Istituto Nazionale di Economia Agraria |
Introduzione
Una delle novità più importanti contenuta nelle proposte di regolamento di riforma della Pac è senza dubbio costituita dal cosiddetto "inverdimento" (greening) degli interventi del primo pilastro, prevalentemente destinati al sostegno del reddito e dei mercati agricoli. Le motivazioni riguardano, come sempre, la promozione e il sostegno di forme di agricoltura realmente sostenibili, con particolare riguardo alla conservazione della biodiversità, delle risorse suolo e acqua e alla protezione dai cambiamenti climatici. Sebbene l'adozione delle misure di greening sia associata a una quota pari al 30 per cento dell'ammontare complessivo degli aiuti disaccoppiati, le interpretazioni più accreditate della norma indicano la necessità di dover rispettare gli obblighi per ricevere l'intero ammontare del pagamento diretto. In questo senso, effettivamente, il greening si presenta come una misura supplementare alle norme di condizionalità che sono state confermate in una versione aggiornata anche per il periodo 2014-2020.
Il greening si applica a tutte le aziende che ricevono pagamenti disaccoppiati, con l'esclusione delle aziende biologiche, di quelle che aderiscono al regime semplificato per i piccoli agricoltori e delle aziende ricadenti in zone Natura 2000. In sintesi i tre requisiti ambientali, che saranno applicati sulla superficie ammissibile al pagamento diretto, riguardano: (a) la diversificazione delle colture per le sole superfici a seminativo superiori a 3 ettari (presenza contemporanea di almeno tre colture differenti con una superficie compresa per ognuna tra il 5 ed il 70 per cento della superficie a seminativo); (b) la superficie a foraggere permanenti che gli agricoltori devono mantenere obbligatoriamente; (c) le aree di interesse ecologico, rappresentate da superfici non coltivate (terreni a risposo, siepi, macchie boscate, muretti a secco, ecc.) che devono interessare almeno il 7 per cento della superficie aziendale, esclusa quella allocata a foraggere permanenti.
L'intento della Commissione è quello di predisporre norme semplici da applicare e controllare, contrattualizzate su base annuale, focalizzate sulla produzione di beni pubblici ambientali piuttosto che su aspetti produttivi. Si conferma, quindi, il ruolo dell'agricoltura come protagonista nella gestione del territorio e il riconoscimento pubblico di questo ruolo attraverso i diversi interventi che si sono susseguiti a partire dalle prime misure agroambientali proposte nel 1985. L'aspetto più cruciale riguarda le diverse tipologie di regolamentazione e di incentivi che sono stati proposti in questi decenni. Tra le due tipologie estreme (rigida regolamentazione e incentivazione su base volontaria) si è venuto a formare un nuovo tipo di intervento (la condizionalità) che assume soltanto parzialmente il carattere obbligatorio o volontario, in funzione dell'entità dell'aiuto al reddito a cui il requisito ambientale è legato.
La base di partenza per comprendere la logica perseguita dall'Unione europea è rappresentata dall'identificazione dei metodi di produzione agricola che sono in grado di garantire una ragionevole conservazione delle risorse naturali e che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità più volte ribaditi nei piani di azione e nei regolamenti, in primis per quanto riguarda il cambiamento climatico e la biodiversità. Va aggiunto che i trattati internazionali - e il ruolo leader che l'UE vuole avere in questo contesto - impongono scelte ambiziose che a volte entrano in aperto conflitto con la compatibilità economica del settore sottoposto a vincoli ambientali. La figura 1 esemplifica la struttura di base degli interventi comunitari, dove la definizione del livello di riferimento (ovvero il metodo sostenibile di produzione) assume un ruolo cruciale. Da un lato, gli obiettivi ambientali che vanno oltre il livello di riferimento sono raggiunti attraverso finanziamenti pubblici (es. le misure del Psr) che premiano il comportamento attivo degli imprenditori. Dall'altro lato, i requisiti ambientali che stanno al di sotto del livello di riferimento sono a carico del produttore con la parziale eccezione del sostegno condizionato, che comporta una sorta di “scambio” tra maggiori vincoli e accesso a finanziamenti pubblici non a carattere ambientale.
Figura 1 - Obiettivi ambientali e livelli di riferimento
Fonte: adattato da Cooper et al. 2009
Il dibattito in Europa
La proposta di greening della Commissione ha avviato un confronto molto articolato nelle sedi istituzionali (il Parlamento europeo, innanzitutto), tra i vari portatori d'interesse e nella comunità scientifica. La Commissione aveva già individuato alcune opzioni di intervento nella comunicazione "La Pac verso il 2020" del novembre 2010 (pascoli permanenti, coperture vegetali, la rotazione delle colture e il set-aside ecologico) e nei mesi seguenti sono state realizzate alcune analisi puntuali. Assieme alle proposte di regolamento sono state presentate ben 180 pagine di analisi che evidenziano la rilevanza dei problemi ambientali e danno modo di valutare gli effetti sull'economia agricola di questi nuovi obblighi o di opzioni alternative (European Commission, 2011). Le proposte della Commissione prendono le mosse da questi studi e cercano di coniugare una duplice sfida: salvaguardare l'ambiente, che può essere compromesso anche da uno sviluppo agricolo non sostenibile, mantenendo un'adeguata competitività del settore. Tutto questo al fine di garantire la legittimità del sostegno all’agricoltura, il cui beneficio alla società giustifica gli sforzi richiesti ai contribuenti.
Le discussioni e le critiche riguardano soprattutto il terzo requisito, le cosiddette Ecological Focus Area (Efa), che rischiano di produrre impatti piuttosto consistenti sui bilanci economici delle imprese. Questa proposta non è molto diversa dalle "aree di compensazione ecologica" introdotte da qualche anno in Svizzera come elemento di condizionalità (Cooper et al., 2009, pag. 134). Gli agricoltori svizzeri sono tenuti a dimostrare che in azienda è presente una certa percentuale di aree destinate a compensazione ecologica (7 per cento della SAU o 3,5 per cento nel caso di colture specializzate), rappresentate da foraggere permanenti estensive, siepi, boschetti, piccole zone umide, sentieri, muretti a secco e frutteti estensivi. I 120 mila ettari così gestiti, pari al 12 per cento della Sau svizzera, sono rappresentati per tre quarti da prati estensivi. I rappresentanti dei produttori agricoli ritengono che il greening sia completamente contrario alle due principali sfide che attendono l'agricoltura europea: la sicurezza alimentare e il suo contributo alla crescita economica (Copa-Cogeca 2012). In alternativa ai requisiti proposti dalla Commissione, giudicati sostanzialmente inaccettabili, viene proposta: (a) una integrazione tra protezione ambientale e processi produttivi - senza peraltro definire bene in cosa si sostanzia tale integrazione; (b) la possibilità per gli agricoltori di accedere ad una lista di misure tra cui scegliere quelle maggiormente adattabili alla realtà aziendale e (c) una riduzione sostanziale dell'ammontare di risorse destinato al greening nel 1° pilastro. Un menu di opzioni di greening viene proposto anche dal Groupe de Bruges (2012) che riprende un sistema a punteggio operativo nel Regno Unito del 2005 per migliorare le performance ambientali dei sistemi agricoli aziendali. L'approccio prevede anche degli incentivi se viene superata una certa soglia di punteggio.
Sul fronte opposto i movimenti ambientalisti giudicano le proposte di greening troppo modeste rispetto agli obiettivi da raggiungere in termini di biodiversità e cambiamenti climatici. In particolare Birdlife e Wwf chiedono un innalzamento della soglia minima di Efa ad almeno il 10 per cento della superficie agricola e la rotazione colturale piuttosto che la diversificazione, oltre ad una definizione più rigorosa di "foraggere permanenti". A sostegno di queste opzioni alcuni istituti di ricerca hanno evidenziato la validità delle Efa sotto il profilo ecologico se vengono rispettati alcuni criteri, tra cui il divieto di utilizzare tali aree a fini produttivi (Oppermann 2012). Viene posto l'accento sul fatto che l'applicazione obbligatoria a tutte le superfici agricole destinatarie di pagamenti disaccoppiati consente un'applicazione su una scala ben maggiore delle misure agroambientali. È auspicata anche una certa flessibilità nella scelta degli standard da parte degli stati membri, sebbene questa opzione comporti il rischio di ridimensionare la portata degli standard (Ieep, 2011). In generale la preoccupazione maggiore riguarda il rischio che durante il negoziato si arrivi ad attenuare la portata degli interventi con risultati ambientali molto modesti e un aggravio burocratico inutile.
I giudizi da parte di esperti del settore e accademici sono in generale positivi per quanto riguarda il principio generale di rendere maggiormente "sostenibile" il pacchetto di aiuti concessi nell'ambito del 1° pilastro, ma vengono ampiamente criticati i requisiti ambientali proposti. Ad esempio nel recente sondaggio di Agriregionieuropa il greening viene giudicato inutile dato che si poteva semplicemente rafforzare la condizionalità e mal congegnato con il rischio di complicazioni amministrative piuttosto pesanti (Sotte 2012). Tra gli interventi a livello europeo spicca la proposta di Mahè (2012) che propone di applicare le Efa in misura variabile su un reticolo territoriale (spatial grid) piuttosto che sulle singole unità aziendali, mediante modelli di analisi spaziale in grado di esaltare le caratteristiche territoriali che meglio si adattano alla definizione di Efa, rendendo possibile anche lo scambio di quote di Efa all'interno della singola grid e incentivando la creazione di corridoi ecologici.
Dubbi sulla validità degli standard proposti sono evidenziati anche da Roza e Selnes (2012) che pongono l'accento sull'appesantimento delle procedure amministrative a fronte di vantaggi ambientali abbastanza limitati. L’Agenzia olandese per la valutazione ambientale ha stimato un potenziale incremento del 3 per cento di diversità biologica raggiungibile nel 2020 sulla superficie agricola dell’UE27, qualora fossero rispettati gli obblighi del greening (van Zeijts et al. 2011). Peraltro la stessa Agenzia ha evidenziato che gli standard dedicati alla diversificazione e alle foraggere permanenti non modificano la situazione attuale e che un'applicazione non coordinata a livello territoriale delle Efa riduce in misura significativa i potenziali effetti ambientali positivi. Viene criticato anche il mancato intervento nel settore zootecnico con standard che garantiscano migliori condizioni di benessere per gli animali e una maggiore efficienza dei processi produttivi (Westhoek et al. 2012).
Molti autori si sono interrogati sull'opportunità di includere il greening nell'ambito del 1° pilastro anziché rafforzare le misure agroambientali del 2° pilastro. Da questo punto di vista le misure di greening assomigliano ad una "super-condizionalità" che sposta il livello di riferimento delle buone pratiche agricole più in alto rispetto al passato. Al pari della condizionalità si tratta di una misura obbligatoria, annuale e che - nella versione attuale - non ammette flessibilità nelle scelte da parte dello stato membro. Risulta decisamente meno orientata a risolvere problemi ambientali specifici ma ha la possibilità di essere applicata su scala molto più vasta rispetto alle misure ambientali. Le relazioni che si creano tra condizionalità, greening e misure agroambientali prefigurano un sistema a più stadi in cui la fornitura di beni ambientali è inversamente proporzionale alla semplicità amministrativa (Figura 2). Una delle sfide maggiori nella progettazione di queste misure riguarda proprio l'individuazione della giusta proporzione tra i vantaggi ambientali che si possono conseguire e l'aggravio burocratico-amministrativo connesso all'applicazione delle norme (Roza, Selnes 2012, Keenleyside et al. 2011)
Figura 2 - Relazioni tra standard ambientali e fornitura di beni ambientali
Fonte: adattato da Buckwell 2012
In generale le diverse proposte alternative al regolamento della Commissione non sembrano essere molto più convincenti sotto il profilo della semplicità di applicazione o di un effettivo impatto ambientale. Va aggiunto che il dibattito a livello europeo non prende in adeguata considerazione le caratteristiche dell'agricoltura mediterranea, dove la presenza di coltivazioni arboree intensive da un lato e la sostanziale assenza di foraggere permanenti nella maggior parte delle aziende rendono piuttosto diverso il contesto applicativo rispetto al resto dell'agricoltura europea.
Gli effetti del greening in Italia
La novità del greening ha sollevato più di qualche perplessità tra gli operatori del settore in Italia per via del probabile impatto negativo sul bilancio economico delle imprese. In generale si sostiene che la riduzione complessiva del sostegno pubblico e la congiuntura economica non certo brillante rendono impraticabile questo ulteriore sacrificio da parte delle imprese agricole. Per contro, molto raramente sono stati evidenziati i problemi ambientali che continuano a creare le forme più intensive di produzione agricola, malgrado siano ormai in vigore regolamentazioni come quella della direttiva Nitrati che cercano di limitare gli effetti ambientali più negativi. In realtà, non sono ancora disponibili informazioni sufficienti che possano consentire di valutare le conseguenze negative in termini di mancati redditi rispetto ai benefici ambientali che si possono conseguire con queste nuove norme di condizionalità.
Un primo aspetto da chiarire riguarda quali aziende devono effettuare dei cambiamenti significativi nel loro assetto produttivo per poter ottemperare ai nuovi obblighi. Da questo punto di vista, le analisi della Commissione hanno evidenziato effetti economici abbastanza modesti. Sulla base di quelle valutazioni, le aziende che dovranno adeguare la propria struttura produttiva subiranno un aggravio di costi mediamente pari a 43 euro per ettaro a livello UE27, un valore simile si registra anche per l'Italia, che presenta una delle minori riduzioni del reddito agricolo per unità di lavoro rispetto ad altri paesi membri.
Una prima informazione quantitativa sul potenziale impatto del greening è stata realizzata utilizzando l'indagine Istat sulla struttura e produzione delle aziende agricole, riferita al 2007 (Povellato, Longhitano 2011). I risultati vanno valutati in modo prudenziale, dato che si tratta di stime campionarie e mancano alcune informazioni che consentirebbero, soprattutto nel caso delle aree di interesse ecologico, valutazioni più appropriate. Gli archivi di Agea sono gli unici a contenere informazioni sugli elementi non coltivati presenti in azienda, ma finora soltanto in Lombardia è stato possibile quantificare gli effetti economici dell'introduzione del greening (Pretolani 2012). Di seguito si riportano i principali risultati di questi studi.
Diversificazione delle colture
Nell'ipotesi di una soglia minima di 3 ettari, in Italia sono circa 2 milioni gli ettari appartenenti a 190 mila aziende nel 2007 che hanno coltivato nella superficie a seminativi soltanto 1 o 2 colture, rispetto ai 4,6 milioni di ettari che complessivamente saranno soggetti alla misura di diversificazione (Povellato, Longhitano 2011). La superficie scende ulteriormente se si ipotizza una soglia minima di 5 ettari (1,7 milioni di ettari) o di 10 ettari (1,3 milioni di ettari). In Lombardia si stima che circa il 30 per cento della SAU regionale dovrebbe adattare l'ordinamento colturale al nuovo vincolo, con una perdita di reddito tra -5 e -10 per cento (Pretolani, 2012). Sotto il profilo agronomico la scelta della diversificazione al posto dell'avvicendamento pluriennale non appare particolarmente sensata, dato che la monocultura potrebbe essere continuata destinando sempre la medesima superficie alla stessa coltura nel rispetto della presenza di tre colture. La scelta della Commissione viene giustificata in base al carattere annuale del contratto che viene sottoscritto per ricevere i pagamenti disaccoppiati e alla semplificazione delle attività di controllo da parte dell'organismo pagatore. In realtà, in Italia esiste già una norma di condizionalità che vieta la monocultura per un periodo superiore ai 5 anni, quindi la motivazione del contratto annuale non appare realmente cogente. Se si intende perseguire comunque la strada della diversificazione - anziché, ad esempio, il divieto della monosuccessione per più di 3 anni - sarà opportuno innalzare la soglia minima di applicazione per ovviare ai problemi che la diversificazione creerebbe nelle aziende di piccola dimensione.
Superficie a foraggere permanenti
In Italia, secondo i dati Spa 2007 (Povellato, Longhitano 2011), vi sono 1,3 milioni di aziende che non hanno alcuna superficie a foraggere permanenti, mentre la superficie a prati e pascoli si concentra in 185 mila aziende che detengono quasi 2 milioni di ettari. I dati provvisori del Censimento 2010 mettono in luce che la superficie a prati e pascoli è cresciuta in misura significativa soltanto al Sud - probabilmente anche per effetto di una più precisa contabilizzazione delle superfici detenute da enti pubblici - mentre nel Centro Nord si registrano riduzioni del 10-15 per cento, a conferma di una progressiva riduzione di questo utilizzo del suolo così importante per la conservazione delle risorse naturali e della biodiversità. In sostanza la situazione non cambia molto rispetto al precedente obbligo di condizionalità che riguardava il mantenimento dei prati e dei pascoli a livello di paese membro. Va sottolineato che l'introduzione di un obbligo basato sulla situazione esistente genera, in molti casi, una condizione di squilibrio tra quanti hanno mantenuto le superfici e quanti hanno convertito le superfici in anni precedenti. La fondazione Rise (2009) ha proposto un meccanismo basato su quote scambiabili (floor and trade) che consente di realizzare un'allocazione più efficiente e più equa delle superfici a foraggere permanenti, sotto il profilo ambientale ed economico. Una prima stima degli effetti di un sistema di quote obbligatorie di superficie a foraggere permanenti per ogni azienda, ma scambiabili in funzione dei rapporti di convenienza tra acquisto della quota mancante e modifica della propria superficie a foraggere permanenti, ha evidenziato un costo per le aziende relativamente modesto rispetto al vantaggio ambientale potenzialmente conseguibile (Povellato, Longhitano 2011).
Aree di interesse ecologico
Riguarda tutte le aziende, con l'esclusione di quelle che hanno soltanto foraggere permanenti. Purtroppo la mancanza di informazioni specifiche sugli elementi non coltivati, citati nel regolamento, consente soltanto una stima largamente approssimata. Rispetto ad una superficie teorica da dedicare a elementi non coltivati pari a 600 mila ettari (7 per cento della superficie a seminativi e coltivazioni arboree), in Italia dovrebbero essere riconvertiti circa 200 mila ettari, soprattutto in pianura (Povellato, Longhitano 2011).
L'obbligo esteso a tutte le aziende rende meno iniquo il precedente requisito di condizionalità che prevedeva l'obbligo di mantenere gli elementi non coltivati soltanto per le aziende che non avevano ritenuto opportuno eliminarli nel passato per aumentare la superficie coltivata. Inoltre la distribuzione capillare di questi elementi non coltivati nel territorio dovrebbe favorire un migliore equilibro biologico nell'ecosistema agricolo. Sarebbe auspicabile che la gestione degli elementi non coltivati fosse coordinata all'interno di una pianificazione di area, ma d'altra parte non appare fuori luogo ritenere che ogni azienda debba avere una dotazione di elementi che aumentano la biodiversità e la conservazione delle risorse naturali. In sostanza, si tratta di ripristinare - possibilmente secondo i criteri della pianificazione territoriale - alcune condizioni ecologiche che nel corso degli ultimi decenni si sono perdute soprattutto nelle aree più fertili dove il vantaggio economico ha quasi completamente annullato le esigenze di equilibrio ecologico.
Ovviamente questi nuovi standard - e in particolare le Efa - possono avere dei costi non indifferenti. Un drastico cambiamento di destinazione d'uso della superficie agricola avrebbe un riflesso negativo non indifferente sul patrimonio aziendale nelle aree dove il valore della terra è particolarmente elevato. Un'elaborazione tratta dall'Indagine Inea sul mercato fondiario evidenzia come il problema sarebbe assai rilevante in molte aree del Nord, dove oltre il 15 per cento della terra ha un valore superiore ai 50 mila euro ad ettaro (Tabella 1).
Tabella 1 - Superficie agricola utilizzata per classi di prezzo della terra (2010)
Fonte: Inea, Banca Dati dei Valori Fondiari
Inoltre è ipotizzabile che, a fronte di pagamenti diretti non più elevati come un tempo, si possa innescare una valutazione da parte dell'agricoltore sulla convenienza o meno ad aderire al regime dei pagamenti diretti stesso per evitare gli obblighi del greening. Nel caso delle Efa, ad esempio, la rinuncia al 7 per cento della superficie agricola comporta una perdita di reddito lordo per ettaro (RL/ha) pari ad un analogo 7 per cento. Quindi, in tutti casi in cui la quota perduta di reddito lordo delle produzioni vegetali supera il valore del pagamento diretto, scatta la convenienza a non aderire al regime dei pagamenti diretti.
Prendendo in considerazione il valore medio ipotizzato per l'Italia a partire dal 2014, pari a 232,6 euro per ettaro (Pupo D'Andrea 2012), la soglia di convenienza in termini di RL/ha sarebbe pari a 3.323 euro/ha nell'ipotesi che l'agricoltore sia costretto a rinunciare al 7 per cento della superficie agricola (232,6/0,07). Valori più elevati di RL/ha si ottengono se si riducono le quote di Efa necessarie per ottemperare al nuovo standard. In base alle elaborazioni dei dati Rica relativi al 2009, il 10,5 per cento della superficie agricola aziendale si troverebbe al di sopra della soglia nell'ipotesi 7 per cento con quote più rilevanti al Sud e al Nord rispetto al Centro (Tabella 2). Le quote di Sau si riducono al 7,4 per cento e al 2,2 per cento nel caso di obbligo di Efa rispettivamente al 5 per cento e al 2 per cento. Il dato più eclatante riguarda l'impatto per ordinamento produttivo: praticamente la stragrande maggioranza delle aziende specializzate in ortofloricoltura è incentivato a non aderire al nuovo regime di aiuti disaccoppiati e anche una quota consistente delle aziende specializzate in coltivazioni permanenti si trova nella medesima situazione. L'incidenza percentuale si riduce drasticamente negli altri casi.
Tabella 2 - Incidenza percentuale di Sau1 cumulata con diverse soglie di convenienza ML/ha (2009)
Fonte: Inea, Banca Dati Rica
A fronte di un impatto economico assai rilevante alcune soluzioni di compromesso dovrebbero essere ricercate, laddove l'intensità produttiva e l'elevato prezzo della terra non lasciano spazio ad aree di interesse ecologico. Una possibile opzione - considerata dalla Commissione ma successivamente scartata - riguarda l'utilizzo dell'inerbimento nell'interfila per le colture arboree e la copertura vegetale per alcuni periodi d'anno nel caso delle colture orticole. Queste pratiche potrebbero ridurre l'impatto ambientale generato dall'eccessiva intensità colturale, almeno in via transitoria dato che per ripristinare un equilibrio ecologico ragionevole si dovrà ricorrere ad ulteriori misure nel futuro. Basti pensare a certe zone vitate a Doc o a frutticoltura o anche a olivicoltura ad alta densità d'impianto, che cominciano a mostrare seri problemi anche sotto il profilo paesaggistico (Tomasi 2009). La banalizzazione del paesaggio ormai non riguarda soltanto le aree di pianura, dove prevale la mono-successione e sono scomparse le siepi e i muretti a secco.
Considerazioni conclusive
L'ulteriore ampliamento degli obiettivi ambientali nella Pac determinato dalla nuova proposta di greening sollecita alcune considerazioni sulle prospettive di questo approccio e sugli auspicabili sviluppi di nuove indagini e analisi sui rapporti tra agricoltura e ambiente.
In primo luogo va sottolineato che la scelta da parte degli agricoltori di rifiutare il pagamento disaccoppiato pur di non perdere quote di reddito più o meno consistenti non risolve il problema ma semmai lo sposta più avanti. Gli orientamenti dell'UE sono abbastanza chiari: è previsto un graduale ma costante intervento per aumentare gli standard ambientali e le imminenti applicazioni della direttiva sulle acque e sull'uso sostenibile dei pesticidi sono un segnale ben preciso. Non è neanche pensabile che si adotti una semplice strategia "dualistica" con aree ad alto valore naturale da un lato, dove si dovrebbero concentrare gli sforzi per mantenere la qualità ambientale, e le aree più fertili dall'altro lato, dove proseguirebbe una intensivazione produttiva che non garantisce una sufficiente protezione delle risorse naturali e della biodiversità.
Il contrasto tra l'inverdimento e gli altri obiettivi della Pac (sicurezza alimentare e competitività) non è nuovo, dato che in molti casi il raggiungimento di obiettivi ambientali richiede una rinuncia in termini economici. Vista la prevalente contrarietà del settore rispetto al processo di greening, si dovrebbe quindi valutare se gli obiettivi ambientali debbano sempre essere considerati residuali rispetto agli obiettivi economici e sociali. Una delle parole d'ordine per il prossimo futuro sembra sia quella della "intensificazione sostenibile" che dovrebbe garantire sia la competitività che la protezione della natura. Per assicurarsi che questo approccio generi un percorso virtuoso di sviluppo economico e sociale, un ruolo strategico dovrebbe essere giocato dal sistema della conoscenza che opera attorno all'azienda agricola. È proprio la capacity building indicata in figura 1, l'elemento che dovrebbe consentire di andare oltre il mero giudizio di convenienza di breve periodo che sta alla base delle scelte operate dal settore agricolo in questi ultimi decenni e che ha incrementato i danni ambientali di pratiche agricole non sostenibili.
Infine, se una critica si può fare alle proposte della Commissione, questa riguarda lo scarso tempo a disposizione delle aziende per adeguare la propria struttura produttiva. Ad esempio, nel caso delle aree di interesse ecologico sarebbe più ragionevole stabilire un obiettivo pari al 7 per cento da raggiungere entro il 2020, dando modo alle aziende di usufruire delle misure agroambientali per adeguare l'ordinamento colturale. Ciò consentirebbe anche un monitoraggio più preciso della distribuzione degli elementi non coltivati al fine di valutarne l'efficacia in termini ambientali.
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