Azionariato fondiario e gestione collettiva: una “Terre de liens" italiana?

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Azionariato fondiario e gestione collettiva: una “Terre de liens" italiana?
a Ceris - Cnr, Istituto di Ricerca sull’Impresa e lo Sviluppo del Cnr, Moncalieri (TO)

L’articolo1 presenta i principali tentativi di replicare in Italia l’esperienza francese di Terre de Liens, una realtà di azionariato fondiario che promuove l’accesso alla terra degli agricoltori al fine di contrastare il consumo di suolo.
In Italia si registra un progressivo abbandono del suolo agricolo - dovuto principalmente all’elevato costo dei terreni e alla caduta della profittabilità delle imprese a conduzione familiare (Inea, 2011) - in concomitanza a un elevato tasso di cementificazione. In particolare si parla di sprawl urbanistico laddove terreni prima destinati alle coltivazioni vengono edificati a causa di una disordinata espansione della città, con conseguente danno ai sistemi socio-economici locali basati sull’agricoltura. Chi a vario titolo si mobilita per preservare la destinazione agricola di tali terreni ritiene che l’urbanizzazione ne consideri solo la funzione economica a scapito di quella sociale (Perez, 2011; Battiston, 2012), con conseguenze di lungo periodo che gravano sull’intera comunità locale, agricola e cittadina. La questione dell’accesso alla terra degli agricoltori, in particolare giovani, è stata dunque inserita in agenda negli ambienti sensibili al concetto di sviluppo sostenibile ambientale e sociale (Franceschini, 2009; Altreconomia, 2012), che stanno promuovendo soluzioni piuttosto innovative: i sistemi agricoli supportati dalla comunità locale (Csa – Community Supported Agricolture)2, i Land trust3, oppure l’azionariato fondiario di cui si occupa il presente articolo. Sono tutte esperienze in cui per la protezione dei terreni è chiamata a mobilitarsi la comunità stessa, e in particolare quelle famiglie che dispongono di risparmi, che sono interessate ad alimentarsi in modo genuino e a vivere in un ambiente sano, ma che non possono coltivare la terra o controllare la catena di produzione: si tratta in particolare di chi abita nelle città.
I progetti di azionariato popolare sono realtà in cui i cittadini investono i propri risparmi per acquistare terreni da affittare ad agricoltori che si impegnano a produrre cibi biologici, che verranno commercializzati mediante una filiera corta al fine di riequilibrare la distribuzione del valore lungo la catena di produzione-vendita. Obiettivi collaterali sono promuovere l’etica del lavoro agricolo (cfr. Fao, 2012) e tessere reti tra realtà nazionali ed europee con obiettivi comuni per impostare attività di lobbying in tema di politiche pubbliche e comunitarie. Precursore e benchmark di tali organizzazioni è la francese Terre de Liens.
L’articolo focalizza i tentativi in Italia di costruire realtà simili a Terre de Liens (in seguito TdL), operazione particolarmente delicata in quanto richiede di trasferire meccanismi e strutture organizzative dovendoli adattare a un differente contesto istituzionale (giuridico, organizzativo, economico e sociale). Non esiste ancora un caso paragonabile a TdL come dimensioni e struttura, ma più progetti che a TdL si ispirano, pur operando su scale molto differenti. Parliamo di progetti perché la maggior parte di essi è ancora in fase di ideazione, gli altri di prima applicazione. Data l’estrema volubilità che caratterizza queste esperienze allo stato attuale e la richiesta di privacy di alcuni in un momento così delicato, nell’articolo presentiamo non i singoli casi ma tre modelli a cui possono essere ricondotti: possiamo definire questi tre modelli idealtipici, cioè ognuno è una costruzione teorica che rappresenta i tratti essenziali delle realtà a lui riconducibili. Tali modelli riassumono dunque in modo esaustivo i modi principali con cui si sta traducendo l’esperienza di TdL in Italia: essi differiscono in particolare nella forma giuridica e nella struttura organizzativa; nella modalità con cui avviene la raccolta di risparmio delle famiglie, e di conseguenza nella modulazione del potere decisionale a loro riservato e quindi nei rischi e nelle opportunità; nelle pratiche, retoriche e strumenti utilizzati come attivatori di fiducia per la raccolta di denaro delle famiglie (cfr. Mutti, 1987).
L’analisi prende spunto dal materiale raccolto tramite un’indagine esplorativa durata nove mesi (gennaio 2012 - ottobre 2012) condotta a stretto contatto con alcune delle realtà studiate, resa possibile grazie al contributo dedicato al tema da un gruppo di enti coordinati dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Borsa di studio Un fondo per la terra). I paragrafi seguenti presentano la ricerca (par. 1) e gli idealtipi ricostruiti (par. 2) e infine alcune considerazioni conclusive (par. 3).

L’azionariato fondiario come oggetto di studio

Le realtà analizzate nell’articolo poggiano su un meccanismo riconducibile al sistema della finanza alternativa (Baranes, 2004; Messina, Andruccioli, 2007) che ha l’obiettivo di coinvolgere maggiormente le famiglie nella gestione dell’investimento garantendo una minore opacità, e di generare non solo un rendimento finanziario ma anche un impatto positivo sulle dimensioni sociali e/o ambientali. L’assunto di base, infatti, è che si vive meglio in una società in cui proliferano realtà che si preoccupano di renderla “più sana e più equa”, e il guadagno è da leggersi come un contributo all’aumento del benessere generale e di conseguenza familiare e personale. Si tratta di questioni molto sentite dai cittadini, la cui fiducia nei mercati finanziari è stata messa duramente alla prova dagli scandali e dalla crisi esplosa nel 2008 (Mutti, 2008) che hanno alimentato perplessità sulla sostenibilità del modello di sviluppo economico prevalente nei paesi occidentali (cfr. Froud et al., 2010; Gallino, 2011).
La moltiplicazione delle possibilità di investire in realtà che promuovono sostenibilità sociale è tendenza che l’Italia condivide con il contesto europeo: recenti comunicazioni della Commissione europea promuovono il cosiddetto impact investing, le svariate forme di investimento in cui si valuta non solo il rendimento finanziario ma l’impatto sulla società e l’ambiente (UE, 2011).
Le realtà di azionariato fondiario studiate in particolare affrontano il problema dell’accesso alla terra degli agricoltori biologici, una questione di grande attualità che ricopre un variegato insieme di temi a carattere sociale, ambientale ed economico: il consumo di suolo causato dalla speculazione edilizia, l’inquinamento ambientale dovuto sia alla cementificazione sia alle tecniche colturali e di commercializzazione dei prodotti applicate dall’agricoltura intensiva, la tracciabilità degli alimenti e la certificazione della loro qualità, il recupero di antiche pratiche e della varietà in ambito alimentare.
La ricerca alla base dell’articolo ha avuto come obiettivo la costruzione di una mappatura delle esperienze italiane in un’ottica comparativa. L’analisi è durata sei mesi, da marzo a settembre 2012: in una prima fase si sono mappate le realtà riconducibili a una logica simile a quella di TdL, in una seconda fase di ricerca sul campo si sono analizzati da vicino i casi più strutturati. Il materiale è stato raccolto mediante interviste ai loro promotori, richiesta di documenti riguardanti la loro struttura e organizzazione, partecipazione comune a eventi.
Dopo aver analizzato le caratteristiche tecniche e giuridiche degli strumenti e degli attori coinvolti, si è comparato come nelle differenti realtà viene materialmente configurata la transazione di denaro per permettere il raggiungimento congiunto di tre obiettivi: i) remunerazione del capitale investito; ii) sostenibilità economica e mission della realtà non profit; iii) impatto sociale e/o ambientale alla base del coinvolgimento ideale delle famiglie. Si sono così ricondotte le realtà analizzate a tre modelli idealtipici che rendono conto dei diversi modi di implementare oggi in Italia progetti simili a TdL.
Nella scelta delle realtà da studiare si sono considerati esclusivamente i casi che prevedono la raccolta di risparmio per l’acquisto e la gestione collettiva dei terreni, e si sono scartate esperienze che non prevedono tutti questi passaggi: per esempio l’agricoltura supportata dalla comunità (Csa) e i Land trust sono certo fonte di ispirazione per le realtà indagate nella ricerca, ma se ne differenziano in quanto non prevedono raccolta di denaro per l’acquisto dei terreni. Analogo discorso vale per l’esperienza degli usi civici quale esempio di proprietà collettiva dei terreni (Nervi 2004).

Terre de Liens e i tre modelli di azionariato fondiario in Italia

Per meglio comprendere gli idealtipi ricostruiti nell’articolo è utile soffermarsi inizialmente sul funzionamento della francese Terre de Liens (TdL) in quanto benchmark delle principali esperienze a livello europeo. Si tratta di una realtà fondata nel 2003 e pienamente operativa dal 2007, che raccoglie i risparmi dalle famiglie e li utilizza per acquistare terreni che cede in affitto a contadini. A fine 2011 TdL aveva acquistato 2.500 ha di terreni, contava 6.500 azionisti con una media di 2.000 euro a sottoscrizione e 20 dipendenti dislocati in tutte le regioni francesi. La sua organizzazione è molto complessa e prevede attori giuridici differenti collegati in rete: questo al fine di coinvolgere soggetti portatori di istanze differenti, convogliarne gli interessi e differenziare diritti e doveri di ciascuno. I tre soggetti giuridici sono:

  • l’associazione Terre de Liens, che coordina le 19 associazioni regionali, svolge attività culturali e di networking;
  • la società in accomandita per azioni (di diritto francese) Terre de Liens Gestion, adibita all’acquisto e alla gestione dei terreni;
  • la fondazione per la gestione delle donazioni.

Dato che ci preme concentrarci sul tipo di coinvolgimento e di rischio richiesto alle famiglie finanziatrici, possiamo evitare di approfondire l’azione dell’associazione e della fondazione, limitandoci a sottolineare che il loro operato è necessario per garantire lo sviluppo e la sostenibilità economica di TdL, e dobbiamo entrare nel meccanismo della società in accomandita per azioni Terre de Liens Gestion. In essa operano i seguenti attori:

  • gli accomandatari. Si tratta dei 6.500 soci-azionisti (in prevalenza famiglie francesi) che hanno acquistato una quota di capitale sociale della società, versando in media 2.000 euro a testa. Sono responsabili per l’andamento dell’azienda nei limiti della quota di capitale che hanno investito.
  • gli accomandanti, a cui è affidata la gestione della società, e i cui rappresentanti formano il comitato di gestione. Si tratta di tre soci fondatori: la stessa Associazione Terre de Liens, la banca La Nef e il fondatore e ispiratore Sjoerd Wartena. Sono i gestori del capitale, interamente responsabili per le obbligazioni sociali (rispondono dei debiti della società con il proprio patrimonio).

Questa formula societaria è stata scelta espressamente per la possibilità di “separare il potere del denaro dal potere di gestione”: gli accomandatari comprando azioni riforniscono di denaro la società ma non intervengono in alcun modo nella gestione della stessa, che spetta al comitato di gestione e all’amministratore, entrambi nominati dagli accomandanti4. Questa divisione di denaro e potere, che rappresenta uno dei punti più delicati e criticati dell’operato di TdL, è giustificata dai suoi soci fondatori dal fine di voler contrastare “la logica capitalistica del potere del denaro”.
Per gli investitori non è prevista alcuna remunerazione del capitale, a parte la possibilità di fiscalmente una quota pari all’investimento negli anni in cui il Governo francese prevede questa possibilità (ad esempio nel 2010 non è stato possibile). Sarebbe dunque molto interessante, ma oltre le possibilità del presente articolo, approfondire direttamente le motivazioni dei soci a partecipare al progetto, soprattutto data la recente tendenza, a cui si è prima accennato, a promuovere investimenti con remunerazione alternativa, un settore finora rimasto fortemente di nicchia. Possiamo dire che TdL acquisisce nuovi soci mediante campagne di promozione in cui punta su valori di preservazione dell’ambiente e di cultura alimentare e si avvale di una capillare diffusione di operatori volontari. Per la riuscita di queste campagne è infatti di importanza fondamentale la costruzione di una rete di associazioni e comitati innervata nella realtà economica e sociale dei territori, che possano fungere da collettori di fiducia e quindi di azionisti, e la cui costruzione iniziale ha richiesto quattro anni di lavoro. Tutti gli operatori sul territorio, tranne un responsabile per ogni regione, operano a titolo volontario. Un ulteriore meccanismo a favore della costruzione di fiducia nell’operato della società è la certificazione come impresa solidale secondo il diritto francese, che prevede tra le altre cose che non vi sia squilibrio nella remunerazione tra i lavoratori e la dirigenza: la media delle somme versate ai cinque dirigenti o ai cinque impiegati meglio remunerati non eccede la remunerazione di un impiegato a tempo pieno 5 moltiplicata per cinque. Tutti questi elementi possono essere valutati positivamente da quegli investitori che vogliono promuovere, magari con solo una parte del loro capitale, una finanza a supporto dell’economia reale e sostenibile.
La forma societaria è uno dei primi problemi con cui si sono confrontare le realtà italiane che si ispirano ai principi e all’operatività di TdL. In Italia la soluzione della società in accomandita è formalmente possibile ma, a detta degli interessati, non praticabile perché solitamente considerata come espediente per occultare i reali proprietari della società, e quindi difficilmente foriera di fiducia presso le famiglie. D’altro lato, non esiste una certificazione analoga alla francese impresa solidale: la normativa sull’impresa sociale6 è molto restrittiva in termini di operatività e particolarmente scoraggiante per le obbligazioni contabili richieste.
La ricerca di forme giuridiche che possano gestire efficacemente i terreni e nello stesso tempo ispirare la fiducia delle famiglie ha prodotto più soluzioni organizzative, riconducibili a tre modelli idealtipici che riflettono la diversità dei soggetti promotori e implicano differenze negli strumenti di raccolta del capitale e nella sua remunerazione (Tabella 1).

Tabella 1 - Tre modelli di acquisto e gestione dei terreni mediante raccolta di pubblico risparmio

Nel modello a carattere nazionale l’associazione è un attore collettivo che unisce altre associazioni nazionali stabilmente operative da anni, con il compito di mediare tra loro; non è certo un caso che, almeno a un primo livello, rimangano esclusi i movimenti territoriali dei consumatori, dalla forte carica innovativa e il fermento destrutturante, da cui invece nascono i promotori del modello locale. L’obiettivo del modello nazionale, infatti, è la rapida strutturazione di significati condivisi tra i partecipanti, al fine di rendersi operativo nel più breve tempo possibile. A tal fine risulta quindi utile far ricorso a istituzioni pre-esistenti quali preziosi patrimoni di intelligenza collettiva che si è andata accumulando e stabilizzando in un processo storico, cui gli attori possono attingere per cercare soluzioni efficaci a problemi legati alla cura di quelli che ritengono essere beni comuni (De Leonardis, 2001), quali nel nostro caso la produzione biologica. Il modello nazionale si propone dunque di attingere al sapere e al capitale sociale delle associazioni che lo compongono sia verso il basso – per la costruzione della fiducia delle famiglie – sia verso l’alto – per sfruttare i già costruiti canali di lobbying sulla politica; questa soluzione è preferita rispetto alla possibilità di inoltrarsi in un lungo e faticoso dibattito con i movimenti della base per la costruzione partecipata dell’associazione. Si tratta di una logica di costruzione dell’iniziativa fortemente top-down, che parte da una regia centrale per poi espandersi ed essere presentata a livello locale. Una simile soluzione di minimizzazione dei tempi e dei costi di coordinamento operativo è quella del modello locale for profit, che prevede la replicabilità di un modello societario rigidamente strutturato.
Il modello locale segue invece una logica bottom up, in quanto prevede la costruzione partecipata della cooperativa tra gli attori coinvolti localmente. Più cooperative dislocate sul territorio possono collegarsi strutturando un’organizzazione a rete che prevede un unico nodo centrale adibito al coordinamento e alla fornitura di alcuni servizi comuni. In questo modo si renderebbe più efficiente l’operatività facendo circolare informazioni sulle soluzioni organizzative e abbattendo i costi (es. per la tenuta della contabilità). Ogni realtà manterrebbe comunque una sua unicità e prevedrebbe tempi lunghi di innervamento dell’esperienza nella comunità locale.
Nella tabella 2 è analizzato come ogni modello tiene insieme gli interessi degli attori coinvolti: come abbiamo anticipato, si tratta della remunerazione del capitale investito; della sostenibilità economica e della mission della realtà finanziata; dell’impatto sociale e/o ambientale alla base del coinvolgimento ideale delle famiglie.

Tabella 2 - Una visione di sintesi dei modelli

L’operatività a carattere nazionale richiede un minor grado di fidelizzazione dei soggetti finanziatori grazie al turn-over su cui può contare pescando nell’ampio portafoglio di soci e simpatizzanti delle associazioni promotrici. Al contrario, il più elevato coinvolgimento delle famiglie cercato dal modello locale ha una duplice funzione riguardo alla costruzione della fiducia. Mediante il completo innervamento nella comunità e la costruzione nel tempo di relazioni personali, da un lato mira a garantirsi quanto più possibile una sostenibilità economica di lungo periodo mediante la creazione di legami forti e con valenza plurima: nella visione dei promotori, i finanziatori possono essere anche consumatori dei prodotti agricoli e cittadini residenti sul territorio che beneficiano della preservazione dell’ambiente, quindi dovrebbero essere molto incentivati a non ritirare il denaro in essa investito. Dall’altro lato, nel modello cooperativo, tessere tali legami permette ai promotori di effettuare una valutazione dei futuri soci, cercando di preservarsi dal rischio di “scalate ostili” da parte di soggetti che avessero intenzione di cambiare l’oggetto sociale della cooperativa e quindi la destinazione dei terreni.
Questo rischio è la principale motivazione che ha spinto i promotori del modello nazionale a escludere il principio “una testa un voto” proprio della cooperativa e a optare per la gestione dei terreni tramite una fondazione di partecipazione7, che sulla scia di quanto fatto da TdL permette di separare il potere del denaro dal potere di gestione dei terreni. Per un analogo motivo il modello for profit permette di differenziare diritti e doveri dei partecipanti e limitare il diritto di voto dei portatori di capitale. La condivisione del potere nell’organizzazione è dunque un ulteriore elemento di distinzione dei modelli: dal principio di piena responsabilizzazione di “una testa un voto” a una moderata inclusione nella gestione aziendale.

Osservazioni conclusive

L’articolo ha fornito una prima presentazione dei modelli organizzativi che si stanno implementando in Italia per facilitare l’accesso alla terra degli agricoltori biologici al fine di contrastare il consumo di suolo. Sul modello della francese Terre de Liens stanno strutturandosi realtà che raccolgono pubblico risparmio per acquistare terreni da gestire collettivamente, affittandoli ad agricoltori che si impegnano a produrre secondo metodi naturali. Le principali soluzioni prevedono un differente grado di partecipazione dei cittadini che investono i propri risparmi: dal pieno coinvolgimento in termini di capacità decisionale e di rischio a una più moderata partecipazione alla vita societaria; analogamente in alcuni casi la remunerazione del capitale è monetaria e fissata in precedenza, in altri prevede anche forme di rendimento alternative quali la fornitura di prodotti agricoli o il beneficiare della preservazione del territorio.
Le principali questioni che rimangono da approfondire, e che definiscono i limiti dell’articolo, vanno in due direzioni. Da un lato, sarebbe auspicabile un’analisi di mercato per valutare la collocazione della produzione di TdL nei settori di riferimento e le potenzialità delle singole realtà italiane, ai fini di giungere a valutazioni in merito alla loro sostenibilità economica che tengano conto dei costi, del tipo di coltivazioni, dei canali di vendita. Rimane inoltre ancora completamente da stimare l’interesse degli agricoltori a partecipare a un progetto che non preveda per loro il possesso di terra, un bene che in Italia viene considerato come un’importante risorsa familiare da trasmettere tra le generazioni; per lo stesso motivo occorre valutare l’interesse degli investitori a possedere collettivamente i terreni.
Collegato a questo aspetto, resta da indagare il coinvolgimento delle famiglie in progetti di finanza ed economia alternativa, un settore che fino a oggi ha mostrato un carattere fortemente di nicchia con difficoltà ad attecchire stabilmente nel sistema capitalistico. Si tratta di mettersi dal punto di vista di soggetti in procinto di decidere in quale soluzione finanziaria investire (cfr. Moiso, 2011), ovvero in procinto di compiere un atto di consumo, avendo presente che per le famiglie dedite al consumo alternativo la stessa pratica del consumo assume contorni nuovi e speciali.
Recenti analisi sottolineano che per tali soggetti consumare non significa solo comunicare e esprimersi, ma anche e soprattutto riorganizzare il mondo che li circonda con una partecipazione attiva (Sassatelli 2004; Leonini, Sassatelli 2008). In una visione sostanziale dell’economia à la Polanyi questi consumatori non sembrano voler uscire dal mercato, bensì cambiarlo, dedicando a questa causa una parte significativa del loro tempo e delle loro risorse: criticano gli aspetti giudicati insostenibili da un punto di vista etico e politico della produzione su larga scala e vogliono introdurre innovazioni agendo sulle regole stesse del mercato. Il consumatore coinvolto in un Gruppo di Acquisto Solidale (Gas), in un distretto di economia solidale, socio di una bottega del commercio equo o coinvolto in altre realtà nate dal basso fa divenire il consumo una vera e propria forma di agire politico (Leonini, Sassatelli 2008). Stiamo dunque parlando di un fenomeno di nicchia che presenta un forte potenziale di crescita: la responsabilizzazione del consumatore e la visione del consumo quale cruciale terreno di mutamento sociale.
Nei casi descritti nel presente articolo, per convincere i cittadini a investire il loro denaro non è necessario solo calibrare il classico trade-off tra rischio e rendimento o essere esecutori di pratiche che creino fiducia nelle istituzioni coinvolte, ma occorre anche riuscire a alimentare le motivazioni a carattere fortemente sociale e valoriale alla base del loro coinvolgimento. In questa direzione rimane ancora da indagare l’accettazione e il sostegno alle realtà indagate, e in particolare le eventuali differenze dovute a una progettazione top-down o bottom up dell’esperienza alternativa.
In sintesi, TdL e le iniziative che ad essa si ispirano propongono di superare il concetto di proprietà privata e di remunerazione degli investimenti a favore della proprietà e della gestione collettiva di un bene che produce ricchezza per l’intera comunità, misurabile in termini di miglioramento dell’alimentazione e di preservazione dell’ambiente. Si tratta di una innovazione non indifferente in termini culturali, su cui però sempre più realtà stanno iniziando a scommettere.

Riferimenti bibliografici

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  • De Leonardis O. (2001), Le istituzioni. Come e perché parlarne, Roma, Carocci

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  • Moiso V. (2011), I fenomeni finanziari nella letteratura sociologica contemporanea: l’emergenza di nuove prospettive, in «Stato e Mercato» n. 92/2011, pp. 313 - 342.

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  • Nervi P. (2003) (a cura) Cosa apprendere dalla proprietà collettiva. La consuetudine fra tradizione e modernità, Padova, Cedam

  • Sassatelli R. (2004), The political morality of food. Discourses, contestation and alternative consumption, in M. Harvey, A. McMeekin e A. Warde (eds.), Quality of Food, Manchester, Manchester University Press.

  • Perez V. S. (2011), La risposta dei contadini, Milano, Jaca Book.

  • 1. Il presente articolo è reso possibile grazie al lavoro di ricerca finanziato nel 2012 dalla borsa di studio Un fondo per la terra promossa dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica in collaborazione con Aiab-Associazione Italiana Agricoltura Biologica, Mag2Finance Milano, Sefea-Società Europea Finanza Etica e Alternativa (gruppo Banca Etica) e Scret-Supporto e Connessione Reti Territoriali. Una prima versione è contenuta nel report finale a cura di Fcre, che le autrici ringraziano per l’autorizzazione, ed è stata presentata al convegno Ais-Elo 2012 “Cause e impatto della crisi. Individui, territori, istituzioni”, Università della Calabria, 27 – 28 settembre 2012 e al convegno “Corsa alla terra”, Rovigo, 16 marzo 2013; le autrici, che si assumono l’intera responsabilità di quanto scritto, ringraziano i partecipanti per gli utili commenti.
  • 2. Si tratta di un fenomeno presente soprattutto in Germania, Francia, Usa: comunità di individui si impegnano a sostenere un’impresa agricola in cui coltivatori e consumatori condividono i rischi e i benefici della produzione alimentare. Le Csa di solito prevedono un sistema di consegna settimanale in cassetta di verdure, frutta, talvolta latticini e carne prodotti dalle imprese sostenute.
  • 3. I Land trust sono organizzazioni non profit soprattutto anglosassoni, fortemente innervate nella comunità locale, che sostengono forme di gestione collettiva di terreni tramite acquisizioni e donazioni. www.landtrustalliance.org
  • 4. Solo indirettamente gli accomandatari possono vegliare su un corretto andamento riunendosi annualmente in assemblea: in quella sede nominano il consiglio di sorveglianza della gestione e, su consiglio del comitato di gestione, il comitato di esperti, l’organo deputato a studiare e formulare un parere su tutti i progetti di acquisizione dei terreni e che dovrebbe essere espressione delle differenti categorie stakeholder della società. Attualmente si tratta di un contadino e agronomo, un giurista, un economista esperto di progettazione, un sociologo, un esperto di diritto rurale, un agricoltore bio, un esperto di finanza in pensione.
  • 5. Più precisamente si tratta del Salaire minimum interprofessionnel de croissance (Smic).
  • 6. D.Lgs. 155/06.
  • 7. La fondazione di partecipazione è un ente privato la cui forma giuridica non è definita dal legislatore ma sorta nella prassi dell’ultimo decennio. A differenza delle fondazioni ordinarie può prevedere, similarmente a un’associazione, la presenza di una pluralità di soggetti (persone fisiche o giuridiche), che possono unirsi in momenti successivi alla fondazione apportando capitale (monetario, immobile), e che possono essere differenziati per quanto riguarda il peso del voto in assemblea.
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