Verso la Pac successiva al 2020: interessi italiani e scenari internazionali

Verso la Pac successiva al 2020: interessi italiani e scenari internazionali
a Università di Roma Tre, Dipartimento di Economia

Contributo rivisto dell’intervento svolto dall’Autore il 22 febbraio 2017 nel corso dell’audizione parlamentare della Commissione Permanente XII (Agricoltura) della Camera dei Deputati sulle Risoluzioni Gallinella 7-01165 e 7-00944 e Oliverio 7-01169: Iniziative in materia di Politica agricola comune. [LINK]

Premessa1

In questo contributo mi concentro su due aspetti: innanzitutto, alcuni temi specifici sollevati dalle risoluzioni presentate dagli On. Gallinella e Oliverio, nel quadro della revisione a medio termine delle attuali prospettive finanziarie e in vista della Pac dopo il 2020; in secondo luogo, lo scenario geopolitico internazionale - europeo e mondiale - in cui s’inquadrerà il dibattito sulla futura Pac.
Riguardo al primo aspetto, va innanzitutto sottolineato come le risoluzioni degli On. Gallinella e Oliverio ­presentino numerosi elementi di convergenza e come esse - nella diversità dei punti su cui si concentrano - siano di fatto complementari.  E’ un segnale positivo, che autorizza a sperare che sul fronte della Pac sia possibile, almeno a livello parlamentare, condurre un gioco di squadra per la difesa degli interessi italiani. In questo contesto, richiamando le principali questioni associate all’applicazione della Pac 2014-2020, toccherò solo alcuni dei temi trattati dalle risoluzioni, con particolare riferimento al sostegno accoppiato e ai criteri con cui ripartire la futura spesa agricola tra gli Stati membri dell’Ue.
Riguardo al secondo aspetto, penso sia utile fornire qualche spunto di riflessione su due questioni importanti:

  • l’uscita del Regno Unito dall’Ue conseguente al referendum su Brexit con riferimento agli effetti in termini sia finanziari che politici e alle più specifiche implicazioni in materia di Pac;
  • l’evoluzione dello scenario mondiale successivo all’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che accelera il processo di crisi del paradigma di globalizzazione orientata alla liberalizzazione multilaterale nel segno della Wto, per fare posto a un neo-protezionismo aggressivo, governato da accordi bilaterali o regionali.

La Pac 2020: le questioni aperte e gli interessi italiani

Riguardo al primo aspetto, l’agenda dei lavori nel cantiere della Pac successiva al 2020 non può che partire dal modo con cui sta andando l’applicazione della Pac 2014-2020. Su questo fronte, anche sulla scorta di una recente pubblicazione della Coldiretti che fa il punto della situazione (Coldiretti, 2016), le principali questioni si possono sintetizzare come segue:

  • il nuovo sistema di sostegno al reddito del I pilastro presenta luci e ombre: è stato giusto pensare a una maggiore articolazione dei pagamenti diretti, per renderli più selettivi rispetto agli obiettivi e ai beneficiari; è anche positiva la flessibilità con cui gli Stati membri possono scegliere nel menù dei pagamenti, per adattarli alle esigenze della propria agricoltura; ma è molto negativa l’eccessiva complessità con cui, almeno in Italia, la nuova Pac è stata applicata;
  • tale complessità si manifesta soprattutto nella componente greening del nuovo sistema, dove la complicazione non si giustifica con una effettiva capacità dei relativi pagamenti di promuovere azioni realmente benefiche nei confronti dell’ambiente e dove, dunque, è necessaria una profonda revisione;
  • la Pac 2014-2020 si è trovata inerme e impreparata per dare risposta alla volatilità dei prezzi e alle crisi di mercato che hanno caratterizzato i suoi primi anni di applicazione, intervenendo con pacchetti ad hoc di dubbia efficacia e scontando un notevole ritardo nell’implementazione delle misure per la gestione del rischio;
  • la componente relativa al sostegno accoppiato è stata ancora una volta un’occasione persa per l’Italia: pur essendo impostato in modo apparentemente meno frammentario rispetto al passato, abbiamo finito con il subordinare il sostegno accoppiato alle esigenze di compensazione degli interessi regionali, rinunciando a farne uno strumento per orientare verso la qualità e per sostenere produzioni a rischio in zone svantaggiate;
  • guardando al dopo il 2020, la maggiore preoccupazione riguarda l’ammontare di risorse che - nell’ambito della dotazione finanziaria (probabilmente minore) che sarà destinata alla Pac nel nuovo ciclo di programmazione - l’Italia riuscirà a conservare con l’attuale criterio distributivo basato sulla superfice.

Su queste questioni molti sono gli spunti offerti dalle risoluzioni. Tra essi spiccano le comuni e più che condivisibili raccomandazioni sulla revisione e semplificazione del greening, sulla migliore gestione dei mercati attraverso l’organizzazione dell’offerta, sul sostegno al potere contrattuale degli agricoltori nella filiera agroalimentare e sulla necessità di potenziare la difesa delle zone svantaggiate. A questi temi che si ritrovano, sia pure con enfasi diverse in entrambe le risoluzioni, si possono aggiungere l’importanza di utilizzare al meglio gli incentivi per i giovani, anche attraverso un uso più attento delle misure per la consulenza (Oliverio); la difesa dell’origine in etichetta e la promozione delle filiere corte (Gallinella); la necessità di non diluire ulteriormente la definizione di agricoltore attivo (Oliverio); una gestione del rischio più orientata alla difesa del reddito, anche riducendo dal 30 al 20% la soglia di riduzione dei ricavi che fa scattare gli strumenti di stabilizzazione o gli indennizzi (Oliverio).
Accanto a queste questioni, tutte rilevanti e interessanti, vorrei qui spendere qualche parola su altri due temi che mi sembrano degni di nota.
Il primo riguarda il sostegno accoppiato, la cui gestione di carattere compensatorio è criticata da entrambe le risoluzioni, che ne propongono un uso diverso, più selettivo e più flessibile. Sia Gallinella che Oliverio mi pare sostengano l’abolizione del sostegno accoppiato come lista predefinita di prodotti cui concedere un aiuto supplementare predeterminato, trasformandolo in uno strumento più mirato, da attivare e graduare secondo le circostanze: nella Risoluzione Gallinella, si propone di abolire il sostegno accoppiato nella versione ora prevista e di trasferire le relative risorse a un fondo cui attingere per gestire le crisi di mercato e per rilanciare comparti e/o aree in difficoltà, con particolare attenzione alle zone svantaggiate. La risoluzione Oliverio prefigura una gestione di tipo “anticiclico” del sostegno accoppiato, agganciandolo all’andamento dei prezzi e rendendolo più flessibile.
Entrambe le proposte sono interessanti e su di esse vale la pena riflettere, ma entrambe dovrebbero superare due ostacoli non banali. Il primo è che un uso più flessibile del sostegno accoppiato, sia come fondo per le crisi di mercato sia, ancora di più, come misura anticiclica, è subordinato a una modifica profonda degli attuali regolamenti e - specie in un’ipotesi che preveda la possibilità si usarlo in misura maggiore di quanto consentito dalle attuali soglie - la sua compatibilità con il sistema delle scatole della Wto potrebbe essere messa in discussione. Nell’attuale scenario di crisi della Wto e/o nella prospettiva di una probabile rivisitazione delle sue regole nel senso di maggiore flessibilità, tale problema potrebbe apparire superabile, ma su questo terreno, come vedremo, è comunque opportuno procedere con cautela. Ma il maggiore ostacolo che incontrerebbe una gestione più flessibile del sostegno accoppiato è tutto interno al nostro paese, se si pensa che la partita sarebbe nelle mani della conferenza Stato-Regioni: un “tavolo” dove spesso ci si impantana nelle sabbie mobili di un processo decisionale lungo e farraginoso e dove è praticamente impossibile minimizzare il ricorso a compromessi di tipo spartitorio.
Il secondo tema, in prospettiva ancora più importante, è il criterio utilizzato per distribuire tra i Paesi membri dell’Ue le risorse destinate ai pagamenti diretti del primo pilastro. Tale criterio, basato sulla superficie agricola utilizzata (Sau), avvantaggia le realtà agricole più estensive e penalizza quelle, come l’Italia, più differenziate e più intensive di lavoro, per le quali sarebbe meglio ripartire i fondi in base alla manodopera impiegata o al valore aggiunto prodotto. Si tratta di una vecchia questione, resa più attuale dalla forte enfasi che oggi l’Ue pone sul lavoro, in base alla quale anche la Pac, come tutte le altre politiche comuni, dovrebbe contribuire a valorizzare e sostenere l’occupazione. E’ una battaglia giusta, su cui anche il Miapaf sta provando a ragionare, ma che si presenta molto difficile. Gli ostacoli sono di tipo tecnico, giacché la superficie è un dato obiettivo, verificabile fisicamente in qualsiasi momento e assai poco variabile nel tempo, mentre criteri quali il carico di lavoro o il valore aggiunto sono molto più aleatori, difficili da rilevare con certezza e comunque soggetti a variazioni annuali. Ma gli ostacoli maggiori sono di tipo politico: sia perché la fortissima path dependency che caratterizza da sempre la Pac rende quasi impossibile scardinare un criterio con cui sono state distribuite le risorse nel passato; sia perché i Paesi che sarebbero, come l’Italia, realmente interessati a dare battaglia fino in fondo sono pochi e, dunque, le possibili alleanze si presentano deboli e aleatorie. Dunque, è senz’altro giusto provarci, ma forse non è opportuno concentrare tutta la nostra forza negoziale su questa partita, per essere pronti a sottoscrivere una soluzione che almeno preveda correttivi basati su variabili diverse dalla Sau.

L’Ue dopo Brexit: il bilancio, la Pac e gli interessi dell’Italia

Il Regno Unito è un contributore netto del bilancio UE - in particolare del budget riservato alla Pac - anche se il suo disavanzo è strutturalmente ridotto dal cosiddetto Rebate, il rimborso negoziato negli anni ottanta da Margaret Thatcher. L’uscita di un contributore netto comporterà, a parità di bilancio, un aumento del disavanzo degli altri stati membri contributori netti, Italia compresa. Tuttavia il danno per l’Italia sarà inferiore a quello di Germania, Olanda, Svezia e Austria, in ragione dello sconto che tali Paesi ricevono sul finanziamento del rimborso britannico, che limita il loro effettivo contributo al 25% di quanto sarebbe da essi dovuto.
In un recente lavoro Henke e Sardone (2016) simulano quale sarebbe stata già al 2014 e al 2015 la posizione netta dei vari Stati membri in un’ipotetica Ue a 27, con un bilancio inalterato ma senza il Regno Unito. In termini assoluti, gli Stati membri più penalizzati sarebbero stati la Germania (con un aumento del suo saldo negativo di circa 2 miliardi di euro nel 2014 e oltre 4 miliardi nel 2015), la Francia (con aumenti di 1,1 miliardi nel 2014 e 1,8 miliardi nel 2015), e anche l’Austria e la Svezia, con cifre più basse in assoluto ma anche maggiori come percentuali del loro Pil. Per quanto riguarda l’Italia, l’ipotetico aumento del suo contributo (meno di 500 milioni al 2014 e poco più di 300 milioni nel 2015) è sensibilmente minore, sia per la già ricordata circostanza che l’Italia è tra i Paesi che maggiormente finanziano l’attuale rimborso al Regno Unito che scomparirà con Brexit; sia perché la lunga crisi economica di questi anni ha picchiato più duro in Italia, riducendo il suo Pil in misura maggiore che altrove e, con esso, la sua contribuzione al bilancio Ue.
Nel calcolo di vantaggi e perdite, andrà considerato anche l’effetto che l’uscita del Regno Unito (Paese più ricco della media Ue) avrà in termini di riduzione del Pil pro capite dell’Ue a 27: ciò, infatti, nell’ambito della politica di coesione, potrebbe determinare il passaggio di alcune regioni dal gruppo di quelle “meno sviluppate”, le maggiori beneficiarie della spesa di tale politica (nel caso dell’Italia, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia), al gruppo di quelle in “transizione” (nel caso dell’Italia, Abruzzo, Molise e Sardegna) e/o da quest’ultimo a quello delle regioni più sviluppate. Tale rischio, tuttavia, non dovrebbe riguardare l’Italia, dato che, come si è detto, negli ultimi anni il Pil pro capite del nostro Paese - e delle nostre regioni - è cresciuto di meno (o è diminuito di più) rispetto alla media Ue.
I tempi della procedura di uscita non saranno brevi: il Regno Unito di fatto rimarrà dentro l’Ue fino al 2019, per cui gli effetti di Brexit sulla Pac dell’attuale ciclo di programmazione saranno pressoché nulli. Al contrario, la Pac dopo il 2020 non potrà non risentire dell’uscita di un partner importante e ingombrante, che non ha mai fatto mistero della sua insofferenza nei conforti di una politica agricola considerata troppo dispendiosa e non in linea con la propria sensibilità politica. In particolare, in campo agricolo il Regno Unito ha sempre sposato un approccio liberista e consumerista, contrario sia all’intervento di sostegno e di regolazione dei prezzi, sia alle politiche di tutela della qualità e dell’origine, viste come minaccia alle regole della concorrenza e fonte di un aumento indesiderato dei prezzi al consumo dei prodotti alimentari.
Dunque, da un lato, con Brexit la Pac perde uno dei Paesi che più contribuisce a finanziarla ma, dall’altro, l’agricoltura potrebbe guadagnare posizioni nell’agenda politica dell’Ue, o almeno sperare di organizzare una più efficace difesa della propria fetta di bilancio per il periodo successivo al 2020. In altre parole, l’uscita del Regno Unito può modificare gli equilibri politici in seno al Consiglio Ue a favore di una possibile alleanza pro-Pac, riaprendo la strada a una leadership della Francia, lo Stato membro da sempre più favorevole alla politica agricola. Più in particolare, nell’Europa post Brexit ci potrebbe essere più spazio per alleanze mediterranee, a favore di riforme della Pac più attente alle esigenze di agricolture più differenziate e più intensive di lavoro.
Più difficili da prevedere sono gli effetti politici di Brexit sul più generale processo di integrazione europea, che attraversa un momento politicamente complicato. Su questo fronte si naviga a vista, nelle nebbie della geopolitica, rese ancora più fitte dai controversi risultati elettorali successivi a Brexit: l’elezione di Trump negli Usa e il referendum costituzionale in Italia, solo in parte compensati dall’esito più “europeista” delle elezioni in Austria. In questo quadro, specie se davvero si andrà - come più volte affermato dal premier britannico - verso un’ipotesi di Hard Brexit, il rischio è che l’uscita di un Paese importante come il Regno Unito possa innescare un contagio disgregatore che potrebbe estendersi ad altri Stati membri, rafforzando le forze populiste e anti europee; oppure, all’opposto - dato che anche a molti dei suoi sostenitori nel Regno Unito risulta chiaro che l’uscita dall’Ue è un percorso difficile, rischioso e, in concreto, meno appetibile di quanto atteso - Brexit potrebbe agire da “vaccino” contro la febbre separatista, bloccando la sua diffusione in altri Stati membri (De Filippis, 2016a e 2016b). Forse è uno scenario troppo ottimistico, tuttavia nulla impedisce di sperare che la grande incertezza, i possibili costi economici e politici e l’estrema complessità di uscire dall’Ue mostrata da Brexit, possano contribuire al rilancio di un europeismo, per così dire, pragmatico: non tanto come ripresa degli ideali dei padri fondatori dell’Europa unita, quanto come spinta a rivisitare con approccio concreto il progetto di integrazione europea, in modo che esso sia di nuovo percepito dai cittadini e dai governi del vecchio continente come un gioco a somma positiva (De Filippis, 2016a e 2016b).

Lo scenario internazionale dopo Trump: verso una “globalizzazione sporca”?2

L’ordine economico internazionale nato con l’accordo Gatt del 1995 che aveva concluso l’Uruguay round e che aveva dato vita alla Wto è in crisi da tempo, come hanno mostrato i continui fallimenti del Doha round. L’idea di globalizzazione “liberal-democratica” che ne era alla base, fondata sulla liberalizzazione multilaterale del commercio, sul trattamento speciale e differenziato per i paesi in via di sviluppo e governata con approccio paternalistico e inclusivo dal duopolio Usa-Ue è progressivamente tramontata; tale tramonto è stato scandito dall’emergere di attori forti quali Russia, Brasile, Argentina, India e, soprattutto, Cina, che non potevano rimanere confinati nel ruolo subalterno a essi riservato da quel modello di globalizzazione. Sta di fatto che ormai da qualche anno i Paesi tendono a negoziare su tavoli regionali o plurilaterali, al di fuori della Wto, perseguendo liberalizzazioni a geometrie variabili, in cui l’obiettivo sembra più quello di escludere qualche Paese che di includerne qualcun altro: un esempio classico era l’accordo Trans Pacific Partnership - il Tpp - secondo alcuni promosso dagli Usa soprattutto per isolare la Cina.
In questo quadro di crisi e di incertezza, ha fatto irruzione Donald Trump, che ha giocato volentieri il ruolo di guastatore e “rottamatore” del vecchio ordine economico internazionale, prendendosi gli applausi sia a destra che a sinistra, e comunque lisciando il pelo della vasta platea dei populismi emergenti, specie in Europa; ma in realtà Trump ha dato solo l’ultima spallata a un sistema che era da tempo in agonia.
Il problema è che - come sempre più spesso accade sul fronte della geopolitica, sia nelle guerre vere combattute sul campo, sia nella dialettica politico-diplomatica - dopo la distruzione nessuno ha pronte le idee e i piani per ricostruire sulle macerie. E’ accaduto a più riprese nel Medio Oriente, sta accadendo con Brexit, sta probabilmente per accadere nelle relazioni economiche e politiche intercontinentali. Sta di fatto che in questa fase di transizione non cooperativa e senza regia, c’è il rischio che le potenze commerciali si rinchiudano nelle loro fortezze protezionistiche, in una spirale di “globalizzazione sporca” che rischia di alimentare un gioco a somma negativa, in cui tutti perdono, o in cui le perdite sono comunque maggiori dei guadagni.
Anche su questo fronte, esattamente come nel dopo Brexit, l’unico dato certo è l’enorme incertezza con cui ci si deve misurare, come avviene nelle fasi in cui si vive un cambio di paradigma e quando l’economia s’intreccia con la geopolitica in modo sempre più stretto, con tempi e modalità fuori dagli schemi del passato e dunque assai poco prevedibili e gestibili con quegli schemi.
Tornando alle questioni relative alla Pac e agli interessi italiani, il rischio è duplice: da un lato, quello di sottovalutare la portata della crisi epocale in atto e di continuare a ragionare come se si trattasse di una fase di difficoltà passeggera, trovandosi poi a dover inseguire i nuovi equilibri; dall’altro, quello di utilizzare furbescamente questa crisi, riducendola a occasione opportunistica per ottenere vantaggi congiunturali e di breve respiro. Su quest’ultimo punto, mi riferisco alla tentazione di sfruttare, sul terreno della politica agraria, la crisi della Wto per riproporre un ritorno in grande stile alle vecchie misure di sostegno accoppiato, bandite o regolamentate dalle “scatole” verdi, blu e gialle, con l’argomento che, ormai, il sistema sta saltando. Non c’è dubbio che tale sistema - proprio per non essere definitivamente travolto dalla propria rigidità - dovrà probabilmente tollerare un maggiore grado di flessibilità (per esempio, come si è prima accennato, sul fronte delle soglie che rendono ammissibili alcune misure di sostegno accoppiato). Tuttavia sarebbe sbagliato, specie per il nostro Paese, considerare ormai saltati tutti i vincoli, per sostenere un ritorno senza freni alla vecchia Pac di segno protezionistico. A questo riguardo, infatti, non possiamo non ricordare il ruolo propulsivo del nostro export agroalimentare, in particolare dei prodotti differenziati e di qualità ad alto valore aggiunto, la cui dinamica è stata molto positiva anche negli ultimi anni di crisi economica. Data la sua vocazione esportatrice e la sua capacità di rispondere alle fasce alte della domanda di alimenti di qualità da parte di un ceto medio mondiale in espansione, al sistema agroalimentare italiano non conviene una globalizzazione di segno protezionistico. Se, infatti, dazi e barriere non tariffarie possono difendere la produzione interna dalla concorrenza estera, essi rendono più costose le importazioni (comunque necessarie anche per alimentare l’esportazione del made in Italy); ma, soprattutto, in un ambiente dominato dal protezionismo è per definizione più difficile la penetrazione dei nostri prodotti sui mercati esteri, particolarmente su quelli extra-Ue, dove la domanda è più dinamica.

Riferimenti bibliografici

  • Coldiretti, Dove sta andando la Pac - Mercato, semplificazione, sviluppo rurale e Brexit, edito da Coldiretti, Roma, 2016

  • De Filippis F., “Brexit, un gioco a somma negativa”, L’Informatore Agrario, n. 34, 2016a

  • De Filippis F., “Brexit, il commercio agroalimentare e la Pac”, Intersezioni, n. 78, dicembre 2016b, [link]

  • De Filippis F., “Le tentazioni pericolose della "globalizzazione sporca”, L’Informatore Agrario, n. 7, 2017

  • Henke R. e Sardone R., “La Brexit e il bilancio dell’UE. Una prima valutazione attraverso il calcolo dei saldi netti”, Agriregionieuropa, n. 46, settembre 2016

  • 1. Testo utilizzato per l’audizione sul futuro della Politica agricola comune, presso la XIII Commissione permanente della camera dei Deputati - 22 febbraio 2017.
  • 2. Questo paragrafo si rifà a De Filippis 2017.
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