Cosa dice il Rapporto Sapir?

Cosa dice il Rapporto Sapir?

“Il Rapporto Sapir ci indica la strada. Pubblicato dalla Commissione nel 2003, definisce in modo chiaro e dettagliato come dovrebbe essere un bilancio europeo al passo con i tempi. Mettiamolo in pratica. Ma un moderno bilancio europeo non può continuare a destinare da qui ai prossimi 10 anni il 40% del budget alla PAC” .
Estratto del discorso al Parlamento Europeo di Tony Blair, Presidente in carica del Consiglio dell’Unione Europea, 23 giugno 2005.

Cosa è il rapporto Sapir?

Il Rapporto Sapir, pubblicato dalla Commissione Europea nel 2003 su iniziativa dell’ex-Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, è stato elaborato da “un gruppo di autorevoli esperti indipendenti”. Il Rapporto è volto a:
“[…] esaminare le conseguenze dei due obiettivi economici strategici che l’Unione europea si è prefissa per il primo decennio del XXI secolo: diventare la più competitiva e dinamica economia fondata sulla conoscenza, con una crescita economica sostenibile e una maggiore coesione sociale (la cosiddetta “Agenda di Lisbona”); rendere inoltre l’allargamento un successo, innalzando rapidamente il tenore di vita dei nuovi Stati membri. Al gruppo è stato chiesto di rivedere l’intero sistema delle politiche economiche dell’Unione e di proporre una strategia in grado di accelerare la crescita, garantendo nel contempo la stabilità e la coesione in un’Unione allargata” . (Sapir et al., 2004, p. V).
Il rapporto sottolinea la necessità di:
“[…] rivedere radicalmente le spese finanziate dal bilancio dell’Unione. Quest’ultimo dovrebbe concentrare le spese sui settori economici e sociali nei quali potrà contribuire maggiormente alla crescita e alla solidarietà in Europa. Ciò implica una cesura rispetto alle spese tradizionali (come la PAC), e si potrebbero riunire le spese di bilancio dell’Unione in tre strumenti (o fondi) nuovi […]”.(Sapir et al., 2004, p. 302).
“La struttura del bilancio […] comporta una riduzione molto sensibile degli importi destinati all’agricoltura. Si tratta di un cambiamento radicale rispetto alla situazione attuale, giustificato da quattro motivi. Anzitutto, l’attuale quota della PAC è talmente ingente da rendere impossibile, a meno di controlli più drastici, una riassegnazione significativa delle risorse nel quadro di un bilancio dell’Unione di entità pari a quella attuale. In secondo luogo, la PAC ha progressivamente cessato di essere una politica distributiva in grado di incentivare l’efficienza e la produzione, per favorire invece una determinata categoria di cittadini. Fin dal 1987, il rapporto Padoa-Schioppa rilevava quanto segue: “Si tratta di un’anomalia di sistema, giacché la Comunità … non è in grado di porre in essere politiche distributive a livello di singoli o di piccole imprese. Una perequazione efficiente dei redditi richiede un’amministrazione circostanziata a livello individuale e una coerenza rispetto alle caratteristiche del regime d’imposizione sul reddito e del regime previdenziale, tutte cose cui la Comunità non è in grado di provvedere. La Comunità si è in tal modo sostituita agli Stati membri, il che contrasta con i principi fondamentali di sussidiarietà e di vantaggio comparativo” […]. Una terza considerazione è che la grande varietà di redditi, di densità demografiche e di condizioni climatiche all’interno dell’Unione comporta un’estrema eterogeneità in fatto di preferenze, e tutto questo rende difficile attuare una politica agricola unica da Bruxelles. Altrettanto dicasi per la redistribuzione interpersonale. A maggior ragione, la redistribuzione interpersonale entro un singolo settore d’attività è un compito estremamente complesso a livello dell’Unione. Da ultimo, la PAC non sembra conforme agli obiettivi di Lisbona, nel senso che il suo contributo alla crescita e alla convergenza a livello dell’Unione resta al di sotto dell’obiettivo fissato per la massima parte delle altre politiche. Continuare a finanziare la PAC ai livelli attuali equivarrebbe a non tener conto del contributo ridotto che essa dà al conseguimento degli obiettivi di Lisbona rispetto ad altri contributi potenzialmente molto più rilevanti, che possono venire dalle altre politiche generatrici di crescita che abbiamo descritto in precedenza. Esistono quindi ottime ragioni per decentrare la funzione distributiva della politica agricola comune verso gli Stati membri, come già avviene per tutte le altre politiche distributive. Al tempo stesso, l’aiuto nazionale decentrato a favore degli agricoltori dovrebbe rispettare le norme dell’Unione in materia di aiuti di Stato, essere compatibile con il mercato comune e non falsare la concorrenza” . (Sapir et al., 2004, pp. 305-306).
“Nel 2002 l’agricoltura contava circa 14 milioni di addetti. Supponendo che il 5-10% di essi abbia diritto a beneficiare del fondo di ristrutturazione dell’Unione, per un importo che anche in questo caso si aggirerebbe sui 5.000 euro, l’aiuto rappresenterebbe uno 0,05% del PIL dell’Unione […] Infine, il pesante retaggio del passato è tale che non è possibile interrompere repentinamente il sostegno dell’Unione all’agricoltura, e occorre quindi prevedere un periodo di transizione per porre fine agli aiuti. A tale scopo, in via transitoria, si potrebbe destinare all’agricoltura un sostegno comunitario pari a uno 0,10% del PIL dell’Unione”. (Sapir et al., 2004, pp. 312-313).
E’ il caso di ricordare che la spesa agricola nel 2003 ammontava allo 0,43% del PIL dell’UE e, in base alle proiezioni della Riforma Fischler per il 2013, dovrebbe attestarsi comunque allo 0,33% del PIL comunitario.

Riferimenti bibliografici

  • Blair T., Programme of the British Presidency, 23 giugno 2005 [link al sito]
  • Sapir A., Aghion P., Bertola G., Hellwig M., Pisani-Ferry J., Rosati D., Viñals J., Fallace H. (2004), Europa, un’agenda per la crescita – Rapporto Sapir, Società editrice il Mulino, Bologna. L’edizione originale in inglese è uscita nel mese di luglio del 2003 ed è pubblicata nel sito: [link al sito].
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