Premessa
Ho letto la Nota Pastorale con una significativa attesa.
Sono parte di questo “mondo”: come membro di una famiglia agricola e, da circa trenta anni, membro a vario titolo delle organizzazioni agricole in Italia e in Europa.
Sono anche membro della Comunità ecclesiale, con quella precisa consapevolezza riassunta nell’espressione: “noi, siamo chiesa”; con le responsabilità, i doveri, i diritti conseguenti.
Ho letto, quindi, la Nota Pastorale con partecipazione e cura.
Recentemente, peraltro, in uno studio pubblicato dall’Associazione “Alessandro Bartola”, ho avuto modo di fissare alcune sintetiche riflessioni sul “mestiere di agricoltore”, con un approccio prevalentemente etico-politico, incentrato su questa idea-chiave: che questo mestiere, oggi, non è più separato dalla società, con la quale interloquisce incessantemente. Questo approccio rinvia ad un cambiamento di mentalità ed esige un riposizionamento umano di questo antico mestiere.
Ho configurato questo percorso come una “ricerca di senso” e ne ho intravisto quattro tappe:
- una continua rilegittimazione nella società, attraverso una incessante riprogettazione di noi stessi e di questa professione;
- il senso del limite;
- il senso della misura;
- una serena consapevolezza: l’incessante compito di rilegittimare se stessi e il proprio mestiere va ben oltre il mondo agricolo.
Ho sentito l’urgenza delle nuove responsabilità e ho ritenuto di riassumerle in queste quattro fondamentali:
- il futuro: una responsabilità verso le generazioni dell’agricoltura di domani;
- certezza: una responsabilità verso la scienza e verso le innovazioni;
- il mondo: una responsabilità paritaria verso chi è dentro e verso chi resta fuori dalle profonde trasformazioni nel mercato mondiale degli alimenti;
- la terra: una responsabilità verso le risorse che appartengono a tutti, che non sono infinite e che non sono riproducibili.
Ho letto, allora, la Nota Pastorale con consapevolezza.
La Nota Pastorale
Il documento della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), del 19 marzo 2005, ha il carattere di una “Nota Pastorale” e porta il titolo (una sorta di nome proprio): “Frutto della terra e del lavoro dell’uomo”. Il sottotitolo (una sorta di nome comune): “Mondo rurale che cambia e Chiesa in Italia”.
Il documento viene presentato da Gian Carlo Maria Bregantini, vescovo di Locri-Gerace, presidente della Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace.
Si compone di una Introduzione e di tre parti: 1. La terra e l’uomo; 2. Il mondo rurale e l’ecologia; 3. Per una nuova evangelizzazione del mondo rurale; e di una Conclusione.
Le prime due parti presentano, per sommi capi, alcuni tra i più rilevanti cambiamenti che hanno caratterizzato e caratterizzano, ora, il complesso agricolo e rurale; prevalentemente (quasi esclusivamente) italiano.
Dalla globalizzazione, all’allargamento dell’Unione Europea, alla qualità, all’innovazione tecnologica e culturale, alle forme nuove di accoglienza, all’ecologia.
Questo ultimo tema, peraltro, assume un rilievo da capitolo a sé (il secondo): nel cui ambito sono ricomprese considerazioni e valutazioni attinenti anche a: organismi transgenici, sicurezza alimentare, prodotti tipici, difesa del territorio, i giovani, l’acqua.
La terza parte è quella squisitamente pastorale (ma anche le prime due parti contengono sia riferimenti biblici sia, en passant, rapide considerazioni teologiche), nella quale vengono tratteggiate le linee teorico-pratiche della comunicazione/annuncio/messaggio.
Scopo di questa mia nota è “interrogare il documento e dialogare con esso”; con esclusivo riferimento alla prima e seconda parte: l’ interpretazione dei mutamenti in atto.
Alcuni interrogativi a proposito della terminologia
“La gente delle campagne”, “la gente della terra”
Esistono, nella concretezza socio-economica, queste realtà? A cosa, concretamente si rinvia con questi termini? Sono solo espressioni letterarie oppure anche e soprattutto “categorie valoriali” che si suppongono/desiderano/vogliono rendere ancora fruibili? Parrebbe la seconda cosa, infatti, a fronte di cambiamenti che vengono giustamente riconosciuti come “epocali”, si evidenzia il rischio di travolgimento di “identità e valori”. Ma quali sono queste/i specifiche/ci “identità e valori”? Mi chiedo: si userebbero tranquillamente termini di questo tipo per rivolgersi a uomini e donne che lavorano nell’industria, nei servizi, nell’artigianato?
Non sono, forse, altre le categorie interpretative della vita, della posizione socio-economica e delle configurazioni emozionali più ampie e più complesse? Esempio: la cittadinanza! E’, questa, un’espressione che evoca responsabilità, diritti, doveri, valori e (seppure con prudenza) identità. Con il vantaggio duplice: di non perdere mai la consapevolezza dell’unitarietà di destino delle persone, tutte, alle quali ci si vuole rivolgere con un messaggio (dopo aver fatto lo sforzo, mai compiuto totalmente, di capirne la collocazione, le ansietà, le attese); e di tentare veramente di fare i conti, in positivo e in modo attivo con i cambiamenti che, lo si voglia o no, hanno prodotto effetti non eludibili.
Io sento che il mestiere dell’agricoltore ha sempre più bisogno di nuove legittimazioni, di alleanze nuove, di partnership ideali, prima ancora che economiche. Una rileggittimazione nella società attraverso una incessante riprogettazione di noi stessi e di questa nostra professione. Al progetto bisogna dare un ancoraggio forte, collegandolo ad una dinamica politica e valoriale più vasta: quella dei diritti di cittadinanza.
“Piccoli”, “poveri”, “lacrime del mondo rurale”
Analogamente, mi suscita perplessità l’uso di questi termini. Ovviamente va apprezzato uno sforzo di prossimità, sensibile e attenta alle persone verso le quali si vuole indirizzare un messaggio, che è, per definizione, “buona notizia”. Ma lo sforzo, contestuale, di essere veri e sinceri nel colloquio, credo che sia ugualmente apprezzabile. E per quanto mi riguarda (anche nel senso di essere io stesso uno degli interlocutori di questo messaggio) opto decisamente per un approccio sobrio e trasparente.
Dunque: la professione agricola si presenta variegata ed esposta con differenti gradi di forza (che in alcuni territori ed in alcune aree produttive, merceologiche e territoriali risultano pressoché minime e, quindi, si configurano come aree di debolezza economica, sociale ed esistenziale; in altre, presentano rilevanti occasioni di reddito e di elevata posizione socio-economica) ai cambiamenti e, in particolar modo, alla crescita della competizione internazionale. Ma questa connotazione è di molte altre categorie sociali; spesso in situazioni anche più critiche.
Una “Europa sentita ancora lontana”
Per gli agricoltori, “Europa” significa immediatamente: politica agricola comune: nel 2006, il 45% dell’intero bilancio della UE; prossimamente (2007-2013) si attesterà mediamente al 38%. Recentemente, questa antica politica comune (uno dei pilastri storici della costruzione della Comunità Europea, prima, e dell’Unione, successivamente) è stata sottoposta ad una riforma piuttosto incisiva. Di questa politica è stato detto tutto e il contrario di tutto. L’ultima riforma separa il sostegno dal prodotto; e conferma ai produttori storici l’aiuto a prescindere dalla continuità a produrre; è sufficiente possedere un terreno a cui collegare il “diritto” al sostegno. Personalmente non considererei “scandaloso” un giudizio negativo, di ordine morale di un simile sistema (“si può anche non produrre”) da parte di una Nota Pastorale dei vescovi.
Il sistema, peraltro, mantiene una squilibrata (la Nota Pastorale potrebbe, correttamente, dire: ingiusta) distribuzione di aiuti che conferma un notevole sostegno ad una professione (pagato da altre professioni, spesso con livelli di reddito inferiori), che storicamente (l’approvvigionamento alimentare) era legittimato dal fatto stesso di produrre; ma che ora, al contrario, deve essere legittimato da altre funzioni e beni sociali prodotte dalla/e professione/i agricolo-rurali.
Sorvolando sulla lunga storia della politica agricola comune, queste “nuove funzioni” dell’agricoltura potrebbero correttamente essere ritenute non adeguate a giustificare “moralmente” la notevole solidarietà della società. E’ questa la valutazione dei vescovi? Non viene detto; anzi in altre parti del documento mi è parso di leggere un giudizio positivo della recente evoluzione della politica europea per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. E allora?
Mi è parso, pertanto, di riscontrare in questa terminologia una sorta di cedimento (inconsapevole) ad una moda populistica che monta contro l’Europa tecnocratica-anticattolica-fredda, ecc.. Rispetto all’Europa, dal mio punto di vista, le cose più “cristiane” le ho sentite e lette, in questi ultimi tempi, dall’ex-commissario Monti: a proposito del rispetto dei parametri di Maastricht e delle regole per una sana economia, in quanto patrimonio da gestire con la responsabilità verso le future generazioni.
A proposito della “vicinanza”, finalizzata ad “aiutare il mondo rurale ad orientarsi in un contesto…”
Non sarebbe più realistico dire (ed ovviamente non si tratta di una questione di vocabolario, bensì di sostanza) che si vuole rinnovare una nuova vicinanza per capire i cambiamenti? “La laicità non ha per missione quella di creare spazi svuotati dal religioso, ma di offrire spazi in cui tutti, credenti e non credenti, possano dibattere, tra l’altro del tollerabile e dell’intollerabile, delle differenze da rispettare, degli errori da evitare e tutto questo nell’ascolto reciproco” (Lettera delle Chiese cristiane francesi a Jacques Chirac).
Il modello interpretativo dei mutamenti
Le prime due parti della Nota Pastorale sono costituite da una lettura, molto di massima (sulla quale tornerò) della situazione, che non può che essere, da una parte, ricavata da studi e indagini di natura prettamente sociologica, economica, ecc. e, dall’altra, sottoposta a umani margini di errore.
Dico che ciò è non solo inevitabile, ma anche normale: si tratta di usare i “normali” strumenti di indagine della società, con paziente e graduale approccio di studio; con la esplicita consapevolezza che, come sempre, studiare le dinamiche della società umana comporta fare i conti con approssimazioni successive alla “realtà-verità” (ma questa impegnativa parola è meglio usarla il meno possibile, trattandosi di studio e indagine di fenomeni sociali !).
Da questo punto di vista avrei tenuto ben distinte l’analisi, dal messaggio. Mi spiego: attraverso la scelta delle chiavi di lettura della situazione concreta è possibile fare una precisa scelta di campo (cosa che anche una Nota Pastorale è bene che faccia, con trasparenza e … sottoponendosi ad inevitabili contestazioni). Successivamente (affiancandosi con discrezione e con amore – agape - alle storie di uomini e donne coinvolte in quelle situazioni concrete; con lo stile che viene insegnato dalla mirabile e indimenticabile pagina dei viandanti verso Emmaus!) annunciare la parola di Dio.
“I cristiani, infatti, non si distinguono dagli altri uomini né per il loro paese, né per la lingua, né per i costumi. Essi non abitano città proprie, non usano uno stile di vita speciale. (…) né essi si fanno promotori, come fanno gli altri, di una dottrina umana.” (Lettera a Diogneto)
Avrei preferito (anche come credente e membro della comunità dei credenti) che la collocazione in ambito biblico del mondo rurale fosse avvenuta “successivamente” alla fotografia della nuova configurazione sociale ed economica dello stesso. Sono consapevole della delicatezza della questione che pongo. Mi guida e mi anima in questo approccio, il rispetto profondo per l’impegno umano di “cittadinanza attiva” che i molteplici segmenti delle professioni agricole e rurali producono ogni giorno per rispondere alle nuove attese della società e per restare in campo e vivere dignitosamente. A questo coraggioso adattamento, i vescovi della Comunità Ecclesiale Italiana possono utilmente (e devono, in quanto rispondono – autonomamente - all’urgenza della loro specifica missione) inviare il messaggio distintivo dell’evangelo, con l’umiltà di chi cerca di mettersi al servizio di un’esperienza di vita già ricca di promesse e di valori.
Anche ”il fondamentale rapporto antropologico che lega l’uomo alla terra e viceversa” (modello interpretativo avvincente e che, peraltro, trova difficoltà ad essere convincente nell’era della tecnica pervasiva e intrusiva) è un dato storico, mutevole; come dimostrano, con molta evidenza, altri territori del pianeta, dove i mestieri agricoli sono esercitati, ancora con gradi di intensità “naturalistici” notevoli.
Alcune osservazioni nel merito
Sempre con riguardo alle prime due parti, desidero fare alcune specifiche considerazioni/osservazioni.
Il cambiamento
L’esigenza del cambiamento dentro il “mondo” rurale, nel documento risulta prevalentemente come un “di cui” – una conseguenza di: allargamento della Unione Europea, globalizzazione, ecc.. Io credo che “i mondi” agricolo-rurali debbano volere il cambiamento non in quanto: “non possono evitarlo”; ma perché: “è giusto che avvenga”!
Già agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, lo sbocco di un complesso processo di cambiamenti (economici, politici, sociali) evidenzia un quadro generale profondamente modificato rispetto a quello in cui le società occidentali si erano situate dopo il secondo conflitto mondiale; e anche che gli agricoltori sono significativamente toccati da questo mutamento di scenario, non configurandosi più come un mondo a parte.
Pur in presenza di una non diffusa consapevolezza di questo fenomeno - sia tra gli agricoltori, sia tra le loro forme di organizzazione e rappresentanza - l’avvio dei percorsi di internazionalizzazione, attraverso la liberalizzazione degli scambi commerciali, la crescente difficoltà delle politiche pubbliche a finanziare il sistema di organizzazione delle agricolture europee (la politica agricola comune), l’entrata in campo - all’inizio in forme e modi discontinui ed esclusivamente protestatari - di gruppi di pressione della società civile (consumatori, ecologisti, residenti non agricoli in territori rurali) che mettono in discussione il mondo agricolo, creano un contesto ai luoghi e alle forme della professione agricola di non “simpatia”, spesso di critica. All’inizio questa “novità” di ordine culturale (articoli sui quotidiani, dibattiti alle televisioni locali), sociale (contrasti tra categorie sociali) e politico (forz politiche che sono costrette a posizionarsi di fronte a questo dibattito) ha prodotto una classica reazione difensiva all’interno del mondo agricolo.
Il fenomeno si è confermato, nel tempo, come un evento definitivo.
I fattori, infatti, si sono rivelati di ordine strutturale e non più soltanto provenienti dall’esterno della professione-mondo agricolo. Gli studi rilevano, infatti, cambiamenti strutturali profondi: vere e proprie rotture.
La rottura demografica, con la forte riduzione della popolazione rurale; la rottura famigliare, con i nuovi ruoli dei componenti la famiglia e con i lavori all’esterno dell’azienda agricola; la rottura ambientale, con gli effetti negativi dell’agricoltura intensiva sull’ambiente; la rottura territoriale, dovuta alla eccessiva specializzazione produttiva di alcuni territori; e finalmente la rottura alimentare, che ha intaccato seriamente il rapporto di fiducia tra chi produce ed offre beni alimentari e chi li domanda e li consuma.
In prima istanza, pertanto, deve essere rilevata e sottolineata una esigenza di riposizionamento umano di questo antico mestiere in forza di una mutata relazione tra professione agricola e società. Anche di fronte al messaggio cristiano, è bene che sia assunto, con il suo autonomo valore anche di ordine morale, il consenso sociale quale paradigma valoriale di base su cui innestare dei trans-signicati distintivi. E non c’è dubbio alcuno (mucca pazza, diossina, trattamento etico degli animali, ecc.) che il mestiere agricolo-industriale abbia oggi bisogno di un nuovo consenso sociale che può scaturire solo da un rinnovato patto con la società. La parola-chiave, pertanto, che insieme a “cittadinanza” può dare nuova linfa sociale alla professione agricolo-rurale, è “responsabilità”.
Il mondo
Alla professione agricola di questa parte ricca del pianeta-che si chiama Europa- non verrà chiesto se ha mantenuto o accresciuto il benessere dei propri agricoltori, bensì qualcosa di più complicato e complesso e cioè se, conservando il benessere dei suoi agricoltori, ha contribuito alla stabilità del mondo. Ci viene chiesta la quadratura del cerchio da chi è dentro e da chi resta fuori dalle profonde trasformazioni nel mercato mondiale degli alimenti.
Io credo che qualunque tipo di messaggio alle professioni agricolo-rurali di questa parte del mondo non possa prescindere da questa collocazione nei “flussi” mondiali. Dal punto di vista delle analisi onde evitare una sorta di incomprensione strutturale (i percorsi tecnologici, a monte, e i commerci, a valle) delle evoluzioni nelle quali questi “mondi” (al plurale) sono coinvolti (minaccia e opportunità!).
Un messaggio di tipo valoriale (religioso e non) ritengo che possa/debba entrare nel merito. Ad esempio: sul grande negoziato del Commercio internazionale.
Vi è una questione di fondo: molti movimenti, nei quali vi è anche una importante presenza di cristiani e di cattolici, si oppongono (legittimamente) alle organizzazioni e alle iniziative collegate al commercio mondiale; ci sono in campo rilevantissime questioni teoriche (ad esempio la nozione e la prassi del “libero scambio”, applicate all’agricoltura ed al commercio degli alimenti) e pratiche (il riconoscimento dell’affidabilità democratica delle istituzioni preposte).
E ci sono cristiani e cattolici in ambo la parti della “barricata” (mi si perdoni la parola forte, ma non del tutto fuori luogo!); una Nota pastorale, pur lasciando il peso delle scelte, alla autonoma responsabilità delle coscienze dei credenti che vivono ed operano nei rispettivi campi, può ignorare il problema?
Abbiamo alle spalle il fallimento della Conferenza Ministeriale di Cancun. Gli aspetti propriamente negoziali sia del fallimento della Conferenza, sia del prosieguo del confronto sono noti; ma non tutte le lezioni sono state tratte. A Cancun gli interlocutori del negoziato (ci) hanno detto alcune cose: che i vecchi equilibri e rapporti di forza stanno cambiando; che il nostro messaggio sulla qualità degli alimenti giunge pressoché incomprensibile (anche per un certo snobismo) alle orecchie di altri mondi; che alcuni elementi da noi considerati eventuali concessioni, nel corso del negoziato (leggi: diminuzione/soppressione degli aiuti alle esportazioni), sono considerate, dalla controparte, politiche e misure da rimuovere come pre-condizione al negoziato stesso. Abbiamo scoperto che i paesi terzi percepiscono il modello di agricoltura europeo (con i suoi connotati di tipicità e di alta qualità - orgoglio della professione agricola europea - che l’Europa vuole riconosciuti e protetti dalle imitazioni e contraffazioni, attraverso nuove e precise regole internazionali) come una barriera; un modello, più o meno, connaturato alle forme e ai livelli di sostegno interno ai redditi degli agricoltori europei.
Questo collegamento è stato considerato dai più (commentatori, ovviamente, appartenenti al mondo di una parte negoziale: la nostra!), un corto circuito e un fuori tema. E, strettamente parlando, forse, anche a ragione. Ma resta il fatto!
E resta il messaggio: questi negoziati commerciali sono divenuti un luogo di confronto, oltre che tra forze economiche, anche tra modelli produttivi; le due cose reagiscono insieme ed insieme costituiscono carta negoziale e luoghi di riconoscimento reciproco. Mentre l’instabilità del contesto (guerre preventive e guerre pluriennali, terrorismi di varia natura, ecc.) mina quella base di vicendevole fiducia, che dovrebbe costituire l’humus promettente di buoni risultati! Quale è il contributo in questa direzione, dei “mondi” agricolo-rurali del’Europa?
L’Europa
La dimensione europea non è un optional, ma la condizione sia per comprendere i cambiamenti in corso, sia per impostare dei percorsi valoriali. Ignorare o glissare su questo dato non rende un buon servizio agli interlocutori. Ridisegnare, costantemente, i caratteri del modello agroalimentare del nostro paese è una necessità e un dovere per la/e professione/i agricolo-rurali nazionali; ma questa iniziativa economico-sociale-valoriale, non si può concretizzare se non in un esplicito (non implicito) contesto europeo. L’Europa Unita è la misura del cambiamento.
L’ecologia
Innanzitutto, il dato fondamentale e, ormai, definitivo: la tensione tra agricoltura e ecologia va considerata una variabile interna ai nostri mestieri agricolo-rurali; non dobbiamo-possiamo considerarli dei fuori tema, e neppure, temi aggiuntivi. Ecco il messaggio di fondo, che deve arrivare netto e chiaro!
Il documento, opportunamente, dà un rilievo notevole alla dimensione ecologica; tuttavia non mi hanno convinto le scelte fatte in merito alla sua enucleazione.
La agri-ecologia, peraltro, ha basi scientifiche quanto le moderne bio-tecnologie e la povertà (intesa come assenza e impossibilità dello sviluppo) deve essere considerata, oggi, uno dei principali problemi ecologici della terra. Ecco, lo stretto legame tra dimensione ecologica e dimensione mondo dei mestieri agricolo-rurali. Il tutto, poi, rinvia all’etica della responsabilità. La sicurezza alimentare (intesa, nel documento, come questione di sanità degli alimenti!?), la tipicità dei prodotti, la questione dei giovani : francamente non mi paiono problemi ecologici. Alcune di esse (la tipicità dei prodotti e la questione dei giovani) non sono neppure una questione “morale”, bensì economica: sta alla professione agricola, divenuta adulta, scegliere strategie agro-alimentari e di ricambio generazionale, le più opportune ed efficaci.
E, a rigore, neppure le problematiche che ruotano attorno alle biotecnologie in agricoltura e nella produzione degli alimenti, possono essere integralmente assunte come questione ecologica.
Per quanto riguarda questo ultimo tema: il documento lo tratta in modo prudente e questo non può che essere condiviso. E’, in ogni caso, necessario non stancarsi (e osare ancora) di sottolineare che il tema degli organismi transgenici non esaurisce il complesso rapporto tra alimenti, ricerca scientifica e innovazione tecnologica. Nello stesso tempo, l’approccio alle biotecnologie non può essere esaurito nella questione del rischio sanitario: vi è l’aspetto rilevante della bio-diversità; e vi sono temi, ancora più rilevanti, quali quelli della proprietà dei brevetti e del controllo democratico.
La questione posta dai movimenti su scala mondiale, ritengo sia essenzialmente questa: quando hanno posto e pongono la questione della sovranità alimentare, essi ci chiamano a tornare ai luoghi della partecipazione e ci chiedono il rifiuto delle pratiche e delle forme della cosiddetta post-democrazia. Non c’è prioritariamente una paura del rischio, bensì la paura e il rifiuto del potere incontrollato.
Ecco, un altro delicatissimo ambito di problematiche, in cui ci sono cristiani e cattolici operanti nei due campi!
Insomma: i “mondi” agricolo-rurali sono molteplici; un complesso snodo di questioni, di saperi antichi e modernissimi; una segmentazione di figure sociali, inedite e assolutamente non riconducibili a “gente delle campagne”. Non ci spaventerà la complessità; la gratitudine ai vescovi per il loro sforzo (un credente dirà, con gioia: il loro dono) sarà spontaneo, in quanto esso si affianca alla fatica degli uomini e delle donne, impegnati quotidianamente, nei mestieri multifunzionali dei mondi agricolo-rurali. Tutti, segnati dal senso della misura e del limite: che possono essere considerati, legittimamente, versione laica del profondo concetto biblico della povertà.
Commenti
Utente non regi... (non verificato)
Gio, 01/01/1970 - 01:00
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articolo di Campli
Innanzitutto grazie per il contributo, ... per la condivisione.
Ci sono dei ''distinguo'' che credo di comprendere, ma denunciano cose che non mi sembrano così pericolose (populismo, poveri, piccoli, lacrime del mondo rurale); in breve mi sento più vicino (come angolo d'osservazione, empatia) alla posizione di Valenza. Mi interpella la distinzione proposta tra l'''analisi'' e il ''messaggio'': è utilissimo (operazione di verità e libertà responsabile) fare trasparenza sull'''intreccio e i suoi presupposti''; credo però che il rimedio non consista tanto nel separare una volta per tutte, ma nel confrontare e discutere gli ''intrecci'' verificandone la ''creatività''. Mi pare che anche Valenza affronti questo problema nella nota 3 sulle ''ragioni religiose che il discorso pubblico non può ignorare'', ecc... Probabilmente, queste sono le basi (le premesse) per quel confronto da cui può svilupparsi un compito cooperativo che implica, richiede, accoglie, prospettive diverse....personalmente, a questo punto, mi rendo conto che dovrei leggere le sue ''riflessioni sul mestiere di agricoltore''. Condivido il fatto che questo sforzo interpretativo possa convergere nella categoria della ''cittadinanza'' (in questo senso la nota pastorale della CEI rimane un passo indietro, bello anche il passaggio ''vicinanza per capire'', più che per ''orientare''...ci orientiamo insieme), a cui, personalmente, arrivo confrontando il discorso della ''rigenerazione dell'agricoltura'' (lei direbbe ''rilegittimazione continua'') con quello dell'''economia civile '' di Zamagni, Bruni e ormai molti altri. Vedo che la CEI a Verona (novembre 2006), ma anche prima a Cagliari in aprile, affronterà il tema della ''cittadinanza'', quindi l'orizzonte che lei pone ... è sul tavolo; speriamo in un confronto ricco e appassionato,.. mi scusi se qui posso essere ingenuo, ma non c'è vera alternativa all'osare anche osare sperare. Sull'evoluzione della Pac il giudizio poteva essere più critico, ...non sò, potrebbe essere pesata troppo la sensibilità della Coldiretti che si è spesa per la riforma Fischler!!, mettiamolo insieme al punto 11 che invece stona un pò secondo Valenza, ... va bene, è utile ricordarcelo.
Grazie, buon anno e buon lavoro, Marco Foschini, Coldiretti
Commento originariamente inviato da 'foschini' in data 09/01/2006.