Distretti agroalimentari di qualità e processi di governance locale: due regioni a confronto

Distretti agroalimentari di qualità e processi di governance locale: due regioni a confronto
a Università di Verona, Dipartimento di Economie, Società e Istituzioni
b Università di Verona

Introduzione

L’obiettivo di questa nota è di valutare quale tipologia di governance locale sia più appropriata per valorizzare la produzione dei distretti agroalimentari di qualità in uno scenario agroalimentare globalizzato. Lo studio parte da alcune considerazioni:

  • L’identificazione di un prodotto DOP/IGP riconosciuto in base al Reg 509/2006 è il risultato di una scelta che coinvolge i diversi attori della filiera, dalla produzione al consumo. Il rapporto tra specificità e sviluppo non si basa solo su criteri tecnici, ma anche sui rapporti tra produttori e consumatori, che ne rappresentano la base del riconoscimento. Queste relazioni implicano diversi livelli di coordinamento e influiscono in maniera diretta sulla inclusione o l’esclusione di determinati territori. In genere, la definizione dei loro confini geografici è il risultato di un difficile negoziato in cui sono coinvolti molti soggetti. Le istituzioni locali sono interessate ad ampliare le aree, mentre i produttori storici preferirebbero una delimitazione più ristretta, in quanto l’allargamento eccessivo della zona di produzione comporterebbe una competizione con produttori meno tradizionali (Arfini, Belletti, Marescotti, 2010)1;
  • Il DL 288/2001 ha introdotto lo strumento dei distretti agro-alimentari di qualità, delegando i criteri per la loro individuazione alle Regioni. Il presupposto essenziale per la loro identificazione è rappresentato dalla presenza di uno o più prodotti di elevata qualità (art. 13), ma come vedremo, ciò non corrisponde alle delimitazioni ammesse nei disciplinari DOP/IGP.

Dall’esistenza sui territori regionali di differenti aree istituzionali (quelle previste nei disciplinari e quelle dei distretti agro-alimentari), con strategie e gradi di protezione diversificate, discende la necessità di valutare l’efficienza delle tipologie di governance locale. Se l’attenzione è posta ai prodotti con denominazione di origine, le politiche regionali devono concentrarsi sul territorio, attraverso una programmazione integrata, formale o informale, con un forte coinvolgimento di tutti i soggetti pubblici e privati. Ciò pone però il problema di valutare se l’area ammessa nel disciplinare è il corretto riferimento spaziale per gli interventi. Se il focus è posto sui distretti agro-alimentari di qualità, oltre al problema di verificare l’efficienza del nuovo livello istituzionale, vi è la necessità di valutare come e in che misura ciò corrisponda alla promozione di alcuni prodotti DOP/IGP.
Alla luce di queste considerazioni sono stati analizzati gli approcci seguiti in due regioni, Veneto e Emilia-Romagna, che hanno adottato strategie diverse. Nel caso del Veneto, le istituzioni regionali hanno individuato “dall’alto” i distretti agro-alimentari di qualità, i cui confini, definiti a livello provinciale, rischiano di non evidenziare le reali domande di intervento pubblico nelle aree DOP/IGP. Nel caso dell’Emilia-Romagna, invece, i responsabili della politica regionale hanno deciso di non creare un nuovo livello istituzionale, pur riconoscendo l’importanza degli strumenti di aggregazione e conseguentemente di governo attraverso vari tipi di accordi. Ciò ha portato alla valorizzazione di due iniziative nate dal basso: l’Associazione per il distretto del pomodoro da industria e il Distretto del prosciutto di Parma, che quindi non hanno una definizione istituzionale.

I sistemi locali agro-alimentari in Italia

Le questioni aperte

Già dagli inizi degli anni Novanta l’attenzione degli economisti agrari è stata rivolta ai distretti agroalimentari, cercando di coglierne le peculiarità e le dinamiche. Le ragioni di questo interesse sono individuabili nel fatto che solo in una prima approssimazione la globalizzazione, con la quale il sistema agroalimentare si confronta, comporta un indebolimento della importanza dei territori. Dalle indagini è emersa invece la rilevanza della dimensione spaziale, vista come l’assegnazione di specifiche risorse materiali e immateriali, nonché dei soggetti socio-economici e delle istituzioni locali (Alfano, Cersosimo, 2009). Al tempo stesso la ricerca internazionale ha sviluppato il concetto di Syal (Systèmes agro-alimentaires localisés) (Muchnik, Sautier, 1998), in cui la produzione, la trasformazione e i servizi connessi sono strettamente legati con le loro caratteristiche e le loro modalità operative in un determinato territorio.
Come detto, soltanto nel 2001 (DL 288) lo strumento del distretto agroalimentare ha trovato una definizione nel quadro normativo italiano, ma con alcune ambiguità. Innanzitutto la definizione di qualità adottata solo apparentemente è riferita ai prodotti DOP/IGP. Ciò comporta, come effetto negativo, che nei territori caratterizzati da una concentrazione e specializzazione di produzioni agroalimentari, in assenza di certificazioni DOP/ IGP, l’esistenza del distretto potrebbe essere negata (Albisinni, 2002). La successiva dottrina ha precisato che l’ostacolo può essere superato, considerando la certificazione di qualità, piuttosto che una premessa, un obiettivo che il distretto può raggiungere, una volta creato.
Nonostante l’evidenza di numerose situazioni che potrebbero portare alla identificazione di distretti agro-alimentari nella realtà italiana, solo 6 regioni hanno introdotto il nuovo strumento nel loro quadro legislativo (Piemonte, Veneto, Lazio, Calabria, Abruzzo, Sicilia)2; tuttora un numero limitato di distretti agro-alimentari sono effettivamente operanti. I territori in grado di mettere in atto dei processi di auto-costruzione dei distretti sono stati bloccati da numerosi fattori; sulle inerzie regionali ha pesato, oltre alla mancanza di un quadro legislativo chiaro e completo sul conflitto di competenza fra Stato e Regioni, soprattutto l’impossibilità di sfruttare le opportunità di fornite da strumenti fiscali e finanziari destinati esclusivamente alle imprese operanti nei distretti. Ciò è stato superato dalla decisione del dicembre 2008, con cui la Commissione UE ha approvato la concessione di aiuti di Stato per l’attuazione dei contratti di “filiera” e di “distretto” (DL 2850 dell’aprile 2008), aprendo così prospettive concrete per l’introduzione dei distretti agro-alimentari nello scenario italiano.
Le istituzioni regionali si sono scontrate con ulteriori problemi. Mentre vi era la necessità di promuovere e sostenere i progetti territoriali di tipo bottom-up, c’erano molte difficoltà nel fornire strumenti alle istituzioni locali, pubbliche e private, per definire i confini più appropriati per i potenziali distretti agro-alimentari, tenuto conto della necessità di non creare nuovi soggetti istituzionali, oltre a quelli già esistenti. Nei territori regionali possono infatti coesistere e sovrapporsi differenti ambiti istituzionali, sia quelli dei progetti integrati regionali, sia quelli dei gruppi di azione locale (GAL) nell’ambito dell’approccio LEADER, sia infine quelli dei Consorzi di tutela dei prodotti DOP e IGP. Poiché l’obiettivo delle istituzioni pubbliche e private è, ai diversi livelli, lo sviluppo del comparto agroalimentare regionale, vi è il rischio che l’impatto delle politiche settoriali (nel caso dei contratti di filiera) e di quelle territoriali (nel caso dei prodotti tipici e dell’approccio LEADER) risulti in taluni casi contradditorio.
Questo è la base su cui si è innestato il nostro studio dei distretti agroalimentari nelle due regioni, pur nella consapevolezza che l’uso di dati statistici ufficiali può semplicemente aiutare a suddividere i sistemi locali tra aree a vocazione distrettuale o no (Brusco e Paba, 1997), ma non analizzarne le dinamiche.

Due modelli regionali a confronto: Veneto e Emilia-Romagna

Prima di valutare l’esperienza distrettuale nelle due regioni, è necessario analizzarne brevemente i differenti modi di regolazione dello sviluppo locale. Lo scopo della comparazione non è di indicare il modello migliore da trasferire ad altri contesti territoriali, quanto di valutare se le strategie adottate sono adeguate alla specificità dei singoli contesti territoriali.
I modi di regolazione dello sviluppo locale nelle due regioni si differenziano per alcune variabili fondamentali (Messina, 2005):

  • lo stile del governo locale (non interventista nel Veneto, interventista in Emilia -Romagna);
  • il carattere delle politiche pubbliche (distributive nel primo caso, redistributive nel secondo);
  • la struttura delle reti di impresa (reti informali, corte e chiuse nel Veneto;
  • preordinate dall’intervento pubblico, lunghe e tendenzialmente aperte in Emilia-Romagna);
  • la costruzione sociale del territorio (il Veneto contraddistinto tra una più marcata contrapposizione tra città e campagna, l’Emilia-Romagna da una maggiore integrazione). Va tuttavia rilevato che questa definizione di Messina si scontra con le dinamiche in atto nell’ampia area metropolitana veneta;
  • la concezione della policy, caratterizzata da un comunitarismo antistatalista nel primo caso e dal “municipalismo” nel secondo.

Questi differenti modi di regolazione si sono estrinsecati anche nell’agroalimentare, quando in ottemperanza del DL 288/2001, le istituzioni regionali avrebbero dovuto individuare i distretti agroalimentari di qualità.
In Emilia-Romagna, in linea con quanto è avvenuto per i distretti industriali, già dalla metà degli anni Novanta (LR n. 47 del 1995), anche di fronte ai problemi posti dalla globalizzazione, le istituzioni regionali hanno privilegiato la creazione di Centri di servizi reali, rivolti al trasferimento di nuove tecnologie e alla fornitura di servizi specialistici ad alto valore aggiunto. Questa politica, frutto di una forte interazione tra pubblico e privato, cioè di processi di governance locale e di programmazione concertata, è stata una delle ragioni che ha portato al rifiuto di una definizione dall’alto dei distretti agroalimentari, riservandosi di riconoscere i distretti agroalimentari promossi dal basso a partire dalla realtà produttiva locale.
Differente è il percorso del Veneto, in cui i servizi reali alle imprese sono da sempre forniti da una pluralità di soggetti (associazioni provinciali di categoria, Camere di Commercio ecc). Perlopiù si tratta di servizi per gli adempimenti amministrativi e fiscali, l’adeguamento a normative, la certificazione di qualità. In questo quadro la Regione Veneto ha preferito soprattutto adottare politiche settoriali, in larga parte in attuazione delle politiche della UE, dando una minore importanza agli interventi per lo sviluppo locale. Le politiche settoriali sono state impostate concordando gli interventi con le associazioni di categoria e con le imprese di più grandi dimensioni, che più facilmente possono esercitare una funzione di lobbying. Ciò spiega le difficoltà incontrate negli adempimenti del DL 288/2001, che ha portato alla semplice individuazione di 4 distretti agroalimentari, definiti a livello di provincia (Prosecco Valdobbiadene - Treviso; Ortofrutticolo - Verona; Vino - Verona; Lattiero caseario - Treviso). Questi distretti tuttora sono privi di una concreta applicazione: non sono stati infatti specificati né gli elementi per il loro riconoscimento, né quelli relativi ai loro organi di gestione, rimandando tali materie a successivi provvedimenti.

I distretti agroalimentari nel Veneto e in Emilia-Romagna

L’approccio metodologico

Poiché in questa nota l’attenzione è rivolta soltanto alle principali peculiarità dei due modelli regionali, per la metodologia seguita e per la completa rassegna dei risultati raggiunti si rimanda a Montresor, Pecci (2010) per il Veneto e Montresor, Pecci, Pontarollo (2010) per il confronto tra le due regioni.
In questa sede è sufficiente ricordare che il percorso di analisi seguito per entrambe le regioni è suddiviso in due fasi. La prima ha avuto lo scopo di identificare i principali macro-sistemi territoriali, con peculiarità abbastanza omogenee sotto un profilo rurale, attraverso indicatori sia socio-economici, sia del settore primario (Tabella 1). All’interno di questi sistemi territoriali si sono individuati i sistemi agroalimentari locali imperniati sulla presenza di prodotti DOP e IGP, per comprendere come e in che misura le dinamiche presenti nei territori ammessi nei disciplinari possono influenzare la produttività del settore, costituendo elementi di competitività o di crisi.
Nella seconda parte l’accento è stato posto solo sulla specializzazione agricola, prendendo in considerazione alcuni DOP, per valutare se le delimitazioni geografiche previste dai singoli disciplinari corrispondono effettivamente alle aree maggiormente incidenti nella produzione regionale e se esse possano costituire la base per l’individuazione dei distretti agroalimentari.
In particolare sono stati indagati alcuni prodotti lattiero caseari nel Veneto (Asiago e Montasio) e il Prosciutto di Parma e il Parmigiano Reggiano in Emilia-Romagna3.
In entrambe le fasi si sono utilizzati gli strumenti di analisi spaziale, sovrapponendo il risultato della seconda fase a quello della prima per l’analisi complessiva.

Tabella 1 - Indicatori utilizzati per la zonizzazione socio-economica regionale

* Indicatore utilizzato solo nella seconda fase dell’analisi spaziale.

I distretti agro-alimentari nel Veneto

Nel Veneto, nella prima fase è emerso che la presenza dei disciplinari di produzione aumenta la specializzazione, ma solo in parte la produttività agricola nei territori ammessi nei relativi disciplinari rispetto alla media regionale e a quella dei singoli sistemi territoriali. L’incremento della redditività agricola si verifica soltanto in alcuni sistemi (quelli altamente specializzati dell’area metropolitana veneta e in alcuni sistemi ollinari con agricoltura intensiva). La presenza di prodotti tipici non modifica invece sostanzialmente le problematiche delle aree montane con divari nello sviluppo agricolo; ciò dimostra che l’inclusione di questi territori nel disciplinare di produzione non è in grado di contrastare le dinamiche socioeconomiche in atto nel mondo rurale. Nel caso delle due DOP prese in considerazione (Asiago e Montasio), la loro presenza non determina un reale vantaggio competitivo rispetto alla situazione complessiva delle aree di appartenenza.
La seconda parte dell’indagine ha consentito di enucleare un grande sistema lattiero caseario del Veneto che comprende parte della provincia di Treviso e si allarga soprattutto alle province limitrofe di Vicenza e, in minor misura, di Venezia. All’interno di questo macrosistema si alleva quasi il 70% delle vacche da latte e ricadono larga parte delle produzioni lattiero casearie DOP del Veneto.
L’analisi spaziale mette cioè in evidenza come l’individuazione di un distretto lattiero-caseario nella provincia di Treviso sia fortemente limitativa, in quanto non consente né di difendere le peculiarità dei singoli prodotti DOP veneti nel contesto internazionale, né di affrontare le problematiche in atto nei singoli territori, né infine di intervenire con efficacia nelle situazioni che presentano caratteri più accentuati di un distretto agroalimentare di qualità (come nel caso del territorio vicentino). I confini amministrativi, che assicurano una necessaria stabilità nel tempo e nello spazio, non possono coincidere con i confini dei distretti agroalimentari di qualità, caratterizzati da una necessaria variabilità e flessibilità, tipica delle reti sociali. Se inoltre si considerano i risultati della prima fase, la presenza di una potenziale situazione distrettuale dei prodotti lattiero caseari si rileva nell’area metropolitana veneta, in cui il settore primario, se considerato come settore a se stante, riveste un ruolo pressoché irrilevante nello sviluppo e in cui notevole è il conflitto nell’uso delle risorse. Il rischio per le istituzioni locali e regionali è quello di non tenere conto dei numerosi problemi connessi al settore primario, data la loro marginalità rispetto alle dinamiche del contesto socio-economico. La varietà degli ambiti istituzionali presenti in questi territori complica il raggiungimento di forme efficienti di governance locale per i prodotti considerati, intesa come l’effettiva capacità di orientare l’impiego delle risorse locali per il raggiungimento di forme di sviluppo sostenibili nel tempo.

I distretti agro-alimentari nell’Emilia-Romagna

Tutto il territorio dell’Emilia-Romagna è investito dalla presenza di disciplinari di prodotti DOP e IGP. Occorre ricordare che a differenza del Parmigiano Reggiano, per il quale il disciplinare impone l’impiego soltanto del latte proveniente dalla zona, per il prosciutto di Parma e di Modena, la necessità di rispondere ad un aumento crescente dei consumi ha comportato un notevole ampliamento della fase di allevamento a gran parte delle regioni settentrionali e centrali, mentre di competenza del sistema locale rimangono le fasi a più alto valore aggiunto. In una prima approssimazione l’ampia diffusione della tipicità potrebbe risultare scarsamente significativa, ma l’indagine ha evidenziato come i sistemi con più elevata produttività agricola sono quelli in cui più ampia è la presenza di comuni con più disciplinari4.
Se l’analisi si sposta sui singoli prodotti, emergono ulteriori spunti di riflessione. Come nel Veneto, la presenza dei disciplinari di produzione aumenta notevolmente la specializzazione e in parte la produttività agricola nelle aree individuate dai disciplinari, rispetto alla media regionale ed a quella dei singoli sistemi territoriali, ad eccezione, di quelli montani con divari nello sviluppo. In altre parole lo scarto nella produttività nei territori previsti dal disciplinare dipende in misura sostanziale dal peso di questi ultimi; ciò si verifica in parte per il Parmigiano, ma soprattutto per il Prosciutto di Parma, in cui la presenza delle fasi di trasformazione nei territori svantaggiati non sembra sufficiente a garantire una valorizzazione della produzione locale.
La seconda parte dell’indagine, condotta soltanto sulla componente agricola, consente di affermare che in Emilia-Romagna la strategia di non individuare a priori i sistemi locali di qualità, ma di supportare le iniziative che si formano a livello locale, è stata la più opportuna. I risultati evidenziano la presenza di un grande sistema territoriale, che occupa oltre il 28% della superficie regionale, in cui si concentra il 60% sia del patrimonio bovino, sia di quello suino; forte è anche l’integrazione con l’industria di trasformazione (oltre il 38% degli addetti regionali). In questo macro-sistema i singoli distretti agro-alimentari si sovrappongono e diventa difficile individuarne i confini. La complessità dei processi di differenziazione, non solo agricoli, comporta una varietà di spazi istituzionali differenziato a seconda dei prodotti, con differenti forme di ricorso alla concertazione ed al partenariato tra istituzioni, pubbliche e private, e gli attori economici.
Se si considerano i risultati della prima zonizzazione, i potenziali distretti agroalimentari si rilevano in prevalenza nei territori con il più elevato livello di sviluppo socio-economico e con più elevata densità istituzionale sia pubblica, sia privata, ma anche in alcuni territori montani con divari nello sviluppo. Ciò può comportare difficoltà nel raggiungimento di forme efficienti di governance locale soprattutto nei territori montani con consistenti divari, forti indici di invecchiamento e probabile mancanza di un ricambio generazionale, che potrebbero avere ripercussioni sui potenziali produttivi dei sistemi di qualità, in particolare per il Parmigiano Reggiano.

Conclusioni

L’obiettivo di questa nota era di valutare se gli strumenti esistenti per promuovere e sostenere i prodotti locali nel nuovo scenario internazionale sono adeguati nelle due realtà regionali indagate e quali di essi potrebbero essere in grado di raggiungere questi obiettivi. Le risposte sono molteplici:

  1. in entrambe le regioni i sistemi di produzione nei territori previsti nei disciplinari DOP/IGP sono molto complessi e hanno al loro interno una varietà di differenti situazioni socio-economiche, ambientali e culturali. Se Arfini, Marescotti e Belletti (2010) sostengono che per questi prodotti la composizione di interessi dà luogo ad una strategia dominante, guidata dalle esigenze degli attori più influenti, l’indagine evidenzia come questa composizione sia dominata non solo dagli attori, ma anche dai territori in cui operano. Un esempio si può trovare nella montagna vicentina, che fornisce un prodotto di elevata qualità, ma che assume un ruolo meno rilevante nella definizione delle strategie. In entrambe le regioni, sia nel caso del Prosciutto di Parma e Parmigiano Reggiano, sia per i prodotti lattiero-caseari DOP (Asiago e Montasio) nel Veneto, le politiche per la tutela delle produzioni tipiche dovranno avere come obiettivo non solo la loro valorizzazione nei mercati, ma anche prevedere strumenti differenziati di sviluppo rurale, soprattutto nei territori con divari e con minore presenza istituzionale;
  2. per quanto attiene l’identificazione dei distretti agro-alimentari di qualità, opportunità offerta dalla normativa italiana, la loro delimitazione presenta senz’altro numerose difficoltà. Da un lato, questa definizione è condizionata dall’approccio globale seguito dalle istituzioni regionali per lo sviluppo locale, non solo agroalimentare. Ciò emerge chiaramente nel percorso seguito nelle due regioni esaminate. In secondo luogo, anche i distretti agro-alimentari, se identificabili, sono condizionati dalle dinamiche socio-economiche presenti nel proprio territorio, a cui si aggiungono le strategie adottate dai Consorzio per i prodotti tipici, che sono, come già detto, fortemente condizionati dagli attori e dai territori più influenti. Ciò emerge nel distretto del Prosciutto di Parma, costruito dal basso, che investe solo una parte della zona ammessa nel disciplinare;
  3. l’indagine mette in evidenza soprattutto la dimensione regionale nei sistemi agro-alimentari, dimensione che si ripercuote nei singoli sistemi locali. Poiché l’obiettivo principale delle politiche regionali dovrebbe essere quello di aumentare la loro competitività, attraverso la massima flessibilità e un significativo ritorno economico e sociale a tutti gli attori, compito delle istituzioni dovrebbero essere di fornire ai soggetti pubblici e privati gli strumenti necessari per comprendere le dinamiche spaziali in atto, le loro interrelazioni e i punti di forza e di debolezza, nonché adottare le misure per promuovere la cooperazione e il partenariato a livello locale. Saranno poi gli attori pubblici e privati nelle singole realtà territoriali a valutare quali strumenti siano più opportuni per la valorizzazione delle loro produzioni di qualità e per lo sviluppo rurale.

Riferimenti bibliografici

  • Albisinni F. (2002), Commento all’art.13 del DL 18 maggio2001, n.228, Rivista di Diritto Agrario, I.
  • Alfano F., Cersosimo D. (2009), Imprese agricole e sviluppo locale. Un percorso di analisi territoriale, Quaderni Gruppo 2013, Edizioni Tellus, Roma
  • Arfini F., Belletti G., Marescotti A. (2010), Prodotti tipici e denominazioni geografiche. Strumenti di denominazione e valorizzazione, Quaderni Gruppo 2013, Edizioni Tellus, Roma
  • Brusco S., Paba S. (1997), Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra a gli anni Novanta, in Barca F. (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma, pag. 265:333
  • Carbone A. (2003), Le denominazioni di origine tra legislazione e mercato : il caso del pecorino romano, La Questione Agraria, n. 1
  • Messina P. (2005), Temi di ricerca sulle culture di governo locali e le politiche per lo sviluppo, Rivista Italiana di Scienza Politica, 1, p. 107:134
  • Montresor E., Pecci F., Governance territoriale e sviluppo rurale: il caso della Regione Veneto, in Boccaletti S. (ed), Cambiamenti nel sistema alimentare. Nuovi problemi, strategie, politiche, Franco Angeli, Milano, 2010, p. 463:480
  • Montresor E., Pecci F., Pontarollo N., Quality Agro-Food Districts, Typical Products, Local Governance, in Arfini F., Cernicchiaro S., Donati M. (eds), Spatial Dynamics in Agri-food Systems: Implications for Sustainability and Consumer Welfare, Monte Università, Parma, 2010, ISBN: 978-88-7847-348-5
  • Muchnik J, Sautier D. (1998), Systèmes agro-alimentaires localisés et construction de territoires, ATP CIRAD
  • 1. Emblematico è il caso del Pecorino Romano descritto da Carbone (2003). Il sistema di produzione, storicamente radicato nel Lazio, ha condotto all’espansione dell’area produttiva al territorio sardo, con notevoli differenziazioni qualitative del prodotto sardo rispetto a quello laziale di più elevata qualità. L’ottenimento della denominazione di origine comunitaria ha comportato successivamente una progressiva marginalizzazione della produzione storica laziale.
  • 2. In Umbria non esiste una norma specifica di riferimento, ma la LR n. 11 del 2005 relativa all'urbanistica, all'art. 33 prevede la possibilità per i comuni di individuare i distretti rurali e agroalimentari di qualità. La Regione Lombardia ha preferito individuare i distretti agroalimentari in base alla legge regionale sui distretti industriali.
  • 3. Per il Veneto non sono state utilizzati gli indicatori: Rls suini e Industria trasformazione carne; per l’Emilia-Romagna si sono esclusi: Rls foraggere, Rls prati-pascoli e Industria del latte.
  • 4. Circa il 30% dei comuni sono sede di 3 prodotti tipici, 5% di più di 4, mentre soltanto il 18% di essi è interessato ad un solo disciplinare di produzione.
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