Politiche e governance nei piccoli comuni calabresi

Politiche e governance nei piccoli comuni calabresi
  Istituto Nazionale di Economia Agraria

Introduzione

A seguito del recente decentramento di funzioni da parte delle regioni agli enti locali le competenze programmatorie e gestionali dei comuni sono aumentate configurando un nuovo scenario istituzionale. I comuni hanno molteplici opportunità di sviluppo ma, talvolta, si alzano barriere di tipo culturale, economico-finanziarie, amministrative e politiche che non permettono al territorio di innescare circuiti di sviluppo. D’altra parte i processi di cambiamento degli ultimi decenni hanno determinato profonde differenziazioni territoriali.
Il 72% dei comuni italiani ha meno di 5000 abitanti e rappresenta una ricchezza insediativa che però conosce da tempo fenomeni di spopolamento, impoverimento e relativo invecchiamento della popolazione. Ciò implica per l’ente difficoltà sia di tipo gestionale, in termini di servizi da erogare, sia di programmazione economica e sociale. Tali fenomeni si riscontrano anche in numerose nazioni dell’Unione Europea che hanno già avviato politiche locali e nazionali d’intervento per frenare i fenomeni di spopolamento dei piccoli centri. In Italia, la Camera dei Deputati, nella seduta dell’aprile 2007, ha approvato un disegno di legge per la valorizzazione e il sostegno dei piccoli comuni con lo scopo di promuoverne e sostenerne le attività economiche, sociali, ambientali e culturali. Ciò pone nuovi interrogativi ed esigenze conoscitive riguardo ad una classificazione dei piccoli comuni e una loro differenziazione territoriale. Vi è, infatti, una crescente consapevolezza che per poter adeguatamente pianificare il territorio bisogna avere conoscenza delle sue caratteristiche e delle interrelazioni esistenti tra i diversi sistemi territoriali.
L’INEA (sede regionale della Calabria) sta conducendo un progetto di ricerca sui piccoli comuni calabresi. L’articolo riporta alcuni risultati e riflessioni di questo lavoro, che è ancora in corso, ed il cui obiettivo principale è l’individuazione delle cause specifiche che hanno determinato la situazione di ritardo di sviluppo dei piccoli comuni calabresi, al fine di proporre qualche elemento di riflessione sulle condizioni per un loro sviluppo socio-economico alla luce delle politiche e dei modelli di governance che essi hanno conosciuto dal dopoguerra ad oggi. In Calabria, infatti, sono state sperimentate sia politiche esogene (incentivazioni finanziarie e interventi infrastrutturali) sia politiche endogene. Secondo diversi autori, queste ultime sono state di due tipi: una di tipo particolaristico e clientelare, che spesso si è accompagnata alla politica esogena; l’altra derivante da un cambiamento della politica pubblica che ha sostituito al paradigma dello sviluppo dall’alto quello dello sviluppo locale dal basso, negoziato e concertato.

Lo spopolamento

I piccoli comuni rappresentano l’80% dei comuni e il 34% della popolazione calabresi (Tabella 1). Il loro andamento demografico è caratterizzato da un progressivo spopolamento che inizia nell’immediato dopoguerra (Tabella 2). Infatti, se la popolazione regionale rimane stabile in cinquant’anni intorno ai 2 milioni di abitanti, cambia nel corso degli anni la sua distribuzione tra grandi e piccoli comuni e sul territorio. Per quanto riguarda il primo aspetto, nel lungo periodo (dal 1950 ad oggi) aumenta il numero di piccoli comuni (da 306 a 326) e diminuisce la loro dimensione media (da 2700 a poco più di 2000 abitanti); al contrario, i comuni di più grandi dimensioni aumentano la loro densità di popolazione ma diminuiscono in numero (Tabella 2).
Per quanto riguarda la distribuzione della popolazione sul territorio, la crisi dei piccoli comuni inizia negli anni cinquanta con la cosiddetta “crisi dei presepi” (F. Compagna, 1980), con riferimento ai piccoli centri interni, “vicini ma inaccessibili” (G. Soriero, 1980). Da quegli anni, tale crisi diventa la nota dominante della regione. Essa si riversa a valle, con l’utilizzo intensivo delle pianure e dei litorali: quei centri isolati adesso si toccano, ma si tratta di una contiguità solo edilizia perché essi continuano ad essere piccoli e separati dal punto di vista economico e socio-culturale. Questo squilibrio territoriale, nato in quegli anni e che caratterizza la regione, è il risultato delle politiche macroeconomiche che si sono susseguite dagli anni cinquanta che ne hanno accentuato i caratteri e di cui parleremo diffusamente nel paragrafo successivo.

Tabella 1- Incidenza dei piccoli comuni in Calabria

Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimenti sulla popolazione

Tabella 2 - Andamento demografico dei comuni calabresi

Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimenti sulla popolazione

La tradizione

L’intervento straordinario caratterizza la politica di sviluppo territoriale del Mezzogiorno nel dopoguerra. Si tratta di una politica settoriale, pensata da un ristretto gruppo di tecnocrati, gestita dalla Cassa per il Mezzogiorno, anche per la scarsa fiducia nell’amministrazione ordinaria. La classe dirigente locale, completamente estranea sia alla fase di programmazione sia a quella di gestione, diventa, negli anni, mera mediatrice con la politica centrale, soprattutto in funzione delle risorse finanziarie da ridistribuire a livello locale, anche a scopi clientelari.
La politica dell’intervento straordinario in Calabria è caratterizzata da interventi di tipo prevalentemente infrastrutturale e da una scarsa incentivazione dell’attività industriale. Diversi autori sostengono che essa non è stata una politica per lo sviluppo ma una politica esclusivamente finalizzata a creare circuiti alternativi di mercato del lavoro. Con il grande cantiere si è voluto ridurre l’autonomia dei ceti produttivi nelle campagne, rallentare la formazione di nuove imprese e incanalare forza lavoro nei lavori pubblici in modo da rendere disponibile una massa fluttuante di popolazione o per il reimpiego in altri cantieri o per l’emigrazione. Il grande cantiere degli anni cinquanta prepara pertanto l’esodo degli anni sessanta verso il Nord e il boom dei lavori pubblici nei grossi centri della regione. Sono i centri interni che subiscono le maggiori perdite in termini di riduzione delle attività economiche e di emigrazione. In particolare, nei centri montani e collinari s’interviene attraverso la legislazione speciale per la realizzazione d’opere per la sistemazione dei bacini e dei corsi d’acqua che non rimuove le cause strutturali del sottosviluppo, ma cerca di rispondere alle situazioni d’emergenza. Scarsa consistenza ha in Calabria la politica d’incentivazione industriale che, anche in questo caso, è caratterizzata da una forte connotazione territoriale: il 95% degli investimenti agevolati è assorbito dalle zone costiere e dalle aree intorno ai capoluoghi. Il forte ridimensionamento del settore manifatturiero calabrese negli anni cinquanta, che continua e si accentua negli anni sessanta e settanta, riguarda così soprattutto le zone interne che registrano un fortissimo calo demografico, a differenza dal resto della regione. Il debole tessuto produttivo calabrese, costituito da piccole imprese artigianali del settore alimentare, del vestiario, dell’abbigliamento e del legno, che lavorano per il mercato locale, in assenza di un’adeguata politica d’incentivazione, non regge all’inserimento nel mercato nazionale (l’Italia del Nord viveva il suo miracolo economico). “Scompaiono così insieme alla miriade di piccole imprese manifatturiere artigianali i potenziali distretti industriali meridionali" (D. Cersosimo, 2000). Al contrario, cresce l’attività edilizia grazie alle opere pubbliche. Alla crisi dei settori tradizionali operanti essenzialmente sul mercato locale non corrisponde in Calabria un’espansione dei settori moderni, come invece succede nel resto del Mezzogiorno.
Negli anni settanta in Calabria si attua la politica dei grossi poli industriali, proprio quando in altri territori fallisce a causa della crisi del modello fordista e da più parti si afferma la necessità di sostenere le piccole e medie imprese spesso integrate in “distretti industriali”. Lo spazio apertosi per le piccole imprese ha così posto l’attenzione sulle condizioni non economiche dello sviluppo. Come spiega Trigilia, lo sviluppo della piccola impresa fa emergere l’importanza della dimensione locale: il territorio come sistema di interrelazioni particolari tra fattori economici, socio-culturali e politici che influenzano lo sviluppo (Trigilia, 1988). Le nuove opportunità per le piccole imprese hanno una portata generale ma non sono colte ovunque con la stessa intensità: questa differenza territoriale mette in luce l’importanza del contesto istituzionale locale per il processo di sviluppo.
Se si tiene conto che la crescita di nuove iniziative e l’incremento della produzione industriale sono venuti negli ultimi anni soprattutto dall’economia della piccola impresa, si può ragionevolmente supporre che la crisi delle piccole imprese calabresi degli anni cinquanta e sessanta – che ha colpito soprattutto i piccoli centri – e la limitata crescita negli anni settanta e ottanta abbiano contribuito a frenarne le possibilità di sviluppo autopropulsivo.

L’innovazione

Dal punto di vista della programmazione dello sviluppo, il 1992 segna la fine definitiva della politica dell’intervento straordinario affidato ad istituzioni speciali, con lo scioglimento della Cassa del Mezzogiorno.
Alla fine degli anni ottanta si assiste ad innovazioni istituzionali ispirate al federalismo che trasferiscono progressivamente poteri dal centro agli enti periferici. Questo processo culmina con la riforma costituzionale del Titolo V del 2001. Essa sancisce, sulla base del principio di sussidarietà, la pari dignità istituzionale degli enti pubblici territoriali: per le funzioni amministrative, essi sono posti, infatti, sullo stesso piano di regioni e Stato. In particolare, al comune è attribuita competenza amministrativa generale salvo che, per assicurarne un esercizio unitario, essa sia conferita a livelli istituzionali superiori, secondo un riparto dei poteri pubblici dal basso verso l’alto. Il comune, che è l’ente più vicino ai cittadini, diventa così “il primo mattone della Repubblica” (F. Gallo, 2002).
Dal punto di vista della programmazione, cambia sia la politica di sviluppo territoriale nazionale che la politica regionale europea. Alla base del nuovo modello delle politiche e degli strumenti di sviluppo locale vi è l’assunzione secondo cui una lunga pratica di interventi pubblici settoriali e centralistici hanno provocato un deficit di organizzazione e dinamismo a livello territoriale. Per quanto riguarda la politica nazionale, gli anni novanta sono gli anni dei patti e dei contratti d’area che prevedono la concertazione degli interventi a livello territoriale.
Contemporaneamente, è riformata la politica regionale europea che viene, contestualmente, dotata anche di fondi più cospicui, seppure con regole stringenti di programmazione pluriennale, di partenariato istituzionale e sociale, di monitoraggio e di valutazione degli interventi. Essa ha trovato attuazione nella programmazione calabrese 2000-2006, con i POR e, all’interno di questi, con i PIT (Patti Integrati Territoriali), con i PIAR (Piani Integrati per le Aree Rurali), con i PIF (Piani Integrati di Filiera) ma anche con il programma Leader e le altre iniziative comunitarie quali Equal e Interreg.
In Calabria, l’80% dei piccoli comuni è coinvolto nel programma Leader. Esso ha quindi costituito un’importante opportunità per sperimentare nuove forme di governance territoriale. Gli studi sull’esperienza Leader in Calabria, mostrano che i partenariati Leader sono cresciuti nella capacità di proporre programmi maggiormente legati alle esigenze del territorio. Infatti, se si considera il tipo di programma di sviluppo presentato, nel passaggio dal Leader II (1994-1999) al Leader Plus (2000-2007) scompare la corrispondenza tra programmi e gruppi promotori. L’esperienza Leader II, grazie all’animazione sociale, ha permesso di conoscere meglio il territorio, di operare delle scelte e coinvolgere tutti i soggetti nell’attuazione del programma del Leader Plus. I programmi del Leader Plus diventano così tutti specializzati nelle misure d’investimenti nelle imprese e di valorizzazione dei prodotti. Per quanto riguarda, invece, la legittimazione del partenariato Leader sul territorio, la programmazione negoziata in Calabria ha visto il proliferare di diversi strumenti anche all’interno di uno stesso programma. Così accade che all’interno di un medesimo territorio coesistono diverse istituzioni e diversi programmi per lo sviluppo; al contempo, si forma un partenariato diverso per ciascun programma. Non esiste, in altri termini, una continuità istituzionale nella politica di sviluppo locale. In particolare, gli enti pubblici locali (i comuni) sono presenti nei partenariati a caccia di visibilità politica e di finanziamenti e non assumono impegni specifici riguardo lo sviluppo dell’area.

I piccoli comuni tra tradizione e innovazione

Da una prima e generalizzata lettura, emerge una situazione molto composita, ma che comunque permette di formulare delle prime riflessioni sui possibili modelli di governance per i piccoli comuni.
E’ evidente che con la riforma del Titolo V della Costituzione ha preso forma un sistema a rete in cui le diverse istituzioni si integrano e collaborano secondo i principi della partecipazione, della sussidiarietà, della collaborazione e dell’efficienza. In questo nuovo quadro i comuni assumono il ruolo di protagonisti dello sviluppo dei propri territori. La programmazione negoziata ha offerto politiche di sviluppo e strumenti innovativi basati sui principi dello sviluppo dal basso, integrato e concertato. I piccoli comuni hanno partecipato all’attuazione di questi nuovi strumenti. La partecipazione ai tavoli della concertazione ha probabilmente accresciuto la loro consapevolezza di poter contribuire alla determinazione del proprio sviluppo. Spesso, però, questa consapevolezza non si è tradotta in comportamenti concreti. Al nuovo schema socio-istituzionale non si è accompagnato cioè uno sviluppo territoriale. Dai documenti di valutazione delle politiche di sviluppo dei POR e dei PSR emerge un quadro deludente degli interventi: i piccoli comuni si limitano a offrire infrastrutture (strade rurali, elettrificazione) e sono lontani dal saper integrare le risorse sui territori, innalzare la qualità della vita, offrire alternative di reddito alle popolazioni. Quando partecipano alle politiche insieme ai comuni di maggiori dimensioni soffrono di dipendenza e referenzialità accontentandosi di interventi di piccola entità e comunque non decisivi per lo sviluppo. In altri termini, essi restano in bilico tra politiche innovative e governance di tipo tradizionale.
Una governance adeguata al quadro istituzionale e di politica pubblica che abbiamo definito innovativo richiede per i piccoli comuni due condizioni necessarie:

  • una forte capacità di coordinamento e di proposta progettuale rispetto ai diversi livelli sovracomunali della programmazione (provincia, regione);
  • una reale partecipazione dei cittadini alle scelte collettive locali.

Secondo diversi autori di economia pubblica, il decentramento amministrativo e fiscale è una condizione necessaria ma non sufficiente per garantire un’autentica autonomia locale. Se, infatti, la politica locale è subordinata a organi centrali di partito, il sistema è solo formalmente decentrato fra enti diversi poiché il politico locale deve rispondere del proprio operato all’organo centrale di partito e non alla collettività che rappresenta. In definitiva, se il sistema politico è accentrato, il federalismo amministrativo e fiscale è imperfetto in quanto non riesce a realizzare una sostanziale autonomia locale.
Il modello innovativo idealmente costruito dovrebbe compensare le criticità a livello locale con una forte e autorevole capacità di governo a livello regionale in termini di rigore nella selezione dei progetti e nella valutazione della loro coerenza con la strategia dei programmi, di rispetto dei criteri di concentrazione e integrazione delle risorse e degli interventi, di capacità di verifica in itinere de risultati. Da questo punto di vista, il campo delle regole deve essere trasparente e dettagliato soprattutto rispetto ai metodi di costruzione delle politiche, agli strumenti di attuazione e di monitoraggio, alle procedure di valutazione dei progetti. Laddove però il livello sovracomunale non è solo fonte normativa, ma esprime anche un attore in campo – interessato a influenzare la spesa pubblica locale secondo fini differenti dallo sviluppo territoriale– il sistema perde una condizione necessaria, cioè l’autonomia locale, per funzionare in modo efficace.
La programmazione negoziata ha contribuito ad avviare una mobilitazione culturale, promuovendo il confronto tra istituzioni ai diversi livelli e attori locali. Tuttavia, non si è prodotta finora una mobilitazione in grado di riprodurre veri e propri processi di sviluppo istituzionale. I diversi partenariati creati sembrano andare alla ricerca di propri spazi autonomi per accedere alle risorse. Un partenariato di tipo Leader, che preveda cioè una forte partecipazione della società civile quale condizione necessaria, sembra essere lo strumento che meglio di altri possa creare gli spazi per una maggiore autonomia locale nella scelta delle politiche di sviluppo territoriali.

Riferimenti bibliografici

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  • Viesti G. (2003): Abolire il mezzogiorno, Bari, Editori Laterza
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