Editoriale

Editoriale
Sull’innovazione agricola e sulla sua misura: alcune considerazioni introduttive
a Università Politecnica delle Marche (UNIVPM), Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali

La sfida dell’innovazione agricola

Dal punto di vista della collettività e quindi, auspicabilmente, del decisore politico, per innovazione si intende tutto ciò che crea valore laddove prima non c’era. Con riferimento all’attività agricola, tale creazione di valore fa dunque riferimento alla più ampia funzione sociale del sistema agro-alimentare. Questa breve nota introduttiva al numero vuole proporre alcune considerazioni critiche su tale questione, con particolare riferimento al problema della misura.
Ho cominciato ad occuparmi di innovazione agricola nella prima metà degli anni ’90 con la mia tesi di laurea prima, e di dottorato poi. In realtà, il tema dell’innovazione rimaneva sullo sfondo di quel programma di ricerca poiché al centro c’era l’allora indiscussa misura di questa creazione di valore, ovvero l’aumento di produttività, come espressione dell’altrettanto indiscussa funzione sociale dell’agricoltura: produrre cibo. Allora, innovazione agricola aveva il principale, se non l’unico, significato di progresso tecnologico che, intervenendo sui processi produttivi o sulla qualità dei prodotti, determinava una crescita della produttività in valore dei fattori impiegati nella produzione primaria. Nel secolo scorso, la centralità di tale accezione di innovazione in ambito agricolo era per certi versi ovvia: in un mondo che cresceva a tassi elevati e regolari, sia come livello di consumo alimentare pro-capite che come popolazione che esprimeva tale domanda, il valore fondamentale da creare era la capacità di produrre di più e meglio con la stessa quantità di risorse (la quantità finita di terre coltivabili) o, perfino, con una dotazione inferiore delle stesse (si pensi alla costante fuoriuscita di lavoro agricolo).
Questa è stata la grande sfida dell’agricoltura del Novecento e, proprio grazie a successive ondate innovative e al conseguente aumento di produttività, questa sfida, a parere di molti, è stata vinta. Come tanti altri economisti applicati prima e meglio di me, ero interessato a comprendere quali meccanismi, quali soggetti, quali istituzioni e politiche abbiamo prodotto tale “magia lenta” (Pardey e Beintema, 2001). L’Italia sembrava un caso particolarmente interessante per studiare tali processi, poiché, nel suo complesso, con grande rapidità aveva saputo accompagnare il decollo industriale con una notevole crescita delle produttività agricola grazie a forti impulsi innovativi. Allo stesso tempo, il paese continuava a presentare aree poco permeabili a questo processo di innovazione, fossero essi territori e specifici comparti.
A distanza di circa un quarto di secolo, posso oggi affermare che tale tema non è più al centro della mia attività di ricerca. Ma non perché non creda più che l’innovazione in ambito agricolo continui ad essere la principale leva, se non l’unica, da azionare per vincere le grandi sfide che la produzione primaria si trova ancora oggi di fronte a livello locale, nazionale e globale. Il problema è, piuttosto, che per un economista empirico lavorare oggi intorno a questo tema è reso difficile da un progressivo “sfocamento” dell’accezione del termine innovazione in ambito agricolo. Per sfocamento intendo una perdita di chiarezza nella definizione, un’accresciuta vaghezza del termine che lo rende difficilmente praticabile per chi ha bisogno di definire in modo chiaro e inequivocabile le grandezze da andare poi a misurare, da mettere in relazione e rispetto a cui verificare empiricamente ipotesi teoriche. Che definizione e misurazione dell’innovazione debbano cambiare con l’evoluzione del contesto a cui si applica e in cui crea valore è per certi versi tautologico. Tale adeguamento, però, rimane una sfida e non mi pare, allo stato attuale, che questa sfida sia stata affrontata con successo, almeno in ambito accademico. Anzi, ho perfino qualche dubbio che si sia mai davvero iniziato ad affrontarla in modo efficace.  

Da produzione a funzione

Questo “sfocamento” cominciava già a intravedersi proprio in quegli anni, i primi anni ’90. La forte critica, se non proprio un attacco frontale, ad un’accezione esclusivamente produttivistica dell’agricoltura metteva in discussione il presupposto su cui le analisi precedenti erano fondate: non era più vero che la funzione sociale fondamentale dell’agricoltura fosse quella di produrre di più con la stessa, o minore, dotazione di risorse. Quindi, non era più vero che la creazione di valore, la performance fondamentale rispetto alla quale definire, collocare e analizzare i processi innovativi fosse l’aumento della produttività. La critica al produttivismo in agricoltura ha avuto padri nobili (Sotte, 1987), chiari riflessi nelle scelte politiche di quegli anni (le successive riforme della PAC, in particolare a partire dalla riforma MacSharry del 1992) e, soprattutto, ottimi argomenti. Gli evidenti e crescenti impatti ambientali negativi dell’attività agricola, la standardizzazione dei prodotti (in molti casi verso inferiori livelli qualitativi e di sicurezza), la perdita di “colture e culture” locali, sono stati, tra gli altri, fondati motivi per mettere in discussione quel modello e, quindi, quell’idea di innovazione. Sullo sfondo di questi rilievi critici, in realtà, va letto un cambiamento più essenziale ed epocale. Si tratta esattamente del cambiamento della funzione sociale del comparto agricolo e, quindi, di un sostanziale cambiamento di cosa debba essere inteso come “creazione di nuovo valore” rispetto a questa nuove funzione sociale e, in ultimo, di cosa debba essere inteso come innovazione.
Inizialmente indicato con il termine, ormai caduto in disuso, di multifunzionalità, questo cambiamento di funzione sociale dell’agricoltura può essere ricondotto a due processi evolutivi che riguardano questo comparto nell’ambito delle economie “avanzate” (Esposti, 2012). Si tratta dei processi di terziarizzazione e dei processi di integrazione (o networking). Nel primo caso, si intende quell’evoluzione del comparto in cui, alla classica funzione alimentare, l’impresa affianca l’erogazione di servizi. Questi possono essere sia market services (per esempio, l’agriturismo) che non-market services, da ricondurre a quell’ampio spettro di esternalità positive o di riduzione di esternalità negative di natura prevalentemente, ma non esclusivamente ambientale, che vengono riconosciute proprie dell’attività agricola (Vanni, 2014). La crescita di questa ulteriore funzione sociale dell’agricoltura è oggi evidente al punto da renderla, in alcuni casi, persino predominante: contribuire alla conservazione della biodiversità, alla riduzione dell’emissione e all’incremento della cattura di gas-serra, la funzione paesaggistico-ricreativa, sono solo alcuni esempi di ciò che la società chiede oggi all’agricoltura e rispetto ai quali, pertanto, il settore è chiamato ad innovare.   
Per processi di integrazione, invece, intendo il cambiamento di natura del valore del prodotto agricolo in quanto tale, cioè al farm-gate. Sempre meno tale natura è da ricondurre al valore intrinseco del prodotto, ma va bensì riferito alla sua capacità di essere funzionale rispetto alle fasi a valle, quindi di essere un prodotto intermedio nell’intera catena del valore rispetto alla quale la sua “bontà” va valutata e, di nuovo, rispetto alla quale l’agricoltura è chiamata ad innovare. Peraltro, questo “networking within the supply chain” (Parsons e Rose, 2010) va oltre le stesse filiere alimentari giacché si applica all’intera bioeconomia, cioè ai prodotti e sottoprodotti agricoli di più vario impiego, da quello energetico o alla produzione di bioplastiche. In breve, la crescente integrazione implica che non è l’agricoltura da sola a creare valore, ma è l’intero network che chiamiamo agroalimentare o bioeconomia.
Ridefinendo la funzione sociale dell’agricoltura, terziarizzazione e networking ne ridefiniscono anche i criteri con cui valutarne la performance e, di conseguenza, con cui individuare ciò che davvero è innovativo e quanto. Si tratta di innovazioni tecnologiche più di prodotto che di processo e, soprattutto, di innovazioni organizzativo-manageriali in cui non manca un elemento tecnologico che, però, può essere semplicemente ausiliario. Ne consegue, inoltre, che i soggetti dell’innovazione sono molteplici. In breve, la natura dell’innovazione si fa più complessa e la sua definizione e misurazione più difficile. Sjafrina et al. (2020) mettono in rassegna tutti i diversi profili con cui l’innovazione agroalimentare viene considerata e classificata in questa prospettiva più ampia. Emerge chiaramente, e forse inevitabilmente, come maggiore ampiezza significa anche minore chiarezza e, potenzialmente, indeterminatezza.   

La questione della misura

Sulla scorta di quanto fin qui discusso, è oggi da intendere innovazione agricola tutto ciò che incrementa la funzionalità del settore agricolo e la valutazione dell’innovazione (quindi anche il suo valore sociale eventualmente da contrapporre al costo di politiche introdotte per generarlo) va a sua volta ricondotta a questo incremento. Dal punto di vista puramente concettuale, la questione può essere posta in modo relativamente semplice: è innovazione tutto ciò che contribuisce ad incrementare la funzionalità, e non “semplicemente” la produttività, dell’agricoltura. Un po’ scimmiottando la terminologia convenzionale, si tratta di passare dalla metrica della Total Factor Productivity (TFP) a quella della Total Sector Functionality (TSF) (Esposti, 2012): tanto più un’innovazione aumenta la TSF, tanto più essa ha valore. In pratica, però, passare da una metrica basata sulla produttività ad una basata sulla funzionalità è arduo proprio perché, a differenza della prima, la seconda è difficilmente misurabile. In primo luogo, perché la produttività è un concetto monodimensionale (per dirla in maniera più formale, è una grandezza scalare), mentre la funzionalità è multidimensionale (è una grandezza vettoriale). Questo complica la misura su vari fronti ma, soprattutto, può rendere indeterminato il valore di alcune innovazioni. Se un’innovazione incrementa la produttività, questa avrà un valore tanto più elevato quanto maggiore è tale incremento. Ma se un’innovazione favorisce una delle funzioni agricole (per esempio, migliora la performance ambientale) ma contemporaneamente ne sfavorisce un’altra (per esempio, rende più difficile l’integrazione con le fasi a valle), che valutazione ne dobbiamo dare? Solo le innovazioni capaci di esercitare un impatto positivo su tutte le funzioni risultano indiscutibilmente tali e, su questa scorta, valutabili. Ma tali combinazioni win-win non rappresentano la generalità dei casi e sembrano essere piuttosto l’eccezione che la regola (Baldoni et al., 2018).    
Legata a questo aspetto si pone una seconda, e forse più difficile, sfida per la misura dell’innovazione agricola in questo nuovo quadro. La produttività è una grandezza, cioè qualcosa che può essere univocamente e oggettivamente misurato (sebbene con implicazioni tecniche non banali). È quindi invariante rispetto al contesto, soprattutto politico. La funzionalità, invece, è un termine più elusivo, è un concetto, non una grandezza; dipende da giudizi di valore e dagli obiettivi politici. Ne consegue che anche la misurazione e valutazione dell’innovazione rischia di essere soggetta a questi stessi condizionamenti.
Per esempio, chi ritiene che una delle funzioni dell’agricoltura nazionale debba essere contribuire alla sovranità alimentare, attribuirà grande valore ad innovazioni che favoriscano le filiere corte, il consumo Km0 e così via. Non altrettanto, invece, coloro che attribuiscono al comparto la funzione fondamentale di favorire l’accesso dei prodotti del Made-in-Italy alimentare nei mercati globali. La stessa agricoltura 4.0, ovvero l’estensiva adozione di tecnologie digitali nella produzione agricola, può essere intesa (e, quindi, valutata) in chiave produttivistica, come un’evoluzione dell’agricoltura di precisione, oppure in chiave prevalentemente funzionalistica, ovvero come facilitatrice dell’integrazione della fase agricola con tutte le fasi a valle della supply chain.  
Alcune proposte metodologiche per affrontare la questione sono state avanzate e hanno prodotto alcuni interessanti sviluppi ancora in corso (Ball e Norton, 2002; Esposti, 2008). Temo, però, che queste direzioni di ricerca mostrino lo stesso limite. Condividendo l’idea di fondo che a fronte della natura multidimensionale della funzionalità agricola è necessario ricorrere ad una valutazione a sua volta multi-criteriale, questi approcci finiscono per proporre batterie di indicatori. Così facendo, non solo questi si aggiungono all’affollata fiera degli indicatori già stigmatizzata in altri contesti (Obserg, 2004). Soprattutto, rischiano di finire in quel cul de sac metodologico costituito dal complesso e controverso problema della separabilità, additività e aggregabilità dei singoli indicatori elementari.

Gli scopi di questo numero

A distanza di anni, penso ancora che, per chi fa ricerca economica, la questione principale a proposito di innovazione agricola rimanga il problema della misura. Una visione forse ristretta o riduzionista, ma comunque chiara ed empiricamente trattabile, è stata sostituita da una nuova e più ampia accezione dei processi innovativi. Questa accezione dovrebbe consentire, a sua volta, una praticabilità empirica, una metrica adeguata. A me pare che questo risultato non sia stato ancora raggiunto e serva uno sforzo ulteriore. Il presente numero vuole fornire un contributo in questa direzione presentando lavori che affrontano il tema dell’innovazione agroalimentare da prospettive e con sfumature diverse, ma con il sottostante obiettivo comune di provare a definire quel quadro analitico e metodologico capace di produrre una sintesi ed una metrica unitaria e condivisa. 
La rilevanza di questa sfida empirica non va sottovalutata e, soprattutto, non va derubricata a questione puramente accademica: per fare politiche per l’innovazione bisogna essere in grado di “misurarne” l’impatto, altrimenti ogni innovazione va bene e tutto è innovazione. Soprattutto, si rischia che qualsiasi politica per l’innovazione in ambito agricolo sia desiderabile purché venga designata e annunciata come tale.
Il numero è strutturato come segue. Arzeni e Storti propongono una interessante lettura del ruolo dell’innovazione latu sensu nel ridefinire le traiettorie di sviluppo locale dei territori rurali
Cavicchi, Santini e Paviotti analizzano le forme spesso avanzate e articolate con cui l’università o, più in generale, il mondo accademico e della ricerca può interagire con i portatori di interesse ed i soggetti economici del sistema agroalimentare al fine di facilitare la generazione e la diffusione di innovazioni e conoscenze.
Prosperi affronta il tema dell’innovazione sociale con particolare riferimento alle aree rurali marginali, presentando il contributo del consorzio SIMRA, costituito grazie al finanziamento del progetto Europeo H2020 “Social Innovation in Marginalised Rural Areas”.
Il tema si chiude con l’articolo di Coscarello che, con particolare riferimento alle realtà locali e all’esperienza calabrese, analizza le esperienze innovative recentemente emerse circa le forme di collaborazione e integrazione, anche solidale, tra produttori, consumatori e altri attori delle filiere agroalimentari.
Il lavoro di Cagliero, D’Alicandro e Camaioni non concerne il tema del numero ma riguarda una questione di stretta attualità, ovvero una delle principali novità della nuova PAC, il new delivery model. L’articolo analizza il nuovo quadro proposto per la lettura della performance dei Piani nella futura PAC e intende promuovere una discussione collettiva su come rendere queste attività più utili e utilizzabili sia per i decisori che per i tecnici.

Riferimenti bibliografici

  • Baldoni, E., Coderoni, S., Esposti, R. (2018). The complex farm-level relationship between environmental performance and productivity. The case of carbon footprint of Lombardy FADN farms. Environmental Science and Policy 89: 73-82.

  • Ball, V.E., Norton, G.W. (2002). Agricultural Productivity. Measurement and Sources of Growth. Boston: Kluwer Academic Publishers.

  • Esposti, R. (2008). Principali Problemi Metodologici nel Confronto tra Aziende Biologiche e Convenzionali. In: Doria P., Valli C. (a cura di), La Produzione Agricola Mediterranea tra Biologico e Convenzionale. Working Paper SABIO n. 5, Rome: INEA, 33-66.

  • Esposti, R. (2012). Knowledge, Technology and Innovations for a Bio-based Economy: Lessons from the Past, Challenges for the Future. Bio-based and Applied Economics 1(3): 235-268.

  • Osberg, L. (2004). The relevance of objective indicators of well-being for public policy. CSLS Session on Well-Being at the Annual Meeting of the Canadian Economics Association. Toronto, Ontario: Ryerson University.

  • Pardey, P.G., Beintema, N.M. (2001). Slow Magic: Agricultural R&D a Century after Mendel. Food Policy Report, International Food Policy Research Institute (IFPRI), Washington, D.C.

  • Parsons, M., Rose, M.B. (2010). Innovation, Entrepreneurship and Networks. In Fernández Pérez, P., Rose, M.B., Innovation and Entrepreneurial Networks in Europe, Routledge, New York, 41-59.

  • Sjafrina, N., Marimin, M., Udin, F., Anggraeni, E. (2020). Innovation System in Agricultural Downstream Supply Chain: A Systematic Literature Review and Future Challenges. International Journal of Supply Chain Management 9(2):  66-78.

  • Sotte, F. (a cura di) (1987). Agricoltura sviluppo ambiente. Una ricerca interdisciplinare sulle trasformazioni dell’agricoltura nelle Marche. Istituto Gramsci Marche, Lega per l’Ambiente – Cooperativa Ecologia Editrice, Roma.

  • Vanni F. (a cura di) (2014). Agricoltura e Beni Pubblici. Azioni Collettive per la Governance del Territorio. INEA, Roma.

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