Intervista realizzata da Isabella Giunta. Edizione a cura di Mauro Conti e Stefano Mori del Centro Internazionale Crocevia.
Antonio Onorati si definisce un contadino per origine e per vocazione. Oltre che nel podere di famiglia, ha lavorato a lungo presso l’Agenzia Regionale Sviluppo e Innovazione del Lazio, ma l’impegno che lo caratterizza e lo colloca come asse portante dell’attivismo italiano sulle questioni del cibo e dell’agricoltura é quello svolto con passione dentro la Ong Centro Internazionale Crocevia, di cui è stato presidente per molti anni. È in questo quadro che Onorati si batte da decenni per la difesa e la visibilitá delle agricolture contadine in Italia ed é membro della Campagna Popolare per l’Agricoltura Contadina, oltre ad essere parte integrante del movimento internazionale per la sovranitá alimentare. Consapevoli della sua profonda conoscenza del settore contadino in Italia, che letto attraverso i suoi occhi si arricchisce di una prospettiva storica e di un acuto spirito critico, lo abbiamo intervistato per comprendere meglio le motivazioni che hanno spinto numerose realtà sociali alla proposizione di un nuovo quadro legale di tutela delle agricolture contadine, anche con l’obiettivo di delineare meglio le prospettive che aprirà se la legge dovesse essere approvata.
Qual è la specificità della definizione di Agricoltura Contadina nelle proposte di legge in esame e come si sta sviluppando il processo di discussione all'interno del Parlamento? Quali sono i punti sensibili, gli eventuali punti di scontro, gli accordi e le prospettive?
Secondo una mia personalissima ricostruzione, la stessa Campagna Popolare per l'Agricoltura Contadina nasce da uno scontro. Massimo Angelini1– ha avuto l’idea – che in parte aveva già avuto Giannozzo Pucci2– di lanciare una mobilitazione popolare per difendere la figura del contadino, in quanto figura, da un lato condannata a scomparire e, dall'altro, riconducibile ad una visione “neo-rurale” basata su uno stile di vita centrato sull’autoconsumo e sull’auto segregazione. Questa visione del contadino è emersa in Europa come giusta reazione alla cancellazione di una figura sociale, economica e culturale, che è invece fondamentale nel sistema agrario e che ricorre nella storia dei diversi Paesi. In un secondo momento, tale mobilitazione si è trasformata in una Campagna in difesa dell’agricoltura contadina e dei contadini, come iniziativa totalmente innovativa nell’ambito rurale italiano contemporaneo. La discussione si è velocemente polarizzata tra i sostenitori di una campagna per una difesa culturale della figura del contadino e quelli di una campagna per arrivare ad una legge nazionale che sostenesse un modo di produzione specifico ed essenzialmente alternativo all’agricoltura industriale. All’inizio le aspettative non erano chiare. Anche i fautori della campagna per una legge a sostegno dell’agricoltura contadina si sono posti la questione se fosse necessario delineare una nuova figura giuridica oppure fosse possibile disegnare la legge utilizzando figure giuridiche già esistenti. Il gruppo originario che si era formato attorno alla Campagna era concentrato sulla facilitazione di varie forme di mercato contadino e di vendita diretta, ossia nuove norme per dare al contadino il diritto di “vendere quello che voleva, dove voleva e a chi voleva”. Quindi, come vediamo anche in Genuino Clandestino, le problematiche principali vertevano sulla normativa europea, le norme igienico-sanitarie, la vessazione burocratica ed amministrativa che grava sull’agricoltura di piccola scala e sull’agricoltura contadina in particolare.
Perché hai fatto riferimento a Genuino Clandestino?
Perché Genuino Clandestino si concentra essenzialmente sul tema dei mercati contadini. Il gruppo che ha iniziato la campagna non era legato a Genuino Clandestino, sebbene questa rete abbia partecipato ad alcune riunioni all’inizio per poi ritirarsi dalla Campagna. Questione su cui aveva posto attenzione anche Massimo Angelini, quindi non si trattava di esperienze alternative o radicali. Massimo Angelini è animatore dell’esperienza del recupero della patata della quarantina, fatta con un gruppo di produttori di patate sulle colline genovesi, riuniti in un consorzio di tutela. La patata quarantina è una patata tradizionale delle colline in Liguria, un'area caratterizzata da un terreno molto difficile per coltivarle e, dunque, devi amare il tuo lavoro per fare una cosa del genere. Sulla strategia per la vendita della loro produzione si sono scontrati con le norme e la legislazione vigenti. La discussione si fondava essenzialmente sulla commercializzazione diretta o attraverso i Gruppi d’Acquisto Solidale (Gas). Non c’erano ragionamenti ulteriori e sembrava emergere una visione pauperista, cioè che l’agricoltura contadina è un tipo di agricoltura di poveri che lo fanno per scelta di vita, che vivono un po’ come vivevano i nonni. Un’agricoltura contadina personale raccontata. E questa è una delle cose che notavo: è stranissimo come siano usciti molti libri prodotti da neorurali o cultori della materia. Fa riflettere. In questi libri, anche se alcuni sono più articolati, spesso mancano solidi riferimenti complessivi alla questione agraria, all’agricoltura italiana come tale ed ai suoi conflitti interni, non solo tra modelli ma tra interessi strutturati; più in generale, mi sembrano essere privi di qualunque analisi di classe.
Sembra quasi assomigliare al discorso neoliberista del contadino come soggetto del passato o folkloristico...
Questa è la mia critica... Prendiamo, ad esempio, chi, di fatto, sta vendendo il prosciutto di Cinta Senese ad un prezzo molto alto. Chi sono i suoi clienti? Non certo i cassaintegrati o i precari pagati a fattura o i mal occupati. È vero che il maiale è tuo, è allevato con infinito amore e va bene la vendita diretta; però lo vendi al mercato locale, non paghi le tasse, non paghi niente… Non mi sembri tanto un contadino alternativo o anarchico, mi sembri piuttosto un liberista che non vuole lacci e lacciuoli. Certo il fiorire dei mercati contadini ha fatto ovviamente cose utili, come portare la discussione agraria all’interno delle città, strappandola al dibattito fra cuochi. Però, se la domanda è quale contadino emerge da queste esperienze? Quale economia contadina alternativa? Allora da queste esperienze non hai risposte.
Queste questioni le avete poste all’avvio della campagna?
Si, sono state considerate fin dall’avvio ed è una discussione che è durata fino a poco tempo fa. Ora ci sarà lo scontro definitivo quando avremo di fronte il testo di sintesi delle quattro proposte di legge, dove probabilmente i membri della Commissione Agricoltura ridimensioneranno o taglieranno la parte sulla terra e quella sulla biodiversità, ma lasceranno le misure di attenuazione della burocrazia sulla vendita diretta, perché tanto quelle avvantaggiano tutti, anche le imprese agricole di grande dimensione. Quindi perché si dovrebbero opporre?
Perché temi tolgano le proposte su terra e biodiversità?
Perché sono temi scottanti. Sulla biodiversità è affermato ancora una volta che si possono commercializzare sementi tra contadini, mentre sulla terra c’è un discorso importante di promozione all'accesso che speriamo non cancellino. C’è anche un’idea interessante che viene dall’onorevole di Bolzano, Schullian, che riguarda il ruolo dei comuni rispetto alle terre private: prevede di fatto il ripristino della legge 440 del 1978 sulle terre private abbandonate. La legge c’è già e ci sono anche alcuni articoli della Costituzione, ma la grande novità consisterebbe nel chiamare i sindaci ad operare per facilitare l’accesso alla terra, al di là dei bandi sulle terre comunali da concedere, spesso con aste al rialzo. In un Paese come il nostro, i sindaci non si muovono se non gli fornisci qualche strumento che li faccia sentire protagonisti (…). C’è comunque la definizione di un modo di produzione, quello contadino, quindi di un modello di agricoltura che è specifico, nel riconoscimento della diversità dei sistemi di produzione e dei sistemi sociali. Ci sono molte questioni positive raccolte dentro i testi a dibattito, ma non tutte quelle che volevamo noi, anche a motivo delle diversità di vedute all’interno della Campagna. Molti dei neorurali, che vengono da posizioni auto-definite molto radicali, hanno poi una visione della realtà, che non so se definire ingenua o meno, ma molto schematica: si immaginano che “siccome lo faccio io”, questo darà vita ad un sistema a valanga che cambierà l’agricoltura italiana, non rendendosi conto che stiamo parlando di una delle agricolture più importanti del pianeta. Non siamo dei giardinieri a Lussemburgo, o degli ortolani urbani a Francoforte; ma noi, insieme alla Francia, siamo una delle agricolture trainanti del mondo. Siamo il primo Paese nell’esportazione dei prodotti biologici; in termini di estensione, siamo dietro a Spagna e Australia, ma in termini di quantità e di valore siamo i primi in assoluto ed in crescita. L’alternativa si afferma, ma oggi il biologico industriale è una delle realtà con cui devi fare i conti. In definitiva, a me sembra, che quello che continua a mancare sia una visione storica: da dove veniamo e chi siamo. Manca un’analisi dei rapporti di forza, ma anche una narrazione positiva, cioè questa autopresentazione miserevole fa credere al mondo … che l’agricoltura contadina sia una scelta di vita di una banda di clochard rifugiati in campagna. Mentre da un punto di vista economico, l’agricoltura con meno di una Ula produce un quarto del valore dell’agricoltura italiana, cioè un quarto di 43 miliardi di euro. Ma una parte del valore aggiunto dell’agricoltura non viene captato dalle analisi Istat, quindi - senza considerare i servizi ambientali – questa percentuale sul valore globale potrebbe essere superiore. Queste sono le aziende che non hanno nemmeno una persona a tempo pieno teorica, ma ci sono delle aziende piccole, contadine, con anche due o tre lavoratori a tempo pieno teorici con le quali si può arrivare forse al 50% del valore aggiunto.
Manca forse questa coscienza?
Assolutamente sí! C’è nell'Associazione Rurale Italiana (Ari) perché queste cose vengono discusse e perché in Ari c’è agricoltura tradizionale: c’è quello che ha la vigna, quello che ha le vacche e molti dei soci sono contadini da sempre. Quindi questa idea ce l’hanno, anche se poi a volte si presentano in modo subalterno, perché hanno subito una forte pressione sociale e culturale, da quando l’Italia ha deciso di essere solo un Paese industriale e quindi tutti quelli che facevano i contadini si sono sentiti gli ultimi, pochi e condannati a sparire o far finta di essere imprenditori. In realtà, ci sono ancora 3 milioni e mezzo di italiani che lavorano la terra, quindi non sono pochi. Ma non c’è coscienza nemmeno di queste dimensioni. Infatti partendo dalla definizione di agricoltura contadina che abbiamo inserito nella legge bisognerebbe fare i calcoli di quanto essa vale. Servirebbe fare una grande inchiesta come si faceva con la rivista Agricoltura e lotta di classe, regione per regione. Per esempio in Sardegna si sa tutto sui pastori, ma poco e niente sull’agricoltura: quelli che resistono cosa producono? Dove producono? Quanto vale la loro produzione? Quanto viene intercettato dal mercato formale e quanto no? E poi c'è tutto l’aspetto dell'integrazione di lavoro e di reddito. Per esempio, l’autista degli autobus in Sardegna, che però ha pure le pecore di cui si occupa la sera, oppure che ha l’orto: nel suo caso una parte del reddito viene reinserito in azienda, ma una parte viene prodotto proprio dall’azienda. Quindi quanto vale quell’azienda? O ancora, l’ortofrutta e il suo commercio diretto sfuggono completamente al mercato formale. Si potrebbe fare lavorando sui dati esistenti e poi condurre delle indagini sul terreno e delle mappature. L’altra cosa che volevo sottolineare è l’aspetto del differenziale di povertà negli spazi rurali: i poveri italiani crescono, e tra i più poveri ci sono i contadini senza o con poca terra, e i braccianti. E, guarda caso, si trovano nel sud dell’Italia. Perché? Come funzionano? Queste sono le conoscenze che ci mancano, su cui bisognerebbe indagare, per costruire un sapere condiviso con l’accademia.
Spesso viene messa in dubbio la persistenza della figura contadina nelle campagne italiane o, in alternativa, ci si interroga sulla sua viabilità economica e sulla sua capacità di rispondere adeguatamente, in quantità e in qualità, alla domanda alimentare proveniente dalle aree metropolitane. Quali argomenti addurresti in merito?
Si sta riflettendo su questa mitologia del Made in Italy e sull’arrivo dei fondi finanziari: secondo me è la controprova che l’agricoltura è un settore vitale, vivo ed economicamente valido. Ciò smentisce il fatto che le aziende siano inefficienti, in particolare l'affermazione che su 1 milione e 300 mila aziende almeno 1 milione siano inefficienti. L’altro argomento riguarda il lavoro e la modalità con cui l’agricoltura italiana produce: quando affermano che non siamo efficienti, c’è da capire come sia possibile allora che 300 mila aziende da sole producano 43 miliardi di valore dell’agricoltura italiana. Perché dobbiamo essere noi a spiegare che l’azienda contadina è efficiente? Perché non sono loro che ci spiegano perché le altre, quelle industriali, sono efficienti? Che farebbero queste aziende ritenute efficienti senza l’ingiusta ripartizione dei fondi della Pac e dei sostegni pubblici in generale?
Dall'altro lato, c'è chi invece preferisce folklorizzare la figura contadina e la sua produzione, magari con lo scopo di promuovere maggiori vendite all'insegna del prodotto genuino, campestre, portatore di sapori del passato, etc. ...
Sì, è il caso della presentazione dell’agricoltura contadina alternativa che viene fatta da alcuni che propongono l’immaginario contadino di cui parlavo prima. Una visione che tra l’altro continua ad impedire l’articolazione di un movimento contadino autonomo, capace di vertenze collettive e, allo stesso tempo, soffoca una riflessione sulla contemporaneità dell’agricoltura contadina italiana. Inoltre, dobbiamo affrontare un salto generazionale che è anche una frattura profonda nella catena della trasmissione del sapere e delle conoscenze. Oggi, i contadini che hanno tra i 50 e i 60 anni – che sono la struttura portante dell’agricoltura contadina - provengono o da aziende contadine nate precedentemente oppure da aziende sorte negli anni sessanta che hanno avuto l’obbligo di innovare. Qualcuno ha seguito convinto i dettami della Pac e delle politiche nazionali, soprattutto nella zootecnia: ha costruito, ad esempio, stalle con forte capitalizzazione e si è ritrovato poi in un mare di guai. La gestione era spesso il frutto di ricette dei tecnici, se non dei dettami dei contratti di soccida, dunque nessuna costruzione di sapere autonomo da trasmettere a chi avrebbe ereditato l’azienda. Ha poi passato l’azienda ai figli o ad altri parenti collaterali, a gente che adesso ha 50 o 60 anni. Il cuore delle aziende medio-piccole è fatta da questa generazione, che è figlia della Pac, dell’agronomo e dell’assistenza tecnica e che, quindi, non ha in realtà radici profonde, anche dal punto di vista tecnico. Si tratta di quei produttori che hanno smesso di produrre le proprie sementi, di quelli che si sono specializzati bruciando le proprie vite. Infatti, molti sono nubili o celibi, rimasti in casa per pagare i debiti che prima erano stati contratti dal padre e che poi hanno continuato a stipulare in prima persona. Lo sforzo è quello di vedere che tradizione di saperi resta oggi, viva, attuale e capace di evolversi dinamicamente, così come è accaduto fino alle grandi lotte per la terra e per la riforma agraria, e dunque in grado di cambiare radicalmente l’agricoltura italiana.
Anche per questo risulta strategico il discorso sul modo contadino di fare agricoltura, sulle caratteristiche dell'accesso alle risorse, degli orientamenti per gestirle, delle forme assunte dal lavoro, e così via. Dunque il modo in cui è pensata e fatta l’agricoltura contadina oggi, più che la ricerca di una supposta tradizione che è difficile da rintracciare.
Esattamente. Per questo dico che la discussione che manca è che cos’è un economia contadina nei nostri giorni, che è fatta da part-time, pluriattività e tante altre cose. E come si organizza un’azienda contadina? Con una logica che può essere anti-capitalista, ma che può anche non esserlo, poiché il radicalismo economico non sempre si accompagna al radicalismo di parole con cui si ammantano le esperienze in difesa dell'agricoltura contadina. Un esempio è l’agroecologia: se tu hai uno, tre, o anche 6 ettari di terra, riuscire ad organizzare un’azienda contadina agroecologica è quasi impossibile; mentre se disponi di 300 ettari di terra in Sicilia o 400 in Toscana ce la puoi fare con facilità
Perché? In America Latina, ad esempio, sono numerose le aziende agroecologiche con soli 5 o 6 ettari di terra.
Certo, ma ci sono dei limiti tecnici. In Vietnam, col sistema Vac3, grazie ad un’azienda di 3.500 metri quadrati una famiglia di 5 persone riesce a vivere. Poi, però, la famiglia vietnamita ha il pascolo delle oche nei prati, nello stagno ha altre 5 produzioni, compreso il pesce che mangia la famiglia ma che si vende pure. Quindi, la dimensione va riportata al Paese a cui si fa riferimento: in Europa e in particolare in Italia, in Grecia, in Spagna, in Portogallo e in parte anche in Francia, l’agroecologia tout court può rivelarsi come uno strumento di selezione di classe, poiché le aziende contadine di piccole dimensioni possono essere completamente tagliate fuori da una transizione agroecologica. La questione dell’accesso alla terra è centrale: non possiamo dire che avere un ettaro di terra e sputare sangue dalla mattina alla sera facendo orticultura intensiva, anche in biologico, debba essere il destino del contadino, tanto più che c’è gente che ha alcune migliaia di ettari e ci fa poco o niente. Io su questo rimango molto legato alla tradizione: ossia prendere la terra a chi ce l’ha; prendere la terra, non in proprietà, ma in uso per coltivarla. L’altro punto è la difficoltà di accesso che sperimenteranno i contadini del futuro. La popolazione contadina, in ogni caso, tende a scemare così come le aziende in generale; a questo proposito, il processo di concentrazione dell’uso della terra in Europa è spaventoso, tant’è che la Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo si è vista costretta a fare un’indagine sulla concentrazione e il land grabbing4.
Infatti gli indici di concentrazione della terra in Italia non sono poi così distinti rispetto ad altre aree del mondo, ad esempio l'America Latina...
Esattamente. Sono queste poi le cose con cui si deve confrontare l’agricoltura contadina.
Ritornando sul contributo e sulle potenzialità dell’agricoltura contadina, secondo te essa può veramente sfamare il mondo?
A livello planetario la cosa è ancora più chiara: se non lo fa l’agricoltura contadina non lo fa nessuno. Bisogna augurarsi che continui così, perché è l’unica alternativa. L’esempio che si fa sempre è quello dell’Africa: confrontando i dati teorici delle produzioni che passano sul mercato contabilizzato col numero di abitanti ed il consumo di calorie, dovrebbero essere tutti morti di fame perché sono abbondantemente sotto le mille calorie. Effettivamente questo è il calcolo teorico, però poi da qualche parte da mangiare c’è, per fortuna. Vivono perché l’agricoltura contadina africana produce e sfama villaggi e città.
Tornando alle proposte di legge, prima hai accennato che alcuni temi che avreste voluto inserire alla fine non appaiono. Cosa manca? Esistono inoltre dei punti controversi o delle ambiguità tra le quattro diverse proposte di legge presentate?
La legge promossa dal Movimento 5 Stelle è abbastanza in linea con le proposte avanzate dalla Campagna Popolare per l'Agricoltura Contadina, anche se segue un po’ l’idea romantica portata avanti da Genuino Clandestino, ma non crea grossi problemi. La proposta della Cenni è quella più articolata sulla questione della terra anche se ancorata ad una visione di agricoltura contadina che vive di marginalità. Spunti interessanti sull’accesso alla terra si ritrovano nella proposta sviluppata da Schullian (legato all'esperienza della Provincia di Bolzano) che ha fatto un ottimo lavoro anche su alcuni aspetti fiscali, burocratici e amministrativi che non c’erano nella proposta della Campagna o nel testo di legge presentato da Zaccagnini, quella più vicina alla nostra proposta. I punti deboli gravitano intorno alla fiscalità: non abbiamo fatto uno studio approfondito e navighiamo un po’ a vista. La questione del lavoro invece è abbastanza sviluppata, ma si potrebbe fare di più. Sulla biodiversità agricola si potrebbe fare molto di più, ma qui siamo stati bloccati dalla legge sulla biodiversità recentemente approvata. D'altronde si poteva lavorare di più anche sull’accesso alla terra, però riesci a farlo solo se sei in presenza di un movimento di occupazione o di rivendicazione delle terre molto forte, e dentro alla Campagna Popolare per l'Agricoltura Contadina questo non c’era. Ovviamente la proposta della Campagna, essendo scritta da oltre 30 organizzazioni, ha dovuto trovare compromessi fra tutti. Si può dire che è uno spaccato fedele del movimento contadino in Italia oggi, con tutti i suoi limiti e i suoi meriti. Ad esempio è un movimento che non vuole affrontare alcuni temi. Fa riflettere che le terre concesse in tempi recenti siano state date a neo-rurali (ad esempio la Cooperativa Coraggio, o Arvaia5, etc.) e siano spesso terre pubbliche. Di fatto è una lotta per il recupero all’uso pubblico del demanio, quindi non è una lotta alla concentrazione della terra. Non è il riconoscimento del diritto alla terra, ma è semplicemente una concessione ricevuta per svolgere un compito di sana gestione di un bene pubblico.
Quindi dentro la Campagna Popolare per l'Agricoltura Contadina le principali differenze tra le organizzazioni promotrici sono riconducibili ad un diverso grado di radicalità delle proposte portate avanti?
In verità, la legge, secondo me, non è radicale come doveva e poteva essere. Questo perché le realtà che l'hanno promossa non si sono mosse sulla base di un conflitto centrato su interessi collettivi, ma sulla base di uno scontro culturale e su scelte di vita di singoli. Gli unici che si stanno muovendo in maniera diversa sono in parte le organizzazioni della Sardegna o i soci Ari come Sos Rosarno in Calabria, ma per il resto sono pochi quelli che hanno coscienza di questo, c’è Fabrizio Garbarino (il Presidente di Ari) e pochi altri.
Quali sono le posizioni dei sindacati agricoli rispetto alla discussione di questa legge?
La Cia ha detto che se si volesse limitare la legge alle aziende piccole e povere, diventerebbe un problema (...). In una riunione ci hanno detto che la limitazione della dimensione sulla base del reddito aziendale sarebbe negativa per la crescita di queste aziende. Loro e la Lega Coop in generale non sono contrari. La Confagricoltura invece è rimasta indifferente. Con la Coldiretti ancora non siamo riusciti a confrontarci; all'audizione con la Commissione parlamentare ha delegato un avvocato che ha fatto riferimento ad alcune leggi che riteneva potessero essere attinenti, valutando dunque non necessaria una nuova legge.
Quali sono dunque gli obiettivi della Campagna Popolare?
La protezione e il riconoscimento dell’agricoltura contadina sono condivisi e continueremo a svilupparli oltre la legge stessa. Dopodiché l’obiettivo di massima è il miglioramento della legge Zaccagnini, con i contributi di elementi delle altre proposte in discussione. Soprattutto sulla fiscalità e l’accesso alla terra.
Quali potrebbero essere gli orizzonti dopo l'approvazione della legge?
Questa è una legge quadro, poi la vera battaglia si sposterà a livello regionale e comunale (i nuovi regimi fiscali, l’accesso alla terra, le norme igienico-sanitarie specifiche). Il percorso è lungo. La verità è che per noi è innanzitutto uno strumento di mobilitazione. Anche perché non siamo mai riusciti a creare una campagna nazionale in altri momenti, come ad esempio contro la riforma della PAC. Malgrado tutto, il lavoro istituzionale è stato mobilitante ma in ogni caso una legge, per buona che sia, non cambia la tua condizione come contadino, al massimo la facilita.
Ma potrebbe influire anche sui piani di sviluppo rurale...
Diciamo che si potrebbe avere un supporto istituzionale senza precedenti. Sarà anche interessante vedere come verrà notificata a livello europeo a Bruxelles.
A questo proposito, a livello europeo le normative sono più flessibili, giusto?
A livello di norme igienico-sanitarie, quella più blanda è quella spagnola, seguita dai francesi e poi dagli italiani. Per cui i francesi che noi imitiamo, vogliono far passare la normativa spagnola che è ancora più lasca. Anche la Germania ha delle normative non troppo rigide, ma il suo problema è che si sta parlando di aziende grandi o medio-grandi che hanno facilità a vendere direttamente nei mercati locali.
- 1. Si veda www.massimoangelini.it.
- 2. Giannozzo Pucci è membro fondatore di Asci (Associazione di solidarietà per la compagna italiana), fra gli iniziatori del movimento per l’agricoltura contadina in Italia, promotore della Fierucula, il primo mercato per la vendita diretta di prodotti biologici.
- 3. Vac è un acronimo formato dalle tre parole vietnamite: "Vuong": giardino o orto, "Ao": stagno di pesci, "Chuong": capannone animali (stalla, porcilaia, animali da cortile capannone).
- 4. Kay S., Peuch J., Franco J. (2015), Extent of farmland grabbing in the EU, DG Agri-European Union, Brussels [link].
- 5. www.arvaia.it.