Integrazione europea: evoluzione e sviluppi
Riflettendo – in occasione del premio Nobel per la pace 2012, all’Unione europea – così scriveva Guido Rossi, su “Il Sole 24 ore” – edizione on line – 14 ottobre 2012: “Quest'ultima crisi costituisce [Rossi fa riferimento alla crisi finanziaria originatasi nel 2007-08 negli Usa e poi abbattutasi sull’Unione europea] la miglior prova che dal '45 in poi si sia presentata per la verifica del ‘metodo Monnet’ sulla unificazione europea. Jean Monnet, uno dei padri fondatori, aveva proposto di procedere gradualmente con misure tecnocratiche di integrazione economica, sicuro che queste avrebbero portato all'unificazione politica, sia pur attraverso momenti di crisi, che egli considerava «grandi opportunità di unificazione». Possiamo oggi tranquillamente affermare che l'Europa e i Trattati nascono soprattutto dalla paura di crisi devastanti. Dagli anni Quaranta agli anni Settanta del secolo scorso, la spinta all'integrazione fu dovuta soprattutto alla guerra fredda e alla necessità di contrastare la minaccia sovietica, richiamata continuamente dalla presenza dell'Armata Rossa nella Germania dell'Est e nella Berlino divisa.”
Parto da questa citazione, che riassume una convinzione diffusa, per analizzare a che punto siamo nel processo di integrazione e sulle modalità della sua evoluzione. L’«integrazione europea» ha attraversato diverse fasi, concretizzandosi per diverse intensità.
Robert Schumann, quando, il nove maggio 1950, da ministro degli Affari Esteri della Repubblica francese, lanciò l’idea di una prima integrazione, con il progetto della Comunità del Carbone e dell’Acciaio tra sei paesi membri, aveva affermato un concetto analogo ma non del tutto sovrapponibile: «L’Europe ne se fera pas d’un coup, ni dans une construction d’ensemble: elle se fera par des réalisations concrètes créant d’abord une solidarité de fait»” .
A confermare un approccio - che fu detto «metodo», ma via via con sempre minore attinenza alla «sostanza» - così continua Guido Rossi: “La spinta successiva, è bene ricordarlo, fu quella che culminò nella caduta del muro di Berlino nell'89 e portò alla conseguente riunificazione delle due Germanie nel Novanta, con la spinta decisiva di Mitterrand verso il completamento della Comunità economica europea e del Mercato unico, che potesse annullare in una più unita Europa gli storici istinti tedeschi al dominio”.
Si potrebbe legittimamente affermare che agli inizi del processo non poteva che essere così: piccoli passi e realizzazioni concrete. A ben riflettere Schumann sottolinea due concetti: il primo reso dall’approccio «d’un coup/d’ensemble», il secondo dall’approccio «réalisations concrètes / solidarité de fait». Il risultato, perciò, è una strategia politica, che non dovrebbe affidarsi al «caso per caso»; alla base dovrebbe esserci un ‘pensiero’, una vision tesi a indirizzare e dirigere i percorsi.
L’esperienza (sul vissuto delle persone!) della crisi finanziaria, ad esempio, rende evidente che il ritmo (contrabbandato come ‘metodo’), divenuto via via sempre più lento, ed anche contraddittorio quanto alle «réalisations concrètes» e alla «solidarité de fait», delinea una situazione di «disintegrazione» (Zielonka, 2015; Campli, 2017, pp.121-128). Come sa chi ha seguito quotidie l’andamento della crisi dei debiti sovrani nazionali (in assenza di un «debito sovrano europeo») e l’attacco della speculazione sovranazionale (in assenza di un «Fondo monetario europeo»), le Istituzioni di governo europee, da una parte, e gli Stati nazionali membri, dall’altra continuavano a tessere summit su summit, senza venirne a capo. Alla fine, per dotare l’Unione (quella uscita da Maastricht nel 1992) di una infrastruttura minimamente adeguata al governo delle crisi e/o alla protezione della moneta, hanno dovuto fare ricorso ad un Trattato internazionale tra Stati (ancorché membri dell’Unione): perché i Trattati dell’Unione non avevano basi giuridiche e strumentazione adeguate allo scopo; e cambiarli avrebbe richiesto una quantità di tempo che non era a disposizione. Il tempo non è mai neutrale nella Storia, e neppure nella storia dell’integrazione europea. Riferendosi, peraltro, alla introduzione della moneta unica – la forma più significativa del «Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’Unione sempre più stretta» (Preambolo del Tue) - due protagonisti hanno dichiarato, qualche anno dopo: “Abbiamo creduto di realizzare un progetto politico, anche contro la razionalità economica, sperando che poi questo ci costringesse all'Unione politica. Purtroppo, non è successo” (Gerard Schroeder, 2012). “L'Euro è un progetto politico. Non è che avessimo bisogno della moneta unica agli inizi degli anni novanta. Doveva essere il vettore dell'integrazione politica: questa era l'idea di fondo.” (Joschka Fischer, 2012).
Nella corsa alla istituzione di una moneta unica - con l’assenza, da una parte, delle infrastrutture necessarie e, dall’altra, di un modello decisionale e di governance adeguato - ha prevalso una ‘ragione politica’ tout court che, tradotta in parole molto povere, rimanda ad una scarsissima fiducia tra gli Stati, tra la Francia e la Germania riunificata, in primis, riemersa proprio negli undici mesi cruciali che portarono alla riunificazione della Germania. Scrive Angelo Bolaffi: “Quando sotto l'urgenza del rivolgimento geopolitico provocato dalla riunificazione della Germania, non è stato più ulteriormente procrastinabile un salto di paradigma nel processo di costruzione dell'unità europea, la soluzione è stata trovata nella moneta unica; e oggi vediamo che questa soluzione è incompleta; la crisi economica e finanziaria ha messo in luce la necessità di portare a compimento l'unione economica e monetaria.” (Bolaffi, 2013). L'affermazione, “soluzione incompleta”, sopra riportata da Bolaffi, è di Mario Draghi, il presidente della Banca Centrale Europea, che ha scelto di usare un'espressione un poco diplomatica, anche in considerazione del ruolo che riveste. (Campli, 2014).
Traiamo una prima conclusione, da questa storia molto recente: il cambiamento dei contesti economici e finanziari, su scala mondiale, rende del tutto obsoleto il cosiddetto “metodo Monnet”, se inteso nella vulgata dei piccoli passi. I “nuovi padri fondatori” degli anni Novanta avrebbero dovuto comprendere (con davanti agli occhi il vissuto della caduta del Muro di Berlino (1989), della riunificazione della Germania (1990), dell’inizio degli sconvolgimenti statuali negli Stati dell’Europa dell’est -URSS compresa- (1991) seppure al di fuori dal contesto comunitario) che: “La costruzione dell’Europa unita non serve più (solo) a garantire gli europei dai propri incubi ma è lo strumento per l’autodeterminazione del Vecchio continente e del suo modello sociale e valoriale nella competizione globale” (Bolaffi, 2013; M. Campli, 2014 p. 117).
Se a questi contesti di ordine prettamente economico e finanziario, con conseguenze pesanti di ordine sociale ancora all’ordine del giorno, al netto di riforme spesso incomplete, come, ad esempio, l’Unione bancaria, aggiungiamo la rilevantissima problematica del grande ‘Allargamento’ dell’Unione a otto paesi dell’Europa dell’Est, e a Cipro e Malta (2004), e successivamente a Romania e Bulgaria (2007), ed infine Croazia (2013), in assenza di riforme riguardanti il modello decisionale e di governance, arriviamo ad una seconda conclusione: l'integrazione europea (da Maastricht, 1992 in poi) - pensata e governata dagli Stati nazionali, secondo il metodo intergovernativo - è bloccata.
La questione democratica
Osserva opportunamente Sergio Fabbrini: “Da tempo è finito il consenso silenzioso al processo di integrazione” (Fabbrini, 2017, infra), facendo emergere, in una crisi che appare unicamente di ordine economico-finanziaria, una “questione democratica” all’interno di questa Unione europea.
Il processo di integrazione può ri-partire se assume pienamente queste consapevolezze: a) è necessario prendere atto che siamo collocati in un nuovo periodo della storia, su scala mondiale, occidentale e continentale; b) è necessario da parte dei due protagonisti (Unione e Stati membri) l’impegno per adeguare il loro originario «patto»; c) è necessaria una assunzione di responsabilità da parte di ciascuno Stato membro (chi ritiene di non aver bisogno di alcuna integrazione, applichi l’articolo 50: questa Unione non è una prigione, ma non è neppure un menu à la carte). Questa globale consapevolezza conduce a mettere mano al Trattato vigente. Come potrà avvenire in concreto? I percorsi, pure previsti, risultano del tutto inadeguati. L’articolo 48 dell’attuale Trattato sull’Unione Europea, infatti, «I Trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione ordinaria», nella sua fredda puntigliosità, rappresenta sia l’originario compromesso tra Stati ed Unione sia la sua evidente inadeguatezza. I soggetti ‘istituzionali’ (si consideri l’ordine indicato nell’art. 48: «Il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione»), semplicisticamente elencati, nonostante la loro intrinseca diversa caratura istituzionale: «possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i Trattati (…) tali progetti sono trasmessi dal Consiglio al Consiglio europeo (...). Qualora il Consiglio europeo (...) adotti a maggioranza semplice una decisione favorevole all’esame delle modifiche proposte, il presidente del Consiglio europeo convoca una Convenzione ...». È del tutto evidente che questo approccio serviva a “rassicurare” tutti (anche i recalcitranti, sempre fermi ad una integrazione di natura esclusivamente mercantile: esempio tipico la Gran Bretagna) e nello stesso tempo a fare fronte all’ inatteso shock della riunificazione della Germania, superando il marco e lanciando la moneta unica, quale potente strumento di integrazione. Il compromesso di Maastricht ha prodotto un lungo periodo di ‘bonaccia’. Nel frattempo, sono maturati diversi elementi di crisi (rotture) sia nei contesti economici e sociali sia in quelli più propriamente culturali e valoriali. Il carattere della crisi nella quale siamo ora delinea un vero e proprio cortocircuito composito e ad alto rischio: democrazia illiberale, populismi, sovranismi, moneta senza sovrano, democrazia senza popolo, politiche inadeguate, competenze sovrapposte, prassi da “minoranza di blocco”, progressiva disaffezione al progetto.
Assumere, pertanto, l’approccio di una «questione democratica» appare giustificato ed è altresì adatto ad intercettare sia i molteplici sentimenti di paura, smarrimento e rabbia emergenti dai popoli europei, sia i contesti specificatamente economici e del governo della moneta unica.
Quando rifletto su questa problematica mi faccio guidare: a) da un articolo dell’attuale Trattato dell’Unione Europea (Tue): «I cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento Europeo» (art. 10/2); b) da due affermazioni del costituzionalista Jürgen Habermas (2017); la prima: «Autodeterminazione democratica significa che i destinatari di leggi cogenti ne sono allo stesso tempo gli autori»; la seconda: «I cittadini partecipano in modo duplice al costituirsi della comunità politica di livello superiore, nel loro ruolo di futuri cittadini dell’Unione e come appartenenti a uno dei Popoli dei rispettivi Stati».
Tradurre questi ‘principi’ nella sostanza di una democrazia sovranazionale (europea/unionale) è una questione cruciale. È assolutamente inderogabile ripartire da un dato di fatto: i soggetti fondanti questa Unione Europea sono due: i Popoli e gli Stati. A Maastricht (Trattato 1992) tra quei due protagonisti si raggiunse un importante compromesso politico-strategico, che lo stallo attuale della integrazione dimostra non più adeguato. La “questione democratica” dell’Unione e nell’Unione europea chiama in causa prioritariamente il Parlamento dell’Unione. Già adesso l’art. 48 sopra richiamato lo conferma: sia de-limitandone l’autorevolezza sia dandogliene la possibilità.
Di grande impatto potrebbe risultare che a questa prospettiva di auto-Riforma, il Parlamento risultante dalla elezioni politiche del maggio 2019 – in base all’art. 48 Tue – voti, all’inizio delle sue sedute, la convocazione di un «Semestre costituente», per la modifica dei Trattati; ed apra un negoziato trasparente e pubblico con gli Stati nazionali membri, nella loro collegialità fattuale, oppure attraverso la attuale loro istituzione di «Consiglio Europeo», che – come è noto – “non esercita funzioni legislative”, ma “dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo” (art. 15/1 - Tue). A proposito di un “mandato costituente” al Parlamento europeo, è appena il caso di ricordare che in Italia il 18 giugno 1989, fu indetto un Referendum d’indirizzo, per sondare la volontà popolare in merito al conferimento o meno di un ipotetico mandato costituente al Parlamento europeo nelle elezioni indette nello stesso giorno, in cui i rappresentanti italiani venivano eletti. È stato il primo, e finora unico, referendum statale di indirizzo nella storia della repubblica; l'indizione del referendum fu possibile con la preventiva approvazione della legge costituzionale 3 aprile 1989, n. 2 votata all'unanimità da entrambe le Camere. Privo di efficacia giuridica vincolante, il referendum ha avuto una forte valenza. Alla consultazione parteciparono 37 560 404 votanti (80,68%); risposero positivamente 29 158 656 votanti, pari all’88,03 %. Un mandato costituente, pertanto, al Parlamento europeo, uno Stato membro di questa Unione, una volta, lo ha concesso.
Integrazione differenziata e ridefinizione delle due sovranità
In un processo di costruzione di una vera “democrazia sovranazionale”, il concetto di Sovranità non potrà non avere una sua centralità. In generale, nel dibattito pubblico ordinario, l’integrazione europea viene intesa e sentita come una “cessione” di sovranità e viene percepita come una “privazione”. Si tratta di un malinteso che sostanzia la nuova frattura politica a livello dell’Unione: quella tra sovranisti ed europeisti, che non cancella quella tra centro-destra e centro-sinistra, ma viene a costituirne una sovrapposizione caratterizzante. La “tensione tra integrazione economica e cooperazione politica - afferma il presidente della Banca centrale, Mario Draghi nella sua “lectio magistralis” tenuta all’Università di Bologna - è alimentata dalla forte convinzione che esista un compromesso tra l'appartenenza all'UE e la capacità dei paesi di esercitare la sovranità. In questo modo di pensare, se i cittadini vogliono essere in grado di esercitare un maggiore controllo sui loro destini, devono allentare le strutture politiche dell'UE. Ma questa convinzione è sbagliata. È sbagliata perché confonde l'indipendenza con la sovranità (...) L'indipendenza non garantisce la sovranità (...) L'essere connessi attraverso la globalizzazione aumenta anche la vulnerabilità dei singoli paesi in molti modi (...) Ciò limita il loro controllo sulle condizioni economiche nazionali (...) In questo ambiente, i paesi devono lavorare insieme per esercitare la sovranità. E questo vale ancora di più all'interno dell'UE. La cooperazione in Europa aiuta a proteggere gli stati dalle pressioni esterne e aiuta a consentire le loro scelte politiche” (Draghi, 2019).
La nuova calibratura delle rispettive Sovranità – tra Stati nazionali membri e la (loro) Unione - darà modo per definire la nuova fase dell’integrazione. Scrive a tale proposito Sergio Fabbrini (2017): “L’Ue è diventata un’organizzazione internamente differenziata. Tali differenziazioni multiple sono dovute al fatto che gli Stati europei sono entrati nel processo di integrazione sulla base di prospettive diverse relativamente allo scopo di quest’ultimo (...) L’idea di tenere tutti gli Stati europei all’interno di un unico progetto integrativo non ha funzionato” (p. 119 ss). La formula delle “diverse velocità” non mi pare risponda all’esigenza di distinguere e, nello stesso tempo, unire; non soddisfa, peraltro, lo stesso Fabbrini, che spiega, infatti: “Per quanto riguarda la prospettiva, occorre individuare le politiche da condividere in un’unione federale, separandole nettamente da quelle che dovranno rimanere (o ritornare) a livello nazionale [...] L’Ue va sdoppiata, garantendo il Mercato Unico [1 gennaio 1993] come arena inclusiva di tutti gli Stati europei e, contemporaneamente, promuovendo (all’interno di quest’ultimo) un’unione federale con competenze limitate ma esercitate secondo criteri democratici [...]. La formula dell’Europa a diverse velocità andrebbe dunque sostituita con la formula dell’Europa a diverse finalità. Cioè con l’obiettivo di costruire un’Europa plurale costituita di due distinte organizzazioni, con distinte basi legali, con distinti assetti istituzionali e distinte competenze di policy. L’esistenza di un’unione federale, più piccola dell’attuale Ue ma più coesa, costituisce una condizione per stabilizzare politicamente l’Europa e il suo mercato unico, mostrando ai populismi e nazionalismi che si può costruire un’unione sovrana (in alcune politiche) di Stati sovrani (in altre politiche)” (p. 204).
Volendo approfondire l’indagine sulla natura della Sovranità dell’Unione, è il caso di osservare che la discussione sul modello “federale” o modello “confederale”, relativamente alla integrazione europea, è stata lunga e interminabile; riaprirla non porta a conclusioni fattuali decisive. Il modello di Unità europea è, e resterà sempre, atipico: non completamente federale e non completamente confederale. Il punto dirimente sta nel rifiuto della prospettiva secondo la quale la «integrazione» possa assumere la natura e la forma di un «super stato». Su questo tipo di approdo, è netta l’affermazione di J. Habermas: “Lo Stato federale è un modello errato. I requisiti della legittimazione democratica possono essere soddisfatti anche da una comunità democratica che – soprannazionale ma anche soprastatale – consenta di governare stando insieme. In essa, tutte le decisioni politiche sarebbero legittimate dai cittadini nel loro doppio ruolo di cittadini europei e di cittadini dei vari Stati membri. In una siffatta unione politica – completamente diversa da un «Superstato» - gli Stati membri continuano a garantire il livello (già materialmente raggiunto) di diritto e di libertà, conservando dunque il ruolo più importante rispetto alle articolazioni subnazionali di uno Stato federale.” (J. Habermas 2014, p. 67-68).
L’approdo, risolutivo, sta dunque nel costruire “una Unione sovrana (in alcune politiche) di Stati sovrani (in altre politiche)”, come sopra affermava Sergio Fabbrini. Scrivevo sopra che l’’«integrazione» ha attraversato diverse fasi, concretizzandosi in diverse intensità. La riforma delle Istituzioni e della forma di Governo dell’Unione, per governare la complessità della globalizzazione dell’economia e, contemporaneamente, determinare una democrazia sovranazionale con piena legittimazione democratica, è la grande sfida che, adesso, sta dinanzi a «questa Unione»: ai suoi Stati nazionali membri e ai suoi Popoli. Potremmo utilmente ricordare un antico detto: “Hic Rhodus hic salta”. Dopo aver compiuto questa quadratura del cerchio, non sarà difficile – ma nello stesso tempo risulterà necessario - effettuare anche una nuova attribuzione delle competenze sulle singole «Politiche».
Riferimenti bibliografici
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Bolaffi A. (2013), Cuore tedesco. Il modello Germania, l'Italia e la crisi europea, Donzelli Editore, Roma
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Campli M. (2014), Europa, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Marotta&Cafiero, Napoli
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Campli M. (2017), Il tempo d’Europa tra intervallo e durata, Cavinato editore, Brescia
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Draghi M. (2019) Sovranità in un mondo interconnesso, Lectio magistralis, Università di Bologna, 22 febbraio [link]
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Fabbrini S. (2017) «A Union, not a State»: la prospettiva dell'unione federale, il Mulino, n. 2/17
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Fabbrini S. (2017), Sdoppiamento. Una nuova prospettiva per l’Europa, Laterza, Bari
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Fischer J. (2012), La Germania non affondi l’Europa. Sarebbe la terza volta in cent’anni, Nuova Rivista Storica, 26 maggio [link]
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Habermas J. (2017), Questa Europa è in crisi, Laterza, Bari
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Habermas J. (2014), Nella spirale tecnocratica- un’arringa per la solidarietà europea, Laterza, Bari p. 67-68)
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Schroeder G. (2012), Quello che Berlino impone ad Atene non ha senso né politico né economico, Intervista a Paolo Valentino, Corriere della Sera, 31 maggio [link]
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Zielonka J. (2015), Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione europea, Laterza, Bari