Abstract
Il contributo vuole fornire una fotografia della presenza di lavoratori stranieri nell’agricoltura italiana entrando nel dettaglio delle caratteristiche delle aziende che li impiegano attraverso le statistiche disponibili a livello micro. Tale scelta, finalizzata a evidenziare quali sono le regioni e i comparti che più dipendono da questo tipo di manodopera per le loro produzioni, ha però limitato l’analisi al lavoro dichiarato, per la mancanza di stime sufficienti che mettano in relazione le caratteristiche aziendali con la presenza di lavoratori stranieri non regolari.
Dinamiche migratorie e occupazione in agricoltura
La trasformazione dell’Italia in un Paese di immigrazione risale agli anni ‘80 (Costanzo, 2010), ma il fenomeno migratorio acquista una consistenza significativa negli anni ‘90, tanto che l’Istat avvia la raccolta sistematica di statistiche con l’introduzione del quesito sulla cittadinanza nella maggior parte delle rilevazioni e nell’elaborazione dei dati di tipo amministrativo (Istat, 2016).
Tra gli anni ‘80 e la prima decade del 2000 il numero di cittadini stranieri residenti in Italia è aumentato in modo significativo passando da 210 mila nel 1981 a più di 4 milioni nel 2011, portando l’incidenza degli stranieri residenti dallo 0,4% al 6,8% e facendo, in parte, recuperare la distanza con altri paesi europei di più consolidata tradizione immigratoria. A seguito della recessione la capacità attrattiva del Paese è fortemente diminuita e, sebbene sempre positivo, il saldo migratorio si è ridotto e la presenza straniera si è stabilizzata sia in termini assoluti che relativi (al 1° gennaio 2018, si tratta di 5 milioni di persone, pari all’8,5% del totale) (Istat, 2016).
Le dinamiche del fenomeno migratorio in questi trenta anni hanno subito molte trasformazioni riguardo alle provenienze e alle caratteristiche dei flussi: nel 1991 il 50% degli stranieri residenti in Italia era riconducibile ai primi dieci paesi di cittadinanza e la comunità più rappresentata era quella marocchina con circa 40 mila persone, l’11,2% del totale degli stranieri residenti; nel 2011 le numerosità sono più concentrate (oltre che molto più elevate) e il 50% è riconducibile a soli cinque paesi di origine: Romania (823 mila persone), Albania, Marocco, Cina e Ucraina (Istat, 2012).
A partire dal 2013, oltre che stabilizzarsi sia in termini assoluti che relativi, la presenza di cittadini stranieri nella popolazione italiana tende a configurarsi come un fenomeno strutturale e permanente. Aumentano le acquisizioni di cittadinanza, più di 200 mila nel 2016 (di cui il 40% da parte di persone sotto i 19 anni di età) e, per gli stranieri extracomunitari, i motivi familiari (ricongiungimenti e matrimonio) ormai rappresentano la voce più rilevante delle nuove richieste di permesso di soggiorno.
Il permesso di soggiorno è richiesto solo per i cittadini extracomunitari, mentre i cittadini dell’Unione possono soggiornare fino a tre mesi senza alcuna formalità. Oltre tale periodo devono registrarsi presso l’anagrafe dove vivono motivando la permanenza con un impiego lavorativo oppure con un’attività di formazione, oppure ancora è sufficiente che dimostrino di avere i mezzi necessari al proprio sostentamento (Decreto Legislativo 6 febbraio 2007, n. 30).
Per i cittadini extra-comunitari invece il permesso di soggiorno può essere rilasciato per motivi di lavoro, familiari (ricongiungimento o matrimonio), di studio, religiosi (per gli appartenenti a enti ecclesiastici), per asilo e motivi umanitari, per cure mediche. I nuovi ingressi per motivi di lavoro sono limitati da quote stabilite con decreto del Presidente del Consiglio (il cosiddetto decreto flussi) emanato periodicamente (in genere ogni anno), sulla base dei fabbisogni espressi dal sistema produttivo a livello regionale e dell’andamento dell’occupazione e della disoccupazione (Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286).
Sebbene negli anni recenti siano aumentate le richieste di asilo, la principale voce delle nuove domande di permesso è divenuta quella relativa ai motivi familiari (45%), seguito dalle richieste di asilo e motivi umanitari (34%), residenza elettiva, religione e salute (7%) e lavoro (6%)1.
Fin dai suoi esordi, a partire dagli anni ‘80, la presenza degli stranieri sul territorio ha rappresentato un’opportunità per il settore agricolo in un contesto in cui il miglioramento dei redditi e della qualità della vita aveva ridotto la disponibilità degli italiani verso gli impieghi più faticosi e meno pagati (Bettin e Cela, 2014). Successivamente, a partire dagli anni duemila, l’attrazione del settore si è fatta maggiore tanto da rendere l’agricoltura un serbatoio importante per l’assorbimento della forza lavoro immigrata (Pisacane, 2017). In particolare, gli anni della crisi economica hanno visto una crescita quasi continua della componente straniera dell’occupazione agricola, anche nel periodo tra il 2008 e il 2013 in cui diminuiva quella italiana, determinando un fenomeno di sostituzione (Figura 1).
Figura 1 - Occupati in agricoltura per nazionalità (migliaia)
Fonte: Istat, Rilevazione sulle Forze di lavoro
Oggi l’apporto dei lavoratori stranieri in agricoltura è divenuto un elemento strutturale e caratterizzante del settore (De Rosa et al., 2018). I 147.122 stranieri occupati in agricoltura (54.154 comunitari e 92.968 extracomunitari; Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, 2018) rappresentano quasi il 17% degli occupati totali del settore, mentre l’incidenza percentuale nella media dell’economia è pari al 10,5%.
Per quanto riguarda le caratteristiche dell’occupazione, diversamente dagli italiani per i quali la componente autonoma, sebbene in riduzione, ancora prevale, gli occupati stranieri sono per lo più alle dipendenze (nel 2017 il dato è pari al 96%).2 L’agricoltura è il settore che meno di tutti offre opportunità alla imprenditorialità dei cittadini stranieri: l’incidenza degli imprenditori stranieri è pari al 2,3% contro il 9,2% medio dell’economia (Fondazione Leone Moressa, 2018).
Senza entrare nel merito del grave fenomeno dello sfruttamento lavorativo3, che le tante testimonianza di cronaca o dell’azione sul campo da parte del volontariato e dell’associazionismo hanno messo in luce (Medu, 2015), molti elementi confermano la presenza di una crescente domanda di lavoro agricolo di tipo “secondario” a bassa remunerazione, caratterizzata da attività temporanee e mansioni più gravose, che i lavoratori italiani sono sempre meno propensi ad accettare e che rappresenta una fonte di reddito di sopravvivenza per lavoratori migranti, regolari e non, fintanto che non trovano opportunità migliori (Iom, 2017). La vulnerabilità della forza lavoro straniera, in particolare extracomunitaria e il maggiore livello di adattabilità professionale, che spesso si traduce nella mancata corrispondenza tra mansioni svolte e competenze possedute, potrebbero spiegare la sua appetibilità (Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, 2018).
In questo contributo ci si vuole invece concentrare sulla componente del lavoro immigrato che viene rilevata dalle statistiche ufficiali e che, presumibilmente, riguarda principalmente le posizioni di lavoro regolare e più continuativo.
È infatti fondamentale fornire una fotografia più articolata della presenza dei lavoratori stranieri nell’agricoltura italiana per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, per capire quali sono i comparti, le produzioni e i territori che più dipendono dalla forza lavoro immigrata per ottenere i loro prodotti, questo anche allo scopo di intervenire per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, e quindi contribuire a prevenire eventuali zone d’ombra in un mercato del lavoro così vulnerabile.
In secondo luogo, questa analisi è importante per capire fino a che punto il ricorso al lavoro degli stranieri sia la conseguenza di una carenza di manodopera per mansioni divenute meno appetibili agli italiani grazie al miglioramento delle condizioni economiche del Paese o quanto, invece, sia frutto di un atteggiamento opportunista, finalizzato a rimanere competitivi sul mercato nell’immediato.
I paragrafi seguenti vogliono pertanto rappresentare un contributo nella direzione di un’analisi più disaggregata che permetta di legare la componente immigrata alla struttura e alle produzioni dell’impresa agricola occupante, avvalendosi delle fonti ufficiali di dati micro (aziendali) disponibili sul tema, ovvero il censimento agricoltura e la banca dati Rica.
Il lavoro immigrato nel Censimento agricolo
Il VI Censimento Generale dell’Agricoltura realizzato dall’Istat nel 2010 ha rilevato 221.671 aziende con manodopera salariata, pari al 13,4% del totale delle aziende. La manodopera straniera ammonta a 233.055 unità e costituisce in media il 24,8% del totale dei lavoratori salariati (938.103 unità). La distribuzione dei lavoratori stranieri appare piuttosto diversificata tra le regioni. In figura 2a vengono rappresentate le percentuali di lavoratori stranieri per regione: essi sono per la maggior parte presenti in Trentino, Emilia Romagna e Puglia. La figura 2b rappresenta l’incidenza percentuale dei lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori per Regione e restituisce un quadro piuttosto diverso: in alcune regioni la percentuale di manodopera salariata straniera coincide con la media nazionale (Sardegna, Sicilia, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata, Molise e Marche). In altre regioni invece, tale percentuale è più elevata e si colloca tra il 25 ed il 42% (Toscana, Friuli-Venezia Giulia, Umbria, Abruzzo, Liguria, Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia e Lazio), infine un terzo gruppo di regioni presenta una incidenza della manodopera straniera che supera il 50% (Valle d’Aosta, Piemonte, Trento e Bolzano).
Questa immagine sembra restituire quindi un quadro in cui sono le regioni del nord e del centro ad avere un maggior numero di presenze di lavoratori stranieri. Il dato tuttavia dipende evidentemente da due fenomeni che vanno nella stessa direzioni. Da un lato il fatto che nel sud il settore agricolo è ancora un’alternativa di lavoro per molti Italiani, diminuendo quindi l’apporto relativo degli stranieri (pure elevato in valori assoluti). Dall’altro, alcuni suppongono che la presenza degli stranieri nell’agricoltura del Sud sia sottostimata a causa del maggior numero di lavoratori non regolari (Ievoli, Macrì, 2007) nonostante l’incidenza in percentuale non si discosti molto tra le due ripartizioni, infatti le stime ufficiali Istat4 sul lavoro irregolare in agricoltura, per il 2009 (anno più vicino a quello del Censimento), stimavano una presenza di irregolari molto simile al nord e al sud (43% e 45% rispettivamente), che rappresentavano anche valori simili in percentuale sulle unità di lavoro (26% al nord e 24% al sud).
Figura 2 - a) Percentuale di lavoratori stranieri per regione e b) incidenza percentuale dei lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori per Regione
Fonte: Censimento agricoltura
Guardando alle aziende che più dipendono dai lavoratori stranieri, emerge un dato interessante. In Italia, l’11% delle aziende con salariati impiega esclusivamente lavoratori stranieri, il 13% utilizza manodopera sia italiana che straniera; con forti differenze regionali (Figura 3a e 3b). Evidentemente la maggior parte occupa manodopera di cittadinanza italiana (76%); tuttavia emerge come le regioni che contano solo o in parte sul lavoro immigrato siano soprattutto nel sud Italia.
Figura 3 - a) Distribuzione per regione delle aziende con lavoratori salariati sia italiani che stranieri b) solo stranieri
Fonte: Censimento agricoltura
Nel 60% dei casi, la provenienza dei lavoratori è comunitaria, con diversa composizione tra le regioni.
Si tratta nella maggior parte dei casi di lavoratori impiegati temporaneamente, all’interno della manodopera salariata aziendale: solo una piccola parte, circa il 21%, ha contratti di lavoro permanenti. Degli stagionali, la maggior parte è di provenienza europea (61%), anche per la questione della diversa e meno complessa, normativa per l’assunzione regolare. Anche in questo caso ci sono forti differenze tra le regioni, per cui, ad esempio, a fronte di una media nazionale del 26% di manodopera stagionale straniera, ci sono regioni come la Sicilia, la Valle d’Aosta e la Sardegna, dove gli stagionali sono stranieri nel 75, 62 e 57% dei casi rispettivamente.
Evidentemente, però, i dati a livello regionale nascondono le forti differenze che ci sono a livello micro.
Per dare un’idea della portata di questi errori di aggregazione, nella figura 4, viene riprodotta la percentuale dei lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori per comune. Questa figura-se confrontata con la figura 2b- mette subito in evidenza l’esigenza di lavorare ad un livello più disaggregato per esplicitare alcune caratteristiche del fenomeno analizzato. Già dal dettaglio comunale, si evidenzia che alcuni dati apparentemente molto bassi a livello regionale (come quello pugliese), sono in realtà il frutto di una media regionale che ha appiattito alcune sostanziali differenze, con comuni che occupano tra lo 0 e il 10% di lavoratori stranieri e comuni che ne occupano tra il 50 e il 75%. Evidentemente, questa rappresentazione fuorviante della realtà che deriva dal lavorare ad un livello territoriale troppo ampio, può persistere anche a livello comunale, tra specializzazioni produttive e dimensioni aziendali. Pertanto, il livello di analisi più adatto appare quello micro, ovvero della singola impresa agricola, in cui si possono collegare la presenza di lavoratori stranieri e le caratteristiche aziendali.
Figura 4 - Incidenza percentuale dei lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori per comune
Fonte: Censimento agricoltura
Guardando alla distribuzione spaziale del numero di lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori agricoli per comune per tipologia aziendale (Figure 5 e 6), emerge come in alcuni comuni questo fenomeno sia totalmente assente, mentre in altri le percentuali arrivino al 75/100%. Questo vuol dire che ci sono comuni in Italia in cui i lavoratori agricoli di un dato comparto sono esclusivamente stranieri, secondo tendenze note e studiate a livello nazionale.
Le tipologie aziendali che occupano più lavoratori stranieri sono quelle delle colture permanenti ed erbivori, ancora una volta con forti differenze territoriali. Anche i seminativi, in cui di solito il fenomeno risulta meno emergente, mostrano invece un’elevata numerosità. Ortofloricoltura e granivori, rappresentano settori che, per la loro importanza relativa sul territorio, hanno una diffusione meno capillare, ma concentrazioni molto alte.
Figura 5 - Incidenza percentuale dei sul totale dei lavoratori per Comune (settore)
Fonte: Censimento agricoltura
Figura 6 - Incidenza percentuale dei lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori per Comune (settore)
Fonte: Censimento agricoltura
A livello aggregato, le aziende più grandi sono quelle che occupano un maggior numero di stranieri: la percentuale di lavoratori stranieri per classe di reddito lordo standard va dal 3% nelle piccole, al 7% nelle medie e al 15% nelle grandi (Coderoni et al., 2018). Tuttavia, quello che è interessante, ancora una volta è mettere in relazione le strutture e le produzioni con la presenza di immigrati. Da un’analisi cluster fatta su questi dati (Coderoni et al., 2018), mettendo in relazione forma aziendale, orientamento al mercato, struttura aziendale e presenza di lavoratori stranieri, emerge che, in termini di occupazione, si possono distinguere due sottogruppi: uno con imprese agricole che impiegano lavoratori stranieri (28% del campione) e l’altro che impiega principalmente italiani (72%). Quest’ultimo sottogruppo è composto per l’80% da quelle che in letteratura sono definite come imprese “marginali” (Fanfani e Montresor, 2000), o “non imprese” (Arzeni e Sotte, 2013), che sono una forma di “integrazione al reddito” e sono principalmente finalizzate all’autoconsumo, a differenza delle altre, che insieme rappresentano le “imprese agricole professionali”: cioè sufficientemente grandi, sia in termini fisici che economici, per garantire un reddito adeguato almeno al titolare.
All’interno delle imprese che occupano lavoratori stranieri si possono distinguere tre diversi gruppi: uno di “imprese con lavoratori stagionali”; uno di “imprese con pascoli estensivi” e infine uno di “imprese di allevamento intensivo”. Questi tre che ricordiamo rappresentano solo il 28% delle aziende agricole totali che impiegano lavoratori dipendenti, hanno superfici agricole utilizzate (Sau) medie e le produzioni standard molto più alte delle imprese che impiegano principalmente (o solo) italiani.
Il gruppo più grande e più importante che impiega lavoratori stranieri (65% di lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori nel gruppo) è costituito dalle “aziende con lavoratori stagionali” che comprende principalmente aziende individuali (87%) gestite direttamente dal titolare (90%). L’occupazione è prevalentemente stagionale e i lavoratori stranieri svolgono un ruolo importante: oltre il 50% delle imprese del gruppo usa solo lavoratori immigrati. La specializzazione prevalente è in colture permanenti (60%), seguita da seminativi e orticoltura. La maggior parte delle aziende agricole di questo gruppo ha una produzione standard maggiore di 50.000 euro, quasi il 40% superiore a 100.000 euro. La dimensione fisica è mediamente elevata (60% tra 5 e 50 ha).
Gli altri due gruppi che impiegano lavoratori stranieri sono rappresentati da due diversi tipi di allevamento: i “pascoli estensivi” (25% di lavoratori stranieri), che sono principalmente ovini situati in Sardegna e “l’allevamento intensivo” “(40% di lavoratori stranieri), in particolare situate nella Pianura Padana.
I “pascoli estensivi” sono principalmente aziende individuali (78%), gestite direttamente dal proprietario (83%) e con una dimensione aziendale abbastanza grande in termini di Sau: oltre il 66% delle aziende supera i 20 ha (il 15% più di 100 ha). Il 34% di queste aziende agricole ha altre attività, in particolare la trasformazione dei prodotti alimentari e l’agriturismo. L’occupazione è per lo più permanente e il 22% impiega solo lavoratori stranieri.
Gli “allevamenti intensivi” sono riconducibili principalmente a società di persone (43%), mentre le aziende individuali rappresentano solo il 39%. I tipi di allevamento più frequenti sono i granivori (39%). Sono grandi imprese, sia in termini fisici (oltre la metà è superiore a 50 ha) sia in termini economici (90% dei casi con produzione standard maggiore di 250.000 euro, 44% maggiore di 1 milione). L’occupazione è prevalentemente permanente e i lavoratori stranieri sono rilevanti: il 23% impiega solo lavoratori stranieri e il 50% lavoratori sia italiani che stranieri.
Il lavoro immigrato nella banca dati Rica: prospettive di lavoro
Un’altra fonte di dati micro è la Rica, la principale indagine realizzata annualmente da ogni Stato Membro per l’analisi della situazione economica delle aziende agricole. Nel caso dei lavoratori stranieri impiegati in agricoltura, non si tratta di una informazione obbligatoria richiesta dal regolamento di riferimento che istituisce l’indagine, ma dal 2008 la Rica italiana raccoglie una serie di informazioni che consentono di cogliere meglio il fenomeno dell’impiego degli immigrati in agricoltura.5 Secondo l’ultimo anno disponibile, il 2016, i lavoratori immigrati nelle aziende Rica sono 5.410 il 14,2% della forza lavoro registrata. I dati rilevano presenze maggiori nelle regioni del centro-nord, mentre i numeri del sud sono decisamente più bassi. Anche in questo caso, come per i dati censuari, ciò dipende sia dalla maggiore incidenza dei lavoratori agricoli nazionali al sud, sia da una probabile maggiore componente irregolare.
Tabella 1 - Incidenza percentuale del numero di lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori
Fonte: elaborazioni su dati Rica 2016
Il 65% dei lavoratori stranieri censiti dalla Rica è di provenienza comunitaria, dall’ Africa viene il 19,5%, mentre il 15% è asiatico, infine solo lo 0,5% proviene dal continente americano. Per quanto riguarda la qualifica, sono principalmente lavoratori non qualificati: operai comuni (76%) o braccianti avventizi (15%). Solo nel 7% dei casi si classificano come operati specializzati o qualificati.
Come per i dati del censimento, la presenza di lavoratori stranieri è legata soprattutto a realtà aziendali medio-grandi6 e le specializzazioni aziendali che occupano più lavoratori stranieri sono le coltivazioni permanenti e i seminativi erbivori.
Figura 7 - Distribuzione percentuale del numero di lavoratori stranieri per Ote e dimensione economica
Fonte: elaborazioni su dati Rica 2016
Il ricorso alla banca dati Rica è utile soprattutto nella prospettiva di studiare la relazione tra la presenza di lavoro straniero e la performance aziendale. In questa ottica il lavoro di Baldoni et al. (2017), ad esempio, analizza la relazione tra produttività del lavoro e presenza del lavoro straniero nelle imprese della banca dati Rica dal 2008 al 2015. I risultati sono interessanti per due motivi: innanzitutto il lavoro evidenzia come siano le aziende più produttive ad occupare più lavoratori stranieri e in secondo luogo, riafferma la necessità di lavorare con dati micro per affrontare questo tipo di analisi. Infatti, per il capire il nesso di causalità tra le due variabili, ovvero se i lavoratori stranieri siano più produttivi o se siano semplicemente occupati dalle imprese più produttive, gli autori analizzano la relazione tra produttività del lavoro e presenza del lavoro straniero in termini di Unità di lavoro annuali (Ula), attraverso la stima di modelli panel alternativi. I risultati indicano che, nella maggior parte dei casi, una relazione statisticamente significativa può dipendere da un’errata specificazione del modello e che quando si tiene conto dell’elevata eterogeneità delle imprese agricole (in termini di produzioni e dimensione), nonché della persistenza della produttività del lavoro (con modelli ti tipo dinamico), questa relazione scompare.
Una naturale estensione di questo tipo di analisi riguarda l’uso di misure di produttività più complesse, come la produttività totale dei fattori, che evidenzino il contributo alla produttività di tutta la dotazione di fattori di un’impresa, compreso il lavoro straniero.
Considerazioni conclusive
Guardando alle statistiche ufficiali, la componente straniera è diventata una caratteristica strutturale dell’occupazione agricola italiana e il fenomeno, a causa del lavoro non regolare, è anche più rilevante di quello che emerge nelle statistiche.
Questa incidenza, superiore al resto dell’economia, evidentemente è data anche dal miglioramento delle condizioni economiche degli italiani, ma richiede un maggiore approfondimento sulle motivazioni della particolare attrattività del settore sulla componente straniera della popolazione.
Diventa infatti importante capire fino a che punto il ricorso al lavoro degli stranieri sia la conseguenza fisiologica dei cambiamenti sociodemografici subiti dal Paese negli ultimi anni e quanto, invece, sia frutto di una strategia di breve periodo che punta solo a ridurre il costo del lavoro, per rimanere competitivi sul mercato. Gli effetti su produzioni e produttività del settore possono essere evidentemente molti diversi a seconda della strategia che si vuole perseguire, più o meno volontariamente.
Solo un’analisi che metta in relazione le caratteristiche dei lavoratori e quelle aziendali può contribuire a chiarire in quale misura l’aumento dell’incidenza dei lavoratori stranieri in agricoltura sia il frutto una strategia imprenditoriale finalizzata a superare la scarsa rimuneratività del comparto scaricandola sul costo del lavoro oppure di una “naturale” riallocazione del mercato del lavoro, con effetti sulla produttività del settore che possono avere segno opposto.
Questo contributo, utilizzando una chiave di analisi a livello aziendale, mette in evidenza quali sono le specializzazioni e i territori che sembrano fare più affidamento sul lavoro degli stranieri, come primo tassello di un percorso di analisi che andrebbe rafforzato. Valutazioni attendibili infatti, richiederebbero approfondimenti sia sulle mansioni svolte all’interno dell’azienda e le condizioni di lavoro applicate, sia sulle qualifiche e motivazioni del lavoratore. Questo ci porta a sottolineare ancora una volta la limitatezza delle informazioni disponibili e la necessità di promuovere indagini specifiche.
Riferimenti bibliografici
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- 2. Istat, Rilevazione sulle Forze di lavoro.
- 3. In questo numero di Agriregionieuropa ci sono articoli che descrivono e analizzano il fenomeno nei suoi diversi aspetti legati alla vulnerabilità e irregolarità dei lavoratori e agli aspetti legislativi della tutela del lavoro.
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- 5. Pertanto, l’indagine Rica non è disegnata per essere rappresentativa del fenomeno analizzato.
- 6. Le classi di dimensione economica sono individuate attraverso la produzione standard aziendale nel modo seguente: piccole (8.000 - 25.000 euro); medie (25.000 - 500.000 euro); grandi (500.000 euro e oltre).