La collina, frontiera della sostenibilità

La collina, frontiera della sostenibilità
a Università Politecnica delle Marche (UNIVPM), Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali

Una centralità millenaria

L’agricoltura italiana è stata per millenni un’agricoltura collinare. Infatti, nonostante la lenta bonifica dei terreni paludosi di piano, in alcune aree iniziata in età moderna ma in gran parte della Penisola realizzata soprattutto tra Otto e Novecento, quella italiana fino alla seconda guerra mondiale è rimasta una agricoltura prevalentemente collinare (1).
Per la collina, il passaggio dalla centralità al declino si consuma nella seconda metà del Novecento. La consapevolezza delle crescenti difficoltà dell’agricoltura collinare incomincia a farsi strada nel corso degli anni Settanta. A farla emergere avevano contribuito sia l’impatto delle politiche della Comunità economica europea, fortemente sbilanciate a favore delle agricolture cerealicolo-zootecniche dell’Europa centro-settentrionale, sia la progressiva divaricazione dei costi di produzione fra aziende di collina e di pianura; ulteriori elementi di conferma, infine, erano venuti dai censimenti della popolazione e dell’agricoltura effettuati nel 1981-1982.
Un primo punto di svolta può essere individuato nel convegno organizzato, per impulso di Giuseppe Medici, dall’Accademia nazionale di agricoltura e tenutosi a Perugia il 25 ottobre 1980. Nel 1981 altri analoghi momenti di confronto si svolsero a Torino, Macerata, Matera, Siena, Roma e Bologna. In occasione di questi convegni, economisti, imprenditori, politici e amministratori dibatterono ampiamente i problemi dell’agricoltura collinare, anche se non sempre arrivarono a convergere sui possibili rimedi (2). Il vero momento conclusivo di questa lenta presa di coscienza va considerato lo Studio generale della collina italiana, realizzato nel 1986 dall’Associazione nazionale delle bonifiche, delle irrigazioni e dei miglioramenti fondiari per conto del ministero dell’Agricoltura (3).
Introdotta da Giuseppe Medici, ma con numerosi contributi di economisti, demografi, geografi ed altri esperti di settore, la ricerca documenta in modo analitico i processi in atto nella collina italiana nel corso del secondo dopoguerra e le crescenti difficoltà dell’agricoltura collinare. La causa principale della crescente obsolescenza degli ordinamenti colturali dominanti nelle aree di collina viene individuata soprattutto nei particolari caratteri assunti dal progresso tecnico, che Medici definisce “una vera e propria bomba posta nel cuore dell’agricoltura collinare”; con le nuove tecniche le produzioni fondamentali, come i cereali, richiedono una quantità di lavoro di gran lunga inferiore rispetto a quella del passato: secondo i calcoli di Medici le trenta ore necessarie nel 1951 per produrre un quintale di grano o di un cereale equivalente, si riducono nel 1981 ad appena trenta minuti. Nel settore cerealicolo – conclude Medici - la meccanizzazione favorisce nettamente i terreni di pianura; di contro le coltivazioni arboree tipiche delle aree collinari si rivelano meno meccanizzabili e continuano perciò a richiedere un alto e sempre più costoso impiego di manodopera. Intanto, poiché la remunerazione del lavoro che l’agricoltura collinare può garantire tende ad abbassarsi, ha inizio l’abbandono di molti terreni meno adatti alle nuove tecniche, al quale nelle aree di alta collina fa seguito un processo di forte spopolamento.

Il declino

In agricoltura il progresso tecnologico compie un salto di qualità con la motorizzazione che in Italia incomincia a diffondersi, ma con notevole lentezza, negli anni tra le due guerre mondiali. Inizialmente le trattrici dotate di motore a scoppio fanno fatica a imporsi perché hanno ancora costi di acquisto ritenuti eccessivi in strutture agrarie caratterizzate da aziende di piccole dimensioni, da una elevata offerta di manodopera a basso costo e da una ancora scarsa possibilità di ricorrere al credito agrario. Poi, dagli anni Cinquanta, mentre le nuove politiche agricole fanno cadere tutti gli ostacoli che avevano rallentato il progresso tecnologico, incentivando gli acquisti di terre e di macchine e mettendo a disposizione crediti consistenti a tassi particolarmente favorevoli o concedendo forti agevolazioni fiscali, la progressiva diffusione di macchine e trattori, le scoperte della genetica vegetale e l’impiego ormai generalizzato dei prodotti chimici modificano radicalmente l’attività agricola.
Si impone allora una agricoltura specializzata che, oltre ad essere dominata ormai da logiche unicamente economiche, è anche profondamente influenzata dai nuovi vincoli posti dall’innovazione tecnica. La scelta di meccanizzare il maggior numero di operazioni agricole, resa necessaria dal rapido esodo della popolazione rurale, ha precise conseguenze non solo sugli ordinamenti colturali e quindi sul paesaggio agrario, ma anche sul futuro economico di intere zone. Le nuove macchine, infatti, anche quelle introdotte negli ultimi decenni del Novecento, sono pensate per la pianura ed esprimono appieno la loro potenza produttiva in pianura, ma inevitabilmente si rivelano meno efficienti in collina e non sono in grado di operare nei terreni con maggiore pendenza; lo conferma, indirettamente, il triste primato delle aree collinari in tema di gravi incidenti sul lavoro agricolo, in genere provocati dal ribaltamento dei trattori o delle altre macchine impiegate. Insomma, la meccanizzazione non attenua il divario collina-pianura, ma lo accentua, non conquista al mercato le terre marginali, ma le espelle definitivamente. Condizionando i metodi di coltivazione, le innovazioni tecniche del Novecento esaltano gli squilibri, anziché ridurli.
Per la collina la strada appare ormai segnata: da un lato le nuove macchine spingono a concentrare la produzione in una parte limitata del territorio, cioè nelle più adatte e più fertili terre di pianura; dall’altro le coltivazioni arboree diffuse nelle aree collinari, vite e olivo in primo luogo, essendo riusciti a meccanizzare solo alcune operazioni colturali, continuano a richiedere un consistente impiego di manodopera, per produzioni che, di conseguenza, spesso risultano poco remunerative. Con la nuova agricoltura industrializzata, perciò, scomparsi definitivamente con la bonifica di tutte le terre di pianura i vantaggi della collina, si manifesta un divario collina-pianura che, emerso dapprima timidamente, tende poi ad assumere caratteri sempre più rilevanti.

Gli effetti della nuova agricoltura

La rapida modernizzazione, che ha radicalmente cambiato il modo di fare agricoltura, ha avuto effetti dirompenti sulle aree collinari. Come era accaduto per la montagna già a partire dagli anni tra le due guerre mondiali, anche la collina ha incominciato ad essere investita da processi di marginalizzazione che in pochi decenni, a partire dalle aree interne, ne hanno determinato il progressivo declino. Nell’Italia centrale, contribuiscono a determinare questo esito anche l’esodo contadino, il rapido crollo del sistema mezzadrile e la crescente presenza di “contoterzisti” che, favoriti anche dal sostegno comunitario ai seminativi (specie grano duro, barbabietola, girasole) sono spinti alla semplificazione degli ordinamenti produttivi, fino a rasentare la monocoltura e alla sostituzione di lavoro umano con lavoro meccanico, senza cura degli effetti che certe pratiche agricole possono avere sulla tenuta e sulla fertilità futura dei suoli.
Si consuma così la progressiva scomparsa del tradizionale paesaggio agrario; i filari, ormai improduttivi, vengono eliminati; le siepi e gli alberi, divenuti un ostacolo al lavoro delle macchine, vengono abbattuti; i dossi, i ciglioni e i vecchi terrazzamenti vengono piallati. Con le monocolture scelte unicamente sulla base dei prezzi di mercato (e dei contributi europei) si diffondono gli arativi nudi che l’esperienza storica aveva dimostrato chiaramente inadatti a terreni acclivati e geopedologicamente fragili, come le colline a prevalente tessitura argillosa dell’Italia centrale.
Il paesaggio diviene sempre più povero di soprassuoli, ma quello che si pone non è soltanto un problema estetico, perché le colline ormai denudate tornano a conoscere (così come era accaduto nei secoli precedenti) gravi fenomeni di dissesto. Non ci si limita, infatti, ad abbandonare la policoltura (fondata sull’integrazione tra coltivazione e allevamento e sulla rotazione tradizionale tra cereali e leguminose), ma anche la rete di scolo delle acque non riceve più manutenzione: i fossi vengono ricoperti o non sono più tenuti puliti, mentre nessun controllo viene più realizzato sui drenaggi profondi. Mancando ogni forma di regolazione, le acque scorrono liberamente in superficie e tendono a ruscellare con pesanti effetti erosivi, ma anche con un notevole impoverimento della fertilità dei suoli. La nuova agricoltura, altamente produttiva, ottiene elevati profitti ma scarica sulla comunità i costi economici del dissesto idrogeologico.

La collina, frontiera della sostenibilità

Con la definitiva affermazione dell’agricoltura industrializzata i problemi di sostenibilità ambientale ovviamente non si pongono soltanto nelle aree collinari. In tutte le campagne, l’abnorme impiego di fertilizzanti di sintesi, antiparassitari e fitofarmaci risolve a breve il problema della produttività agricola (e nelle aree più evolute porta alla formazione di grosse eccedenze, con costosi problemi di stoccaggio), ma ha altre pesanti conseguenze.
Certo, anche in pianura un’agricoltura fondata sulla esasperata fertilizzazione minerale e su pratiche che prevedono la crescente artificializzazione delle produzioni, oltre a inquinare le falde acquifere, inevitabilmente determina nei suoli il progressivo declino del tenore di humus e, nel lungo periodo, può portare all’isterilimento di molti terreni, innescando così processi che possono giungere in vaste aree alla definitiva desertificazione; è però la collina ad apparire oggi la vera frontiera della sostenibilità, soprattutto se si assume questo concetto in una accezione non solo ambientale, ma anche economica, territoriale, sociale e culturale.
La collina va vista come una sorta di cartina di tornasole delle conseguenze che a livello territoriale possono avere non solo la perdita dei vecchi sistemi di regimazione delle acque e la mineralizzazione dei suoli, ma anche lo stravolgimento del reticolo insediativo, tradizionalmente incentrato su case sparse, paesi e piccole città, verificatosi dopo l’esodo rurale e la fine del sistema mezzadrile. Allo stesso modo, molto pesanti rischiano di essere gli effetti sociali e culturali.
Giustamente si fa rilevare che la moderna agricoltura provoca la progressiva riduzione della bio-diversità e si tenta di correre ai ripari; altrettanto grave, però, è la perdita della socio-diversità che si sta determinando per effetto dello spopolamento e della crisi economica e sociale delle comunità che avevano costruito, presidiato e valorizzato i territori collinari. Se si arrivasse alla scomparsa delle comunità che per secoli si erano rette sulla centralità dell’agricoltura collinare, si perderebbe anche il sistema di saperi, di valori e di simboli che innervava la vita di quelle comunità e che da esse era stato prodotto. In altre parole, poiché, come suggeriscono i sociologi, la collina è una costruzione sociale sedimentatasi storicamente, essa non è pensabile senza la componente umana che l’ha concepita e lentamente costruita.

Dagli approcci dualistici alla visione sistemica

Al più generale degrado dei quadri ambientali, economici e socio-culturali si contrappongono però, anche in collina, forze che possono correggere le distorsioni dell’attuale sistema economico e, nel caso dell’Italia centrale, evitare l’abbandono di almeno una parte, forse consistente, del territorio collinare. Interventi correttivi o di rilancio (basti pensare alla viticoltura, ai prodotti a denominazione di origine controllata e alle varie forme di integrazione fra agricoltura e turismo) ed esperienze alternative sono già in atto, ma una vera inversione di rotta sarà possibile se il tema della sostenibilità sarà al centro delle politiche agricole e, più in generale, delle politiche economiche dei Paesi più sviluppati.
Un ripensamento in questa direzione è emerso in Europa negli ultimi due decenni: i programmi di set aside introdotti dall’Europa comunitaria a partire dal 1988, l’ampliamento delle aree protette al fine di proteggere la biodiversità, l’introduzione nell’ambito della PAC delle norme di eco-condizionalità nel primo pilastro e della politica agro-ambientale nel secondo, l’approvazione, infine, della Convenzione europea del paesaggio appaiono importanti conferme del mutamento di clima avvenuto di recente. Un altro segnale significativo nella stessa direzione va individuato nella sensibilità che produttori e consumatori mostrano per l’agricoltura biologica e, più in generale, per l’agricoltura di qualità. Un ulteriore contributo può venire, infine, dal turismo e dalla domanda di natura che oggi sorge dal mondo urbano; le aree incontaminate e le riserve di verde richieste con forza da un gran numero di cittadini possono essere trovate nelle terre ormai sottratte allo sfruttamento agricolo; i flussi turistici, frutto di questa domanda, possono integrare le risorse agricole locali che altrimenti, da sole, non sarebbero capaci di garantire redditi adeguati.
Perché si realizzi una vera e complessiva inversione di tendenza, però, occorre che si superi la logica dualistica finora dominante: la logica cioè di chi teorizza (e pratica) la doppia agricoltura, quella intensiva e industrializzata, volta unicamente al massimo del profitto, e quella che permette di difendere la biodiversità; la logica di chi ha ritenuto che fosse sufficiente tutelare i parchi e le aree protette e non ha salvaguardato il resto del territorio; ma anche la logica di chi, nella gestione dei Piani paesistici, si è preoccupato del paesaggio straordinario, consentendo lo scempio dei paesaggi ordinari.
In questo senso, nella collina può essere individuata l’odierna frontiera della sostenibilità. Il paesaggio collinare è un inestricabile intreccio di storia, cultura e natura; in un tale intreccio è la vera identità di una larga parte del territorio italiano. Questa consapevolezza è presente nella Convenzione europea del paesaggio che ha visto nella risorsa paesaggio l’integrazione, nel tempo, di fattori (e valori) non solo ambientali, ma anche economici, sociali e culturali; di qui la spinta a inserire la tutela del paesaggio nei piani di sviluppo rurale, ma all’interno di un diverso modello di sviluppo economico, più attento agli equilibri sociali ed ecologici, e realizzato con il coinvolgimento degli attori locali e delle reti comunitarie. La stessa consapevolezza deve guidare le istituzioni preposte alla gestione dei territori locali: la sostenibilità dello sviluppo non può essere affidata unicamente alle aree naturali. Occorre, in definitiva, una cultura dello sviluppo che non guardi al territorio in un’ottica soltanto economica o soltanto naturalistica, ma sia finalmente capace di avere una visione sistemica.

Note

(1) Ho sviluppato più ampiamente i concetti espressi in questo intervento nel volume L’Italia delle colline. Uomini, terre e paesaggi nell’Italia centrale (secoli XV-XX), Ancona, Quaderni della rivista Proposte e ricerche, 2003 e nel saggio “L’agricoltura mezzadrile e il territorio nell’Italia centrale”, apparso nel volume Paesaggio, teritorio, ambiente. Storie di uomini e di terre, a cura di Giovanna Motta, Milano, Franco Angeli ed., 2004, pp. 237-254.
(2) Accademia Nazionale di Agricoltura, Incontro di studio sui problemi della collina, Bologna 1980; Accademia Nazionale di Agricoltura, Le voci della collina, Bologna 1983.
(3) Associazione nazionale delle bonifiche, delle irrigazioni e dei miglioramenti fondiari, Studio generale della collina italiana, Bologna 1986.

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