche oggettive e misurabili dei prodotti, contrastando quelle legate a fattori immateriali (come l’origine) che, in ottica comunitaria, creerebbero barriere intangibili alla libera concorrenza (Albisinni, 2011).
I prodotti a “indicazione di origine protetta” (Dop) o “indicazione geografica protetta” (Igp) costituiscono un’eccezione apparente, poiché la logica che guida l’UE non varia e collega direttamente l’origine o la provenienza dei prodotti tutelati con il possesso delle loro caratteristiche sostanziali7.
In generale, l’art. 36 del Reg. 1169/2011 afferma che la dichiarazione di origine o provenienza può essere apposta sul prodotto in modo volontario senza particolari vincoli, purché non induca in errore il consumatore e non sia ambigua né confusa.
L’art. 26 “Paese d’origine o luogo di provenienza”, che non intacca il regolamento su Dop e Igp né le norme comunitarie volte a particolari categorie di alimenti8, enuncia invece i due casi nei quali tale dichiarazione sarà obbligatoria: il primo ha portata generale, il secondo specifica.
Il primo caso riguarda la fattispecie per cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o sono in etichetta potrebbero altrimenti nel loro insieme far pensare che esso abbia differente origine o provenienza.
Come si evince dall’art. 3 del presente regolamento, la ratio alla base della normativa è assicurare indicazioni adeguate e trasparenti al consumatore che, a protezione della propria salute e tutela dei propri interessi, deve disporre delle informazioni necessarie a effettuare scelte consapevoli e utilizzare gli alimenti in modo sicuro nel rispetto di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali, sociali ed etiche. Tale scopo si deve perseguire in parallelo a quello di realizzare anche in ambito agroalimentare la libera circolazione delle merci nel mercato comunitario, pur tenendo conto della necessità di proteggere gli interessi legittimi dei produttori e promuovere la fabbricazione di prodotti di qualità. L’Unione Europea mantiene quindi il tradizionale indirizzo e tutela un interesse concreto: evitare un errore sostanziale del consumatore sull’alimento da comprare dovuto alla mancata indicazione di origine o provenienza.
Il secondo caso di obbligatorietà prescinde dall’analisi generale poiché riguarda una specifica categoria merceologica di carni9, ma ci mostra l’assenza di concordia tra le diverse istituzioni dell’UE in tema di etichettatura e informazioni ai consumatori. Per rendere applicabile la predetta fattispecie, la Commissione ha emesso il Regolamento di esecuzione (UE) n. 1337/2013: esso esenta dall’obbligo di inserire il luogo di nascita dei capi per le carni non trasformate di suini, ovini, caprini, volatili e consente per le carni macinate di usare etichette generiche come “UE” o “extra-UE”. Tuttavia, la Risoluzione del Parlamento europeo del 29 gennaio 2014 (2014/2530(Rsp)) ha ritenuto prioritaria l’accuratezza delle informazioni ai consumatori e ha invitato la Commissione ad aggiornare il regolamento per porre obblighi informativi più stringenti.
La mancata sintonia in seno all’UE fra Consiglio, Parlamento e Commissione è dovuta in primis a interessi spesso contrapposti fra i diversi stakeholder in gioco. In sintesi, consumatori, agricoltori e parte dell’industria agroalimentare danno priorità a fornire dati completi e alla dote di connotazioni e emozioni che l’origine di un prodotto può portare alla mente del consumatore; altra parte dell’industria di trasformazione è più preoccupata dai maggiori costi che accurate informazioni in etichetta richiederebbero; infine, alcuni Stati membri ritengono che l’origine in etichetta fornirebbe un fattore competitivo alle produzioni estere rispetto a quelle nazionali (Giacomini, 2011).
Come previsto dall’art. 26, par. 6 del Reg. 1169/2011, la Commissione ha presentato a fine 2013 la Relazione sull'indicazione obbligatoria del paese d'origine o del luogo di provenienza per le carni utilizzate come ingrediente, Com(2013) 755 final: da essa risulta che il 90% dei cittadini comunitari sono interessati ai dati sull’origine delle carni ma non mostrano analoga disponibilità a pagare per averli, considerando che raccoglierli e registrarli comporterebbe notevoli oneri e costi per le aziende. Nessuna ulteriore norma in merito si è concretizzata, nonostante la campagna di sensibilizzazione “Can we trust our meat?” lanciata dall’Organizzazione europea dei consumatori (Nardi, 2014).
Norme comunitarie e norme nazionali
Si evinse che l’etichettatura d’origine fosse “problematica” già nel 2008 dai risultati che la Commissione europea ottenne in sede di consultazione preliminare degli stakeholder ed elencò nella Proposta di regolamento relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori Com(2008)40 def. (Giacomini, 2011), da cui poi nascerà il Reg. 1169/2011.
La fattispecie contenuta nell’art. 26, par. 3 di tale regolamento prescrive che "quando il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato e non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario10", l’operatore agroalimentare può seguire due vie:
- indicare anche il paese d’origine o il luogo di provenienza di quest’ultimo;
- segnalare che l’origine o la provenienza dell’ingrediente primario è diversa da quella dell’alimento.
Nel secondo caso, l’onere informativo per l’operatore è minore ma lo è pure la precisione delle informazioni date. Entro il 13/12/2013 la Commissione avrebbe dovuto emanare atti di esecuzione a riguardo, ma questo ancora non è avvenuto.
Connesso a ciò, entro il 13 dicembre 2014, ai sensi dell’art. 26, par. 5, la Commissione presenterà a Parlamento europeo e Consiglio relazioni sull’indicazione obbligatoria di origine o provenienza per vari tipi di alimenti, tra cui: prodotti non trasformati, quelli a base di un unico ingrediente, ingredienti che rappresentano più del 50% di un alimento. La consultazione con gli stakeholder degli Stati membri è già conclusa e il report finale sarà presentato a fine 2014 (Copparoni, 2014).
Gli effetti che scaturiranno, in modo diretto dagli atti di esecuzione e indiretto dalle relazioni (per le norme che potrebbero derivarne), saranno cruciali a livello comunitario e nazionale.
In Italia l’art. 4 della Legge n. 4/2011 nasce per regolare meglio a livello nazionale l’etichettatura di origine e provenienza dei prodotti agroalimentari, coronando un iter durato anni e contrassegnato da insuccessi (Giannini, 2011). Lo scopo è di garantire un’informazione completa e trasparente ai consumatori e di prevenire e contrastare le frodi alimentari.
Se per i prodotti alimentari non trasformati l'indicazione del luogo di origine o provenienza è inerente al loro paese di produzione, per i prodotti alimentari trasformati essa riguarda sia il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale sia quello di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella loro preparazione o produzione. Si va quindi verso una doppia indicazione di origine per i prodotti trasformati: la prima inerente la fase industriale e legata all’ultima trasformazione sostanziale del prodotto, la seconda connessa alla materia prima agricola prevalente.
Il nodo cruciale riguarda l’ambiguo concetto di “prevalenza” e come applicarlo: ad esempio, si può considerare prodotto Made in Italy solo una crema di nocciole in cui la totalità della materia prima prevalente (le nocciole) risulti italiana, oppure anche una crema con una quota maggioritaria (il 51%) di materia prima prevalente di origine nazionale? Manca una risposta univoca. In ambo i casi sembra che gli ingredienti minori di un alimento rimarranno fuori dalla valutazione sulla sua italianità, facendo sì che esso possa esser etichettato come Made in Italy pur avendo ingredienti di diversa origine (Canali, 2011).
L’art. 4 specifica che futuri decreti interministeriali definiranno i prodotti agroalimentari di ogni filiera soggetti a tale obbligo informativo, le modalità per applicarlo e come interpretare il requisito di prevalenza: senza di essi, di fatto la L. 4/2011 si trova inapplicata. Il primo motivo di stallo è il timore di nuove censure dalla Commissione europea, che deve esserne informata in anticipo assieme agli altri Stati membri e, tramite la procedura indicata all’art. 45 del Reg. 1169/2011, fornire un parere vincolante.
Conclusioni
Secondo i dati revisionati Istat, l’Italia ha chiuso il 2013 con un export agroalimentare del valore di 33,4 miliardi di euro (+4,8% su base annua) e un import pari a circa 40,7 miliardi (+2,7%): la bilancia commerciale si conferma quindi in deficit per oltre 7 miliardi di euro. (Ismea, Unioncamere, 2014). Tuttavia, le esportazioni sono aumentate mediamente su base annua del 9,8% tra 2002 e 2011 (Ice, 2013), seppur il tasso di crescita sia calato negli ultimi anni e nel 2013 sia stato appunto attorno al 5%.
A fronte di ciò, contraffazione e italian sounding riducono il fatturato dell’industria alimentare italiana, specie riguardo l’export, di circa 60 miliardi di euro, di cui 6 dovuti a vera contraffazione e 54 dovuti alle imitazioni; si noti che tra 2001 e 2010 l’italian sounding è aumentato circa del 180% (Federalimentare, 2011) e vale 26 miliardi di euro nella sola Europa (Canali, 2012).
Il “falso” Made in Italy è un grave danno per la nostra economia, ma la sua diffusione può essere vista come un’opportunità poiché rappresenta un indicatore di importanti segmenti di domanda sui mercati che l’agroalimentare nazionale non riesce a soddisfare e di cui altri si avvantaggiano (Canali, 2012).
Le linee d’azione per imporre il vero Made in Italy sui mercati sono varie: creare reti di imprese per entrare con maggior peso e efficacia nei vari mercati nazionali; depositare nei paesi in cui si opera il proprio brand per tutelarlo; estendere il riconoscimento dei prodotti Dop e Igp nel mondo (al momento la discussione post accordi Gatt e in seno al Doha Round è in stasi); infine, creare un corpus di regole idoneo a contrastare le frodi e informare i consumatori.
A riguardo, la prossima applicazione del Reg. (UE) 1169/2011 e gli annessi atti di esecuzione che la Commissione europea emanerà delineeranno con precisione la cornice entro cui il legislatore italiano potrà muoversi nel fissare obblighi informativi in tema di origine e provenienza.
Il punto di maggior iato non riguarda tanto il contenuto quanto il campo d’applicazione dell’obbligatorietà di tali indicazioni in etichetta: la legge italiana vorrebbe sia generalizzato, quella comunitaria - come si è visto - lo limita a specifiche categorie di alimenti o lo vincola al rischio di sostanziale errore di valutazione del consumatore (Reg. 1169/2011, art. 26, par. 2).
Nel dibattito in seno all’UE, per ampliare l’applicabilità dell’obbligo di indicare l’origine o la provenienza si ritiene sia strategia lungimirante che i delegati italiani si focalizzino non sull’obiettivo di promuovere le produzioni nazionali (molti Stati membri hanno un comparto agroalimentare di minor importanza e competitività che viceversa puntano a tutelare dalle produzioni estere) bensì sulla necessità di informare adeguatamente i consumatori, scopo più condivisibile dalle varie nazioni comunitarie e che consente di giungere al medesimo obiettivo: valorizzare i prodotti italiani.
Comunicare l’origine di un alimento ai consumatori potrebbe, però, rivelare loro preferenze d’acquisto impreviste e forse a sfavore dell’agroalimentare nostrano: un rischio da correre e, nel caso, una nuova sfida commerciale per le aziende italiane del comparto (Canali, 2011).
Infine, si segnala che a breve potrebbe ampliarsi il quadro di riferimento per l’Italia con la stipula del Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) tra Unione Europea e Stati Uniti (Usa), volto a rimuovere gran parte delle barriere commerciali e doganali fra i due mercati, tariffarie e non. Di conseguenza le rispettive legislazioni, pure in ambito alimentare, saranno armonizzate per quanto possibile, cercando di far incontrare due diverse visioni normative: quella comunitaria, guidata dal principio di precauzione e volta a una forte tutela dei consumatori, e quella americana, focalizzata sull’analisi costi-benefici e attenta a non “opprimere” troppo il mercato (Bradford, 2014). Considerando che gli Usa si mostrano diffidenti anche sul riconoscere i prodotti Dop e Igp (Hall, 2014), accordarsi in tema di origine e provenienza degli alimenti non sembra facile.
Nel complesso, per l’agroalimentare italiano lo scenario politico dei mesi a venire si prospetta “intenso”.
Riferimenti bibliografici
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Canali G. (2012), Falso Made in Italy e Italian sounding: le implicazioni per il commercio agroalimentare, in De Filippis F. (a cura), L’agroalimentare italiano nel commercio mondiale. Specializzazione, competitività e dinamiche, Edizioni Tellus, Roma
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Carbone A., Finizia A., Henke R., Pozzolo A. (2012), Il Made in Italy nel commercio agroalimentare, in De Filippis F. (a cura), L’agroalimentare italiano nel commercio mondiale. Specializzazione, competitività e dinamiche, Edizioni Tellus, Roma
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Parlamento italiano (2011), Legge 3 febbraio 2011 , n. 4, Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari, (11G0039) (GU n. 41 del 19-2-2011) [link]
- 1. Ringrazio i professori Saverio Senni e Silvio Franco dell’Università della Tuscia per aver letto e commentato una precedente versione del lavoro. Mi assumo ovviamente la piena responsabilità di quanto è scritto e di eventuali errori.
- 2. Fanno eccezione le disposizioni sulle dichiarazioni nutrizionali in etichetta, che si applicheranno dal 13/12/2016.
- 3. Ossia del Regolamento (Cee) n. 2913/92.
- 4. Si rimanda all’abrogato Regolamento (CE) n. 450/2008, mai del tutto applicato.
- 5. Tra esse, vi sono: i prodotti del regno vegetale ivi raccolti; gli animali vivi, ivi nati e allevati; i prodotti che provengono da quest’ultimi; le merci ivi ottenute esclusivamente da quelle di cui nell’elenco o dai loro derivati, in qualsiasi stadio essi si trovino.
- 6. Si veda a riguardo l’art. 288 dello stesso Cdu.
- 7. Infatti, ai sensi del Regolamento (CE) n. 510/2006 che li disciplina, l’origine o provenienza fa sì che le qualità o caratteristiche di tali prodotti siano "dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani" (art. 2, par. 1) per i Dop, oppure che "una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica" (ibidem) riguardo gli Igp. Diversamente, la peculiarità delle “specialità gastronomiche tradizionali” (Sgt) non deriva dall’origine bensì da materie prime usate, composizione o metodi di lavorazione. (Regolamento (CE) n. 509/2006, art. 4).
- 8. Si cita ad esempio il Regolamento (CE) n. 1760/2000, poi modificato dal Regolamento (UE) n. 653/2014, che crea un sistema per identificare e registrare i bovini ed etichettarne le carni e gli alimenti a base di esse.
- 9. Per tali carni si rimanda all’Allegato XI del Reg. 1169/2011.
- 10. In base all’art. 2, par. 2 del Reg. 1169/2011, per “ingrediente primario” si intende l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50 % di esso o che sono associati abitualmente alla sua denominazione dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa. Ad ora la norma si presenta ostica da interpretare, specie su come gestire un alimento con più ingredienti che potrebbero rientrare in tale fattispecie o sul definire se e quali di essi siano abitualmente associati dal consumatore al prodotto.