Introduzione
La povertà e l’insicurezza alimentare sono certamente due dei più gravi problemi che affliggono ancora oggi l’umanità, e infatti sono entrambi oggetto del primo degli otto Obiettivi di sviluppo del Millennio, stabiliti dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2000. Secondo le ultime stime ufficiali disponibili, nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” vi sono 1,02 miliardi di persone denutrite, mentre 1,4 miliardi di persone vivono con meno di 1,25 US$ al giorno.
Le due organizzazioni che stimano questi dati, FAO e Banca Mondiale, adottano entrambe metodologie che sono state seriamente criticate. La FAO stima il numero di affamati1 partendo dalle statistiche sulla disponibilità di cibo e modificandole per tener conto della distribuzione. Alcuni autori, tra cui Svedberg (2000), hanno sollevato diverse obiezioni al metodo della FAO e, coerentemente con le definizioni più avanzate di sicurezza alimentare2, hanno invece suggerito di utilizzare le cosiddette misure “antropometriche”.
Per quanto riguarda la povertà, oltre alle critiche di Reddy e Pogge (2010) sulla “linea di povertà” monetaria internazionale adottata dalla Banca Mondiale, molti altri studiosi già a partire dagli anni Settanta3, hanno messo in discussione la definizione e misurazione della povertà in termini monetari (e dunque, unidimensionale) , proponendo approcci non monetari e multidimensionali4.
In ogni caso, a prescindere dalle questioni metodologiche, alcuni aspetti della fame e della povertà a livello globale sono ormai accertati: (a) le aree più colpite in termini sia assoluti sia relativi sono l’Asia meridionale e l’Africa sub-sahariana; (b) l’incidenza dei due fenomeni è generalmente maggiore nelle aree rurali; (c) i paesi in cui l’agricoltura ha un peso maggiore sono quelli più colpiti.
La figura 1 illustra il terzo punto in relazione all’incidenza della povertà monetaria nei diversi paesi e regioni in via di sviluppo.
Figura 1 - Peso dell'agricoltura e povertà
Fonte: nostra elaborazione su dati World Bank, World Development Indicators.
Il secondo e il terzo aspetto, oltre ad essere interdipendenti, sono ben noti da molto tempo e sono anche alla base dell’approccio convenzionale al problema della fame.
Il nesso agricoltura-fame-povertà: la visione convenzionale
Secondo la visione più affermata, esiste una relazione ben precisa e bidirezionale tra agricoltura, fame e povertà, che riassumiamo brevemente. Come abbiamo osservato in precedenza, attualmente circa tre quarti dei poveri nel mondo vivono nelle aree rurali dei paesi meno sviluppati e traggono il proprio sostentamento principale dall’agricoltura (occupazione, reddito, alimentazione). In molti casi, si tratta di agricoltura di sussistenza e/o su piccola scala, con bassi livelli di produttività, e fortemente dipendente dall’andamento climatico. Di conseguenza, spesso la produzione destinata all’autoconsumo è scarsa e instabile, come pure la presenza di un surplus destinabile al mercato e l’eventuale reddito che ne deriva. La gran parte di questi poveri che vivono nelle aree rurali soffre perciò di insicurezza alimentare. Naturalmente, i bassi e instabili livelli di produzione e di reddito agricoli non sono sempre unicamente o principalmente imputabili alla scarsa produttività: molte altre cause possono concorrere, come ad esempio carenze di infrastrutture e di beni pubblici, difficoltà nell’accesso ai mercati (incluso quello del credito) alle tecnologie e all’informazione, scarsi livelli di istruzione, debole potere contrattuale e prezzi relativi sfavorevoli, problemi nell’accesso alle risorse primarie (terra, acqua).
La scarsa produttività delle famiglie agricole più povere non è però soltanto un problema rurale: infatti, la presenza di un basso e instabile surplus alimentare in un paese prevalentemente agricolo può generare insicurezza alimentare anche nelle aree urbane, nella misura in cui la possibilità di importare alimenti è limitata (da vincoli di bilancio o da cause esogene). Esiste, naturalmente, anche una relazione che procede in senso inverso, creando un circolo vizioso: la fame generata dall’insicurezza alimentare, a sua volta, favorisce la povertà. Infatti, le persone malnutrite hanno una minore capacità di lavorare, di imparare, e di prendere cura di sé stessi e dei propri familiari. Di conseguenza, anche la loro produttività agricola ne risente.
In questa visione classica, il problema dell’insicurezza alimentare è dunque un problema prettamente agricolo, e la soluzione è un processo di crescita agricola principalmente attraverso l’incremento della produttività, in particolare quella dei piccoli produttori. L’aumento della produttività agricola di questi ultimi accresce la loro sicurezza alimentare e il loro reddito, e riduce quindi la povertà rurale. Inoltre, il conseguente aumento della produzione alimentare nazionale può aumentare la disponibilità alimentare per le zone urbane e ridurre il fabbisogno di importazioni. In questo modo, il circolo vizioso viene spezzato. Naturalmente, oltre alla riduzione della povertà e della fame, ci sono altri buoni motivi per dare priorità e favorire la crescita del settore agricolo rispetto ad altri settori, motivi che derivano dal contributo più generale che l’agricoltura può dare al processo di crescita di un’economia in via di sviluppo5 e che rafforzano gli argomenti precedenti.
Nella schematica presentazione del nesso agricoltura-fame-povertà che qui è stata fatta non sono stati inclusi, per brevità, due influenti fattori vincolanti - a loro volta interdipendenti - che possono esacerbare il circolo vizioso e bloccare il processo di crescita. Il primo è il fattore demografico, reso celebre da Malthus: nelle economie agricole meno sviluppate non soltanto la produttività agricola è relativamente bassa, ma la crescita della popolazione da sfamare è generalmente superiore a quella della produzione alimentare, poiché proprio le famiglie più povere hanno un tasso di fertilità maggiore. La conseguenza è che, a parità di altre condizioni, in quelle economie il divario tra domanda e offerta interna di cibo tende ad aumentare rapidamente. Il secondo è il fattore ambientale: laddove l’agricoltura resta il mezzo principale di sostentamento, la pressione demografica crescente sulle risorse naturali - spesso fragili - nelle aree rurali dei paesi meno sviluppati provoca un degrado o addirittura un esaurimento di queste risorse. In questo modo viene indebolita la base produttiva proprio delle famiglie rurali più povere, che vedono dunque peggiorare le proprie condizioni.
Meriti e limiti della visione convenzionale
La visione che è stata presentata nel paragrafo precedente gode di un largo consenso, a livello sia accademico sia istituzionale, e ha certamente diversi meriti, ma ha anche alcuni limiti, soprattutto in relazione al problema della sicurezza alimentare.
Innanzitutto, è bene ricordare che a livello globale già da alcuni decenni il numero di calorie pro capite disponibili è non soltanto sufficiente, ma ormai molto superiore al fabbisogno della popolazione mondiale. Ciò è possibile perché, al di là delle oscillazioni congiunturali e occasionali, la produzione alimentare mondiale è cresciuta più rapidamente della popolazione. Il fatto straordinario, spesso dimenticato, è che questa crescita è avvenuta proprio nel periodo (la seconda metà del 1900) in cui l’aumento della popolazione mondiale è stato il più rapido nella storia dell’umanità. Pertanto, i cupi orizzonti malthusiani della scarsità di cibo, ancora oggi spesso richiamati, si sono rivelati del tutto infondati. Inoltre, anche guardando al prossimo futuro, le previsioni demografiche a lungo termine ci dicono che, sebbene la popolazione mondiale continuerà ad aumentare a tassi sostenuti per alcuni decenni, per effetto della “transizione demografica”, questi tassi saranno decrescenti.
I problemi di sicurezza alimentare vanno analizzati inquadrandoli in questo scenario globale. Se c’è circa un miliardo di persone denutrite, il motivo non è quindi la mancanza di cibo, ma il fatto che queste persone, per una serie di circostanze, non hanno accesso al cibo che è disponibile (Sen, 1981). Un generico aumento della produzione agricola mondiale, dunque, produce soltanto un ulteriore aumento della disponibilità, ma non necessariamente un miglioramento dell’accesso. Lo stesso discorso vale a livello nazionale: perfino nei paesi deficitari, un aumento della disponibilità non è detto che riduca l’insicurezza alimentare delle famiglie più povere. Per ridurre la fame è necessario, invece, intervenire sui “titoli” (entitlements) che garantiscono l’accesso al cibo.
Come abbiamo visto, la maggior parte delle persone affamate vive di agricoltura nelle aree rurali dei paesi del Sud del mondo: un aumento della loro produzione alimentare e/o del loro reddito migliora certamente la loro sicurezza alimentare. Quindi, da questo punto di vista, la visione convenzionale, laddove suggerisce una crescita agricola che coinvolga in primo luogo i piccoli produttori più poveri (pro-poor agricultural growth) è certamente corretta.
Questo approccio, tuttavia, ha il limite di essere fondamentalmente statico e di breve periodo, e di avere un focus settoriale troppo ristretto. In primo luogo, è necessario riflettere sul fatto che proprio nei paesi con maggiore povertà e insicurezza alimentare il peso relativo dell’agricoltura è molto forte perché la struttura produttiva di queste economie, soprattutto nelle aree rurali, non è sufficientemente diversificata e offre dunque alla popolazione scarse opportunità di occupazione e reddito in settori extra-agricoli. Concentrare gli interventi principalmente sul settore agricolo, sebbene nel breve periodo possa migliorare le condizioni di vita dei piccoli produttori, trascura però di promuovere un sentiero di diversificazione nel lungo periodo (Sen, 1999, cap. 7). In effetti, sono proprio i paesi con maggiore specializzazione agricola - che non hanno ancora avviato un processo di trasformazione strutturale - ad avere maggiori difficoltà nel raggiungere la sicurezza alimentare, mentre le economie meno dipendenti dall’agricoltura hanno generalmente minori problemi. In questa prospettiva, l’insistenza sullo sfruttamento dei vantaggi comparati, costringendo molti paesi del Sud del mondo ad approfondire la loro specializzazione agricola - spesso in poche commodities - ha ostacolato le trasformazioni strutturali necessarie.
Da questo punto di vista, quindi, il problema della sicurezza alimentare nel lungo periodo non consiste soltanto o principalmente nell’aumento della produttività dei piccoli produttori agricoli, ma soprattutto nel favorire, specie nelle aree rurali, l’espansione di attività extra-agricole che offrano alle popolazioni più povere fonti alternative e complementari di reddito e di occupazione.
“La strategia, spesso sostenuta, di concentrarsi esclusivamente sull’espansione dell’agricoltura - e specificamente sulle colture alimentari - è come mettere tutte le uova nello stesso paniere, e i pericoli di una tale politica possono essere davvero grandi” (Sen, 1999, p. 177, trad. nostra).
Riferimenti bibliografici
- Alkire S, Foster J. (2007), Counting and Multidimensional Poverty, OPHI Working Paper 7, University of Oxford Drèze J., Sen A. (1989), Hunger and Public Action. Oxford, Clarendon Press
- Johnston B. F., Mellor J. W. (1961), "The Role of Agriculture in Economic Development" The American Economic Review, 51(4), 566-93
- Kuznets S. (1964), “Economic Growth and the Contribution of Agriculture: Notes on Measurements”, in Eicher C. K. Wittand L. W. (a cura di), Agriculture in Economic Development, New York, McGraw-Hill
- Reddy S., Pogge T. (2010), “How Not to Count the Poor”, in Anand S., Segal P. e Stiglitz J. (a cura di), Debates in the Measurement of Global Poverty, Oxford, Oxford University Press
- Sen A. (1981), Poverty and famines : an essay on entitlement and deprivation. Oxford, Clarendon Press
- Sen, A. (1999), Development as Freedom, Oxford, Oxford University Press
- Svedberg P. (2000), Poverty and Undernutrition: Theory, Measurement and Policy. Oxford, Oxford University Press
- United Nation Development Programme (1997). Human Development Report 1997: Human Development to Eradicate Poverty, New York, Oxford University Press [link]
- 1. Per l’esattezza, la FAO stima il numero di persone “denutrite” (undernourished), ossia persone il cui consumo energetico giornaliero (espresso generalmente in calorie alimentari) è al di sotto di un fabbisogno minimo. Tuttavia, la fame non riguarda soltanto la denutrizione ma, più in generale, la “malnutrizione”, ossia una dieta inadeguata e/o squilibrata (di cui la denutrizione è un caso specifico particolarmente rilevante). In questo articolo, quando si parla di fame si farà riferimento soprattutto alla denutrizione.
- 2. L’attuale approccio metodologico della FAO riflette la concezione della sicurezza alimentare prevalente prima degli anni Novanta, basata sostanzialmente sulla disponibilità di alimenti, sebbene la FAO abbia negli ultimi anni apportato alcuni miglioramenti al suo approccio. Dopo i contributi di Sen (1981) e Drèze e Sen (1989) vi è stato un lungo dibattito e al World Food Summit del 1996 a livello ufficiale sono state riconosciute almeno quattro diverse dimensioni della sicurezza alimentare: disponibilità, accesso, utilizzo, stabilità. Ciò, purtroppo, non si è generalmente tradotto nell’applicazione di questo nuovo approccio nella prassi delle organizzazioni e dei governi.
- 3. Ciò è avvenuto dapprima con l’approccio “basic needs” che concepiva la povertà in termini di bisogni elementari insoddisfatti; poi con l’approccio delle “capabilities” introdotto da Amartya Sen e recepito dall’United Nations Development Programme (UNDP).
- 4. Fra questi, ricordiamo lo Human Poverty Index (HPI) elaborato da Anand e Sen per l’UNDP (1997), e il Multidimensional Poverty Index di Alkire e Foster (2007).
- 5. Su questo importante aspetto, che in questa sede non può essere discusso si vedano, tra gli altri, i classici lavori di Johnston e Mellor (1961), di Kuznets (1964) e gli altri contenuti nel volume di Eicher e Witt (1964).