Introduzione
Il tema dell’agricoltura sociale è stato ospitato più volte in passato in Agriregionieuropa, sin dai primi numeri della Rivista (Pascale, 2005; Senni, 2005; Finuola, Pascale, 2008; Di Iacovo, 2009).
È un tema complesso che lambisce, per sua natura, diversi ambiti e settori della vita sociale ed economica e coinvolge differenti punti di vista, tutti parziali ma, al tempo stesso, fondamentali per comprendere nodi, potenzialità e possibili traiettorie di sviluppo.
Da alcuni anni in Italia si susseguono, con intensità crescente, occasioni di confronto, discussione e approfondimento sulla funzione sociale delle attività agricole e sui caratteri del tutto peculiari e originali che questa ha nell’ambito più generale delle azioni di inclusione e di coesione sociale. Questo interesse è andato crescendo parallelamente anche in molti paesi europei e mi pare interessante rilevare la singolarità di come, in Europa, l’attenzione nei confronti delle pratiche di agricoltura sociale, variamente definita, sia germogliata quasi contemporaneamente, e in modo autonomo, in diversi paesi e da parte di attori e soggetti operanti in ambiti molto distanti, o apparentemente tali. Evidentemente, erano maturi i tempi perché si aprisse uno sguardo nuovo su quanto andava accadendo nelle campagne. Uno sguardo agevolato anche dal diffondersi dell’idea della multifunzionalità agricola che si è andata affermando e che ha consentito, anche grazie ad un crescente dialogo interdisciplinare e intersettoriale, di cogliere l’esistenza di pratiche innovative in atto nelle campagne, in alcuni casi, già da molti anni.
Così nei primi anni dello scorso decennio ricercatori e operatori di diversa estrazione disciplinare si sono incontrati in modo informale (la prima volta in Olanda nel 2004) per avviare comuni riflessioni e scambi di esperienze intorno ai benefici che il coinvolgimento attivo nelle pratiche agricole può avere per persone fragili, variamente vulnerabili o a rischio di esclusione sociale.
Prese avvio da questo processo la Comunità di Pratiche “Farming for Health” e nel 2006 iniziò l’Azione europea di cooperazione scientifica e tecnologica (Cost Action 866) “Green Care in Agriculture” che in quattro anni di attività ha promosso un fertile interscambio scientifico tra ricercatori e studiosi di 14 paesi europei e appartenenti ad ambiti disciplinari molto eterogenei. Dalla Comunità di Pratiche sono gemmati vari progetti europei, il principale dei quali è il SoFar-Social Farming coordinato da Francesco Di Iacovo dell’Università di Pisa (Di Iacovo, O’Connor, 2009), i cui risultati, insieme a quelli della Cost 866, hanno influito in maniera determinante sull’iniziativa del Cese e sul parere che ne è risultato.
Il parere del Cese
Nel 2012 il Comitato Economico e Sociale Europeo ha avviato le consuete procedure per esprimere un parere sull’agricoltura sociale che ha trovato il momento culminante nell’audizione di stakeholders europei, tenutasi a Bruxelles nel mese di Giugno.
Il parere, con 124 voti favorevoli e 3 astensioni è stato approvato nella seduta plenaria del 12 dicembre 2012 (Eesc, 2012).
Un primo aspetto che balza agli occhi del lettore è che la definizione di agricoltura sociale viene affrontata a metà del documento, e non all’inizio, come ci si attenderebbe. Viene proposta una definizione qualificata come provvisoria, per la consapevolezza che anche il passaggio definitorio richiede un’attenzione, un confronto e direi una negoziazione non semplice, visto che va a coprire approcci ed esperienze estremamente variegate.
La traduzione italiana del parere definisce come agricoltura sociale “un insieme di attività che impiegano risorse agricole, sia vegetali che animali, al fine di creare prestazioni sociali nelle aree rurali o periurbane. In questo senso, scopo dell’agricoltura sociale è quello di creare le condizioni, all’interno di un’azienda agricola che consentano a persone con esigenze specifiche di prendere parte alle attività quotidiane di una fattoria, al fine di assicurarne lo sviluppo e la realizzazione individuale e di migliorare il loro benessere” (punto 3.3).
La definizione riprende quella condivisa nell’ambito dell’Azione Cost 866. Essa appare riduttiva laddove si identificano le risorse dell’agricoltura come quelle “vegetali e animali”, trascurando l’importanza che hanno alcune risorse immateriali dell’agricoltura come il tempo, il carattere del contesto agricolo, le relazioni, le visioni e i valori insiti in azioni di cooperazione produttiva con il vivente, quale è sostanzialmente l’agire agricolo. In altre parole, il valore della responsabilità, l’essere coinvolti in un fare finalizzato e carico di senso, lo sguardo al futuro, l’apprendimento continuo, rappresentano fondamentali aspetti immateriali delle capacità inclusive e riabilitative di un coinvolgimento attivo nelle pratiche agricole.
Aldilà di questo, il parere appare consapevole che lo sviluppo dal basso che hanno avuto nei territori europei le pratiche di agricoltura sociale richiede che qualunque intervento sia ponderato con attenzione, al fine di preservare il dinamismo e la ricchezza delle esperienze in atto nei territori.
Quello che appare fondamentale, come indicato al punto 5.1 del parere, è il riconoscimento del valore aggiunto generato dalle pratiche di agricoltura sociale che non necessariamente richiede interventi normativi ad hoc. La stessa approvazione di un parere autorevole, come quello del Cese, nel quale sono rappresentate tutte le organizzazioni più rappresentative del sistema, sociale, culturale ed economico europeo, costituisce di per sé un riconoscimento formale di grande rilevanza.
Con riferimento alle azioni da intraprendere, il documento del Cese sottolinea l’esigenza di sviluppare maggiore conoscenza sull’agricoltura sociale e sul potenziale innovativo che le pratiche esprimono. Auspica, quindi, una maggiore attenzione del tema nei programmi di ricerca anche al fine di valutare con maggiore rigore e respiro di quanto non sia stato fatto finora le ricadute delle esperienze di agricoltura sociale sui beneficiari in primo luogo, ma anche sulle reti sociali e sui sistemi economici a cui tali esperienze partecipano.
Una ricerca che non può che essere fortemente interdisciplinare, perché ha per oggetto un vasto e diversificato arcipelago di iniziative - e di attori coinvolti - in cui la prospettiva sociale o medica è collocata al di fuori di un contesto esplicitamente sociale o medico. In cui si riconosce che non regge più di tanto una separazione tra la dimensione economica, quella produttiva, formativa, sociale, riabilitativa, ecc., ma in cui, al contrario, si generano delle peculiari connessioni e sinergie tra questi momenti che tradizionalmente vengono analizzati e affrontati in modo separato, sinergie che sono l’autentica carica innovativa che le esperienze esprimono.
L’avvio ormai prossimo di Horizon 2020 può, in tal senso, rappresentare un’opportunità importante.
Un altro punto rilevante presente nel parere del Cese è quello della formazione degli operatori e dei soggetti coinvolti, aspetto che in alcuni contesti potrebbe dare un impulso notevole all’espandersi delle iniziative e alla capacità di queste di corrispondere pienamente alle aspettative delle persone coinvolte.
Qualche perplessità suscita, a mio avviso, l’auspicio circa la creazione di organismi di rappresentanza degli interessi dell’agricoltura sociale (punto 1.7). Il rischio che intravedo è quello della creazione di una sorta di comparto specifico nel mondo agricolo dedicato all’erogazione di servizi sociali o sociosanitari. In questo senso appare anche discutibile l’eccesso del termine “terapeutico” o “terapie” che ritorna più volte nella traduzione italiana e peraltro molto meno nel testo inglese.
Alcune riflessioni conclusive
Aldilà di ciò che ne sarà in termini di recepimento nelle politiche europee, il parere del Cese rappresenta indubbiamente un fondamentale riconoscimento al tema dell’agricoltura sociale e alle esperienze che in questo ambito si riconoscono. Insieme, per quanto riguarda il nostro paese, all’indagine conoscitiva realizzata dalla Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati (2012) costituisce un riferimento importante per promuovere una maggiore consapevolezza sul ruolo innovativo che le imprese agricole, e più in generale l’agricoltura, possono svolgere nella produzione di benessere e di coesione sociale.
Una preoccupazione che potrebbe emergere dalla lettura del parere è quella di prefigurare un nuovo ambito, quello appunto dell’agricoltura sociale, come un settore “specialistico” dell’agricoltura che ospiti un certo numero di imprese specializzatesi appunto nell’erogazione di un servizio, pagato, direttamente o indirettamente, dal welfare pubblico. Un po’ come avviene attualmente in alcuni paesi del nord Europa.
La via italiana all’agricoltura sociale è differente: ha portato alla formazione, ancora in divenire peraltro, di sistemi locali di agricoltura sociale, nei quali il welfare viene assunto come responsabilità comunitaria da parte di una pluralità di attori pubblici e privati, tra i quali le imprese agricole sono uno dei soggetti delle reti locali che si stanno sviluppando. Un modello di agricoltura sociale che, di fronte alla crisi fiscale dello stato, appare maggiormente virtuoso perché mobilizza risorse locali non solo finanziarie, comprese le attitudini di cittadini verso stili di acquisto responsabili, e capace così di garantire in forme nuove sostenibilità delle pratiche.
In tal senso l’attenzione che il documento del Cese dà alle forme di sostegno finanziario pubblico alle pratiche di agricoltura sociale deve riuscire a superare la logica di trasferimenti di tipo verticale tra soggetto pubblico e attore privato erogatore del servizio, per indirizzare le eventuali risorse nel sostenere percorsi di sviluppo rurale nei quali il tema dell’agricoltura sociale venga assunto come un tema di sviluppo del territorio, e non tanto di singoli soggetti erogatori di servizi.
Sull’ultimo numero di Agriregionieuropa il Presidente dell’Istat sottolineava come la crescente complessità del panorama italiano dell’imprenditorialità agricola pone la questione del ripensamento dei confini di ciò che chiamiamo agricoltura. Un ripensamento che va di pari passo con quello sul ruolo dell’agricoltura nella creazione del benessere sociale, un ruolo che interpella non solo la società civile, ma anche i policy makers.
L’agricoltura sociale non può che essere pensata in questa cornice complessa. Sarebbe riduttivo immaginarla come una sorta di “botte nuova” dove mettere il “vino vecchio” che non si sa più dove mettere, cioè come una modalità di realizzare in campagna (la botte nuova) interventi sociali di natura prevalentemente assistenziale che magari consentono qualche risparmio alle esauste casse delle politiche sociali (il vino vecchio).
È piuttosto il contrario, ovvero un’antica botte dove è possibile mettere un vino nuovo (Fazzi, 2008), basato sul coinvolgimento e sulla partecipazione di attori del mondo produttivo e imprenditoriale alla produzione di salute e di inclusione secondo approcci in cui sono coinvolti molti altri soggetti società civile delle comunità locali, improntati alla consapevolezza e responsabilità che diventano ingredienti trainanti di un nuovo sviluppo. In questa chiave, l’agricoltura sociale mette in discussione la tradizionale visione di un welfare dei “due tempi” secondo la quale in un primo tempo occorre creare la ricchezza e solo successivamente può intervenire lo Stato per redistribuirne una parte con le politiche di welfare. L’agricoltura sociale, nelle sue esperienze migliori, dimostra che il welfare può diventare un generatore di reddito e un motore di sviluppo, e non deve sempre necessariamente attendere che la ricchezza sia generata.
È immaginabile che non sia un caso che in tempi di recessione o di stagnazione, il Comitato Economico e Sociale Europeo abbia ritenuto di dover prestare attenzione a quanto di innovativo sta avvenendo nelle campagne europee, intravedendo nell’agricoltura la possibilità di sviluppare percorsi di innovazione sociale che possano contribuire a dare risposte di accoglienza, di inclusione e di coesione ad una domanda crescente, che rimane sempre meno soddisfatta dai tradizionali sistemi di welfare.
Riferimenti bibliografici
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Camera dei deputati (2012), Indagine conoscitiva sull’agricoltura sociale, doc. approvato dalla XIII Commissione Permanente, [link]
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Cost Action 866 (2006-2010), Green Care in Agriculture, [link]
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Eesc (2012), Social farming: green care and social and health policies (opinion), rap. J. Willems [link]
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Di Iacovo F. (2009), Agricoltura sociale: innovazione multifunzionale nelle aree rurali europee, Agriregionieuropa, n. 19, [link]
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Di Iacovo F., O’Connor D. (2009), Supporting policies for social farming in Europe: Progressing multifunctionality in responsive rural areas, Agriregionieuropa, n. 19, [link]
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Fazzi L. (2008), Botti vecchie per vino nuovo: nuovi trend di sviluppo delle cooperative sociali in Italia, Areté- Quadrimestrale dell’Agenzia per le Onlus, Maggioli.
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Finuola R., Pascale A. (2008), L’agricoltura sociale nelle politiche pubbliche, Agriregionieuropa, n. 14, [link]
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Giovannini E. (2012), Il volto dell’agricoltura tra complessità e cambiamento, Agriregionieuropa, n. 31, [link]
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Pascale A. (2005), Etica e agricoltura per un nuovo welfare rigenerativo, Agriregionieuropa, n. 1, [link]
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Senni S. (2005), L’agricoltura sociale come fattore di sviluppo rurale, Agriregionieuropa, n. 2, [link]