L'agricoltura che vorremmo dopo la riforma della PAC

L'agricoltura che vorremmo dopo la riforma della PAC

Nei mesi precedenti l'entrata in vigore della nuova PAC, la discussione, e non solo in Italia, è stata quasi totalmente impegnata a risolvere il famoso dilemma “disaccoppiamento sì o disaccoppiamento no”, trascurando di affrontare il vero problema di fondo e, cioè, cosa sarà l'agricoltura italiana dopo che la riforma avrà cambiato il quadro di riferimento che ha guidato il suo sviluppo negli anni trascorsi e soprattutto cosa la politica italiana vuole che diventi e quali strumenti dovranno essere adottati per raggiungere gli obiettivi fissati, se obiettivi le saranno dati.
Tutti sono consapevoli ormai, che l'agricoltura europea e quella italiana sono state poste di fronte a una svolta epocale. Altro che riforma a medio termine, Fischler con la sua riforma ha realizzato una e vera e propria rivoluzione che ha costretto l'agricoltura dell'Europa a 15 ad accettare l'allargamento ad Est e l'abbandono degli strumenti tradizionali di garanzia dei prezzi e di difesa alle frontiere, sia pure quest'ultima con la gradualità consentita dagli accordi WTO.

Gli effetti della riforma sulle strutture dell'agricoltura italiana

La prima domanda da porsi è: quale agricoltura riuscirà a resistere alla competizione che dovrà essere affrontata all'interno della nuova Europa a 25 e sul mercato mondiale? E' vero che la vecchia PAC favoriva, attraverso il sostegno dei prezzi, le posizioni di rendita delle aziende più efficienti, ma consentiva anche alle aziende marginali di resistere a condizione che continuassero a produrre. Il diritto alla fissazione del titolo all'aiuto ad aziende non inferiori a 0,3 ettari come stabilito dal D.M. 5 agosto 2004; la condizione di dover rispettare le sole norme di buona conduzione agronomica per conservare tale diritto; la distribuzione generalizzata dei premi per l'agricoltura di qualità in applicazione dell'art. 69 attuata dal D.M. 24 settembre 2004; per quale ragione dovrebbero spingere molte aziende marginali a continuare a produrre? E' probabile quindi, che nei prossimi anni, in relazione anche all'evoluzione della situazione economica del paese, si possa assistere ad una redistribuzione della proprietà, all'aumento dell'affitto o alla nascita di forme societarie per la conduzione dei terreni a fini produttivi.
Le vere difficoltà dovranno essere affrontate dalle aziende professionali, quelle aziende che per dimensione economica stanno già sul mercato e dovranno affrontare la competizione interna alla UE allargata e sul mercato mondiale. Le stime più ottimistiche calcolano in 150-200 mila queste aziende, le quali dovranno puntare alla riduzione dei costi, all'innovazione produttiva, all'organizzazione logistica e di mercato.

Cosa manca alla politica agraria del nostro paese

Ed è su questo terreno che la nostra politica agraria è ancora priva di efficaci strumenti operativi. Dopo le affermazioni di principio della Legge di Orientamento del 2001 e del suo aggiornamento con il DLgs. n. 99/2004, organizzazioni di produttori, organismi ed accordi interprofessionali sono ancora privi di una normativa di attuazione. La stesso decreto legislativo sulla regolazione dei mercati appena approvato, che ha messo in pensione la vecchia legge n. 88/88 sugli accordi interprofessionali, non ha deciso ancora chi avrà il potere di firmare i contratti, rimandando ad ulteriori provvedimenti. Anche i Consorzi di tutela, a causa della rigida posizione dell'Antitrust, più frutto dell'ignoranza che di una corretta analisi della situazione di mercato dei prodotti tutelati, non possono regolare l'offerta dei loro associati, come avviene in altri paesi della UE. L'organizzazione dell'offerta agricola e agroalimentare può contare, poi, su un sistema di mercati all'ingrosso, che è ben lontano dalle piattaforme richieste dalla moderna grande distribuzione, la quale è diventata, in assenza di validi interlocutori, il soggetto che controlla alcune delle principali filiere agroalimentari, malgrado le illusioni dei famosi contratti di filiera finanziati dal nostro Ministero.
Questi sono soltanto alcuni dei fattori di insuccesso della nostra offerta agricola, a cui vanno aggiunti gli aspetti di criticità delle strutture di produzione, che abbisognano di innovazioni e di investimenti, il cui flusso ha subito dei rallentamenti negli ultimi anni a causa della crisi generale del paese.

Le politiche del “primo” e del “secondo” pilastro devono integrarsi

Purtroppo nei mesi trascorsi si è parlato troppo del “primo pilastro”, vale a dire di premio unico e di riforma delle principali organizzazioni comuni di mercato, e troppo poco del “secondo pilastro”, cioè, di interventi strutturali e di azioni per lo sviluppo rurale, dimenticando che gli obiettivi della nuova PAC possono essere raggiunti soltanto attraverso l'integrazione delle due linee di azione. Un primo esempio della possibile integrazione è la “condizionalità”, vale a dire quei comportamenti che l'imprenditore deve adottare nel rispetto della sanità pubblica, dell'ambiente e del benessere animale che nella nuova PAC diventano criteri di gestione obbligatori dai quali dipende il diritto dell'impresa a beneficiare del pagamento unico. Peraltro, il rispetto delle misure agroambientali è necessario per poter concorrere ai sostegni previsti dal secondo pilastro. Come si vede, le condizioni destinate a garantire la “multifunzionalità” dell'attività agricola diventano criteri di gestione dell'impresa in quanto concorrono a modificare le condizioni di convenienza delle scelte imprenditoriali.
Tenuto conto dei vecchi e nuovi problemi che la riforma imporrà di affrontare, le Regioni dovranno cominciare a delineare nei prossimi mesi i nuovi Piani di Sviluppo Rurale, che sono i veri strumenti di attuazione del “secondo pilastro”. Tuttavia, poco è stato finora detto a livello nazionale affinché questi strumenti, nei quali si esprime l'autonomia regionale, possano trovare un comune quadro di riferimento per raggiungere degli obiettivi condivisi. La cosa è tanto più strana, dato che è a tutti evidente che, mai come in questi mesi, il Ministero è stato il vero mattatore delle scelte di politica agraria a livello nazionale, malgrado l'esistenza del famoso tavolo Stato-Regioni, che in molti casi è parso troppo timido o assente. Per le politiche di carattere strutturale non si può arrivare all'ultimo momento come per la scelta del disaccoppiamento, ma bisogna avere il tempo per far condividere ai diversi attori della politica agraria nazionale gli obiettivi e le misure per raggiungerli.

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