Finestra sul WTO n.27

Finestra sul WTO n.27
a Confederazione Svizzera, Ufficio Federale dell’Agricoltura (UFAG)

Un pensiero speciale va a Giovanni Anania, esperto e attento osservatore dei negoziati Wto. Questa Finestra è dedicata alla sua cara memoria.

La decima Conferenza Ministeriale del Wto si è tenuta a Nairobi, in Kenya, dal 15 al 19 dicembre 2015. La Ministeriale è l’organo decisionale più importante dell’organizzazione, e si riunisce solitamente una volta ogni due anni (l’ultima a Bali, nel 2013; vedi Finestra sul WTO, marzo 2014). Per la prima volta in Africa, e sotto la guida di Amina Mohamed, Ministro degli Esteri del Kenya, una giornata extra di trattative ha permesso di giungere ad un accordo che è stato definito dal Direttore Generale Roberto Azevêdo “storico”, in venti anni di esistenza del Wto. È interessante notare come questa valutazione richiami quella espressa al termine della Ministeriale di Bali; in entrambi i casi, si tratta di accordi su elementi di lunghe trattative altrimenti infruttuose. Questa volta però la Dichiarazione Ministeriale lascia esplicitamente aperti alcuni interrogativi sulla funzione negoziale del Wto.
Il “pacchetto di Nairobi” comprende sei decisioni che riguardano agricoltura, cotone e paesi meno avanzati (Pma). Oltre a questi punti, che saranno trattati in dettaglio qui di seguito, va ricordata l’espansione dei prodotti dell’economia digitale coperti dall’Information Technology Agreement (Ita), un accordo plurilaterale (ma basato sulla clausola della nazione più favorita, cioè le riduzioni tariffarie sono a beneficio di tutti i membri del Wto) tra 53 Paesi che hanno deciso di eliminare le tariffe all’importazione, nonché la conclusione dei negoziati per l’accesso di Afghanistan e Liberia (il Wto così raggiunge quota 164 membri).

Le decisioni adottate

Il pacchetto di Nairobi comprende provvedimenti riguardanti sussidi all’esportazione, stoccaggio pubblico per scopi legati alla sicurezza alimentare, meccanismo speciale di salvaguardia, cotone e Pma (regole d’origine preferenziali e settore dei servizi).
La decisione che ha avuto maggiore eco è senza dubbio quella relativa all’eliminazione dei sussidi all’esportazione: nella Dichiarazione si afferma infatti la volontà di eliminare tutti i sussidi all’esportazione, nonché la possibilità di farvi ricorso in futuro.
Per i paesi sviluppati la decisione ha effetto immediato (1 gennaio 2016). È prevista una deroga per alcuni prodotti (carne suina, prodotti lattiero caseari, prodotti trasformati) per i quali la scadenza è posticipata al 2020; ciò per far fronte alle esigenze di paesi quali Svizzera, Canada e Norvegia, che fanno ancora uso di tali sussidi. I prodotti sussidiati non potranno comunque essere destinati ai mercati dei Pma. I paesi in via di sviluppo si sono impegnati a rimuovere i sussidi all’esportazione entro il 2018 (2022 per quei paesi che ne fanno tuttora uso). Inoltre, per i paesi in via di sviluppo, i sussidi previsti dal trattamento speciale e differenziato (che coprono costi di commercializzazione e trasporto) potranno comunque essere utilizzati entro il 2023 (2030 per i Pma ed i paesi importatori netti di alimenti). La decisione disciplina anche le altre misure equivalenti ai sussidi all’esportazione, quali il supporto finanziario ai crediti per l’esportazione (il periodo massimo per ripagare i crediti all’esportazione è fissato a 18 mesi per i paesi sviluppati; storicamente i maggiori utilizzatori sono stati gli Stati Uniti. I paesi in via di sviluppo potranno beneficiare di tempi più lunghi); le regole sulle imprese commerciali esportatrici di stato (riguardano in particolar modo Canada, Australia, Nuova Zelanda); gli aiuti alimentari.
L’impegno di eliminare i sussidi all’esportazione rappresenta il risultato più importante raggiunto a Nairobi; infatti, come si vedrà in seguito, non è stato possibile ottenere risultati comparabili né su accesso al mercato né su sostegno interno.
In passato, l’UE ha pesantemente sussidiato le proprie esportazioni. Sul finire degli anni ottanta – inizi degli anni novanta, fino ad un terzo del budget della Pac è stato destinato ai sussidi all’esportazione.
Questi sono stati oggetto di dura critica per i loro effetti distorsivi su prezzi e mercati mondiali. Un primo risultato per la loro regolamentazione venne raggiunto nel 1992, quando con l’Accordo Agricolo dell’Uruguay Round (Uraa) vennero introdotti limiti di volume e di spesa. Fin dall’inizio dei negoziati di Doha l’obiettivo esplicito fu quello di ridurre i sussidi all’esportazione, in vista della loro eliminazione. Secondo la Dichiarazione Ministeriale di Hong Kong nel 2005, l’eliminazione dei sussidi, accompagnata dall’introduzione di discipline equivalenti sulle altre forme di sostegno (crediti all’esportazione, imprese commerciali esportatrici di Stato, aiuti alimentari), avrebbe dovuto attuarsi entro il 2013; ma la situazione di blocco dei negoziati non permise di darvi seguito.
Nel frattempo, la situazione di alti prezzi mondiali e le successive riforme della Pac hanno reso i sussidi all’esportazione via via meno necessari e quindi di fatto non più utilizzati, pur mantenendo la possibilità di farvi ricorso in caso di gravi crisi di mercato (e quella di utilizzarli come gettone negoziale nelle trattative). A partire dal 2013 l’UE di fatto non li ha più adoperati. 
Nel novembre 2015, in una proposta congiunta, UE e Brasile (insieme ad Argentina, Nuova Zelanda, Paraguay, Peru ed Uruguay) hanno delineato alcuni elementi per l’eliminazione dei sussidi, basati sul testo delle modalities del 2008 (la cosiddetta “Rev. 4”, che ad oggi resta l’ultimo testo su cui vi è stato accordo). Questa inedita “collaborazione” tra i due Paesi, i cui interessi in materia sono storicamente sempre stati opposti, ha originato severissime critiche da parte dell’India (si vedano Matthews, 2014; Tangermann, 2014). A Nairobi intense trattative hanno infine permesso di giungere ad un accordo.
Per quanto riguarda le misure di stoccaggio pubblico per scopi legati alla sicurezza alimentare, a Nairobi i paesi membri si impegnano a trovare una soluzione permanente alla questione. Questa richiesta è stata mossa dai paesi in via di sviluppo del cosiddetto G33 (di cui fanno parte, tra gli altri, Cina, India ed Indonesia), i quali sostengono che le regole attuali pongono problemi ai paesi in via di sviluppo per l’acquisto a prezzi amministrati di cibo per i programmi di sicurezza alimentare. Infatti, gli impegni Wto per il sostegno interno sono calcolati sulla base della differenza tra prezzi interni e di prezzi mondiali di riferimento, questi ultimi fissati agli anni 1986-1988. Nel tempo, ed in generale in una situazione di prezzi agricoli “alti”, questi prezzi esterni di riferimento “bassi” sono divenuti del tutto obsoleti, e l’importo del sostegno calcolato con questo meccanismo è aumentato in modo non coerente con l’effettiva applicazione di queste politiche. A questo problema di fondo si aggiunge il fatto che quei paesi per cui livello della scatola gialla è fissato a zero, come l’India, possono erogare sostegno solamente nell’ambito di quanto previsto dalla clausola de minimis.
A Bali, nel 2013, i paesi in via di sviluppo avevano ottenuto la possibilità di mantenere i programmi per lo stoccaggio pubblico anche al di là del limite Wto, nell’attesa di trovare una soluzione entro la conferenza ministeriale del 2017 (vedi Finestra sul WTO, marzo 2014). Una successiva decisione del novembre 2014 ha prorogato questa possibilità a tempo indeterminato, rimuovendo la scadenza del 2017 (vedi oltre nel testo). La dichiarazione ministeriale prende nota della decisione di Bali del 2013, e conferma la decisione del 2014, notando che si terranno negoziati su questo tema in sessioni dedicate, separatamente dai negoziati del Doha Round.
Il G33 è stato promotore anche del tema del meccanismo speciale di salvaguardia per i paesi in via di sviluppo. Viene qui confermata la possibilità di ricorrere ad aumenti temporanei delle tariffe in caso di aumento improvviso delle importazioni, come stabilito nella dichiarazione ministeriale di Hong Kong. Su questo tema, estremamente controverso e tra le cause del fallimento dei negoziati del 2008 (vedi Finestra sul WTO, settembre 2008), non è stata però raggiunta ancora alcuna soluzione.
Per quanto riguarda il settore del cotone, la necessità di attuare discipline più efficaci (di cui sono promotori Benin, Burkina Faso, Ciad e Mali) era già stata riconosciuta nella Dichiarazione Ministeriale di Hong Kong. Rispetto alla situazione all’inizio del Doha Round, gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’aumento del sostegno al settore nei Paesi emergenti (Cina). Nell’ambito dell’accesso al mercato viene ora garantito accesso a tariffa zero e senza limitazioni per il cotone nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo che desiderano farlo (tra cui è indicata la Cina) a partire dal 1 gennaio 2016. Per il sostegno alle esportazioni, i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo si impegnano ad eliminare i sussidi alle esportazioni a partire, rispettivamente, dal 2016 e dal 2017. Per quanto riguarda il sostegno interno, vengono riconosciuti gli sforzi fatti nella riforma delle politiche e si ribadisce la necessità di continuare questo processo, ma senza impegni precisi.
Infine, due decisioni riguardano i Pma: le cosiddette regole d’origine ed il trattamento preferenziale per Pma nell’area dei servizi. Per quanto riguarda le prime, giudicate troppo restrittive e complesse dai Pma, impedendo quindi di approfittare delle concessioni commerciali esistenti, la decisione ministeriale di Bali per la prima volta ha stabilito un insieme di linee guida multilaterali. La decisione di Nairobi fornisce ora ulteriori indicazioni in tal senso, ad esempio su quando è possibile cumulare input provenienti da più fonti nella considerazione dell’origine.
Circa il settore dei servizi, la decisione ministeriale estende fino al 31 dicembre 2030 il periodo di esenzione nel quale i membri del Wto non Pma possono garantire trattamento preferenziale a servizi e fornitori di servizi provenienti dai Pma.

I mesi precedenti la Ministeriale

La Ministeriale di Nairobi segna il 15 esimo anno di trattative del Doha Round. Dal suo inizio, l’ultimo testo su cui è stato possibile trovare accordo unanime è la bozza delle modalities, che risale ormai al 2008. Si tratta di un documento che pur presenta moltissimi punti aperti, e che alcuni paesi preferirebbero abbandonare. L’unico accordo ottenuto nel Doha Round è stato quello della Conferenza Ministeriale di Bali del 2013, con un risultato importante sulla facilitazione del commercio (vedi Finestra sul WTO, marzo 2014). A Bali i paesi membri si erano impegnati anche a definire entro la fine del 2014 un “piano di lavoro” per portare a conclusione il Doha round. Cosa è successo dunque in seguito, e come si è arrivati alla Conferenza di Nairobi?
Come descritto poc’anzi, l’accordo di Bali includeva anche l’impegno a non aprire dispute sulle misure di stoccaggio pubblico per scopi legati alla sicurezza alimentare da parte di paesi in via di sviluppo, anche in violazione degli obblighi Wto, fino al raggiungimento di una soluzione definitiva al problema.
Nel corso del 2014, con una mossa senza precedenti e che ha messo in tensione l’intera trattativa, l’India ha però chiesto l’ottenimento in tempi rapidi di tale soluzione, e come contromossa ha bloccato una procedura puramente amministrativa necessaria all’implementazione dell’accordo sulla facilitazione del commercio. Questa intransigenza è dovuta all’approvazione, nel settembre del 2013, di un ambizioso programma di aiuto alimentare (Anania, 2014; sulla questione si veda Tangermann, 2014a). L’impasse è stato superato grazie ad un accordo raggiunto nel novembre 2014 tra l’India e gli Stati Uniti, che, come spiegato, di fatto estende la possibilità di negoziare una soluzione a tempo indeterminato mantenendo nel frattempo al riparo da dispute le politiche dei paesi coinvolti (Anania, 2014).
La preparazione dell’agenda della Ministeriale di Nairobi ha quindi registrato mesi di trattative improduttive, spostando via via più in là la scadenza che i paesi membri si erano dati per elaborare un’agenda concreta. Vanno segnalati, nell’estate del 2015, alcuni tentativi concreti di superare il testo delle modalities del 2008, riducendone il livello di ambizione. Nell’ambito dell’accesso al mercato, si è discusso di nuove formule di riduzione tariffaria che prevedono la combinazione di riduzioni minime e medie (come nell’Uraa) piuttosto che la formula scalare proposta già dalle primissime fasi del Doha Round (si veda ad esempio Ictsd, link).
Tuttavia, questi tentativi non hanno avuto successo, e di fatto non è stato possibile raggiungere ancora nessun accordo in materia. Bisogna infine ricordare la conclusione dei negoziati dell'Accordo Trans-Pacific Partnership (Tpp; vedi oltre): ad esempio, secondo alcuni commentatori, la presenza di concessioni qui effettuate per alcuni prodotti sensibili (Giappone) può rendere difficile poterne effettuarne ulteriori in ambito multilaterale.

Il futuro del negoziato

Per la prima volta, nella Dichiarazione Ministeriale non è presente un’indicazione alla volontà di portare a termine le trattative del Doha Round, ma si riconosce la presenza di posizioni diverse su come affrontare il futuro del negoziato. Mentre molti paesi membri riaffermano il loro impegno a completare il mandato di Doha, altri ritengono che nuovi approcci siano necessari per far fronte alle nuove sfide. UE, Giappone e Stati Uniti sono giunti a chiedere una chiusura formale del Doha Round per poter poi ripartire.
Dall’inizio del Round, ci sono stati enormi cambiamenti sulla scena commerciale internazionale, facendo sì che i negoziati si svolgano oggi in un contesto che è profondamente mutato (si veda a questo proposito Tangermann, 2014b).
In primo luogo, l’impennata dei prezzi agricoli nel 2007/2008, ed in generale l’inversione della loro tendenza al ribasso. In generale, in una tale situazione, le tariffe applicate all’importazione sono scese; è quindi aumentato il cosiddetto “binding overhang”, ovvero la distanza tra le tariffe notificate al Wto (cioè i dazi massimi possibili). Si potrebbe pensare che sia quindi più semplice negoziare riduzioni delle tariffe all’importazione; tuttavia, le posizioni difensive in tema di accesso al mercato sia da parte dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo sembrano smentire questa affermazione. Non bisogna infatti dimenticare che mentre potrebbe essere conveniente ridurre le tariffe applicate, la riduzione delle tariffe notificate ha tutt’altra portata, poiché implica la decisione di privarsi in modo definitivo della possibilità di far ricorso a politiche protezionistiche. Si tratta di una decisione costosa, tanto più in un contesto di incertezza e variabilità. D’altra parte, si potrebbe argomentare che considerando la distanza crescente tra tariffe notificate ed applicate l’impatto del Doha Round sulle reali possibilità di accesso al mercato sarebbe ormai ridotto. Ma è fondamentale appunto ricordare che l’innalzamento della protezione applicata ai livelli di quella notificata avrebbe costi largamente superiori ai benefici raggiungibili grazie al Doha Round. In altre parole, le stime dei benefici di un accordo derivano dal loro impatto non solo sulle politiche esistenti, ma soprattutto su quelle possibili (Bouët e Laborde, 2008).
Dal lato delle esportazioni, in un contesto di prezzi mondiali crescenti, il sostegno si rende sempre meno necessario. Al contrario, tra le misure di risposta alla crisi dei prezzi vi è stato il ricorso a restrizioni all’esportazione, con effetti a scapito della sicurezza alimentare dei paesi più poveri ed importatori netti di alimenti. Per tali restrizioni la disciplina in sede Wto è molto debole (si veda Anania, 2013). Questa asimmetria non sembra più giustificabile, ed è chiaro che è necessario continuare a lavorare in quest’area (link Finestra sul WTO, dicembre 2011).
Un altro elemento di novità è l’aumento delle livelli del sostegno, in particolare di quello distorsivo del commercio, nei paesi emergenti, rispetto ai paesi sviluppati (Tangermann, 2014). È lecito attendersi che oggi sostanziali benefici deriverebbero dalla riduzione del sostegno distorsivo proprio in alcuni paesi classificati come in via di sviluppo (Matthews 2014, b). In questo senso la definizione degli obblighi Wto in base allo status di paese sviluppato o in via di sviluppo (status che nel Wto è autodefinito dal paese stesso) pone diverse questioni, a maggior ragione se si considera che il Round che è stato lanciato con la Doha Development Agenda proprio perché la dimensione dello sviluppo è stata ritenuta centrale. Oggi si assiste ad una situazione per cui da una parte vi sono i paesi più poveri, portatori di aspettative che non possono venire disilluse; e dall’altra i paesi emergenti, ai quali i paesi sviluppati chiedono il rispetto di impegni più severi. Vi è poi la situazione di quei membri che sono recentemente entrati nel Wto e che hanno fatto sforzi sostanziali prima dell’ingresso, per i quali la posizione di fronte a richieste addizionali è naturalmente difensiva. Tra questi rientrano Cina e Russia.
Infine, non si può non citare il proseguimento della tendenza alla stipula di accordi regionali di ampia portata, come il Trans-Pacific Partnership (Tpp), ed il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) Agreements.
Ad oggi si dibatte ampiamente del loro ruolo, ed in particolare sulle ricadute sull’attrattività del forum multilaterale.
Qual è dunque oggi l’importanza del Wto, in un contesto che è cambiato così profondamente? Mentre l’efficacia della funzione giuridica del Wto non sembra affatto in discussione (sono state da poco raggiunte le 500 dispute; link Wto, 2015), i dubbi si concentrano sulla sua funzione negoziale.
Ai tempi della sua fondazione sulla base dell’Accordo Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), sembrava chiaro che la creazione di un’istituzione rappresentasse un passo in avanti rispetto ad un accordo, tanto più se questa istituzione fosse stata “member driven”; ma da più parti ora ci si chiede se sia davvero così. La crescente dimensione del Wto e la complessità dei temi da trattare rendono oramai il consenso ed il principio dell’”impegno unico” di difficile attuazione. Accordi su base volontaria e plurilaterale “aperta” avrebbero forse maggiori possibilità di successo?
Quali riforme sarebbero quindi necessarie? La Dichiarazione Ministeriale riconosce la presenza di posizioni differenti. Parafrasando le parole di Azevêdo, a Nairobi è stato ottenuto indubbiamente un risultato molto importante, ma per andare avanti è ora necessario che i paesi membri decidano del futuro del Wto.

Riferimenti bibliografici

  • Anania G. (2014), La sicurezza alimentare nel negoziato Wto sull’agricoltura, Agriregionieuropa anno 11 n°40, Mar 2015 [link]

  • Anania G. (2013), Agricultural Export Restrictions and the Wto: What Options do Policy-Makers Have for Promoting Food Security?; Ictsd Programme on Agricultural Trade and Sustainable Development; Issue Paper No. 50; International Centre for Trade and Sustainable Development, Geneva, Switzerland, [link], [pdf]

  • Bouët A., Laborde D. (2008), The cost of a non-Doha, Briefing Note, Ifpri, Washington D.C., Usa [link]

  • Matthews A. (2014a), The EU has finally agreed to eliminate export subsidies…three cheers!  [link]

  • Matthews A. (2014b), The Doha Round is back on track [link]

  • Tangermann S. (2014a), Post-Bali issues in agricultural trade: a synthesis. Prepared for the Oecd Global Forum on Agriculture, 2 December 2014, Paris [link]   

  • Tangermann S. (2014b), Agriculture: Food Security and Trade Liberalization. Paper prepared for the conference on "Challenges Facing the World Trade System" organized by Jagdish Bhagwati, Pravin Krishna & Arvind Panagariya, Columbia University, New York, and Johns Hopkins University (Sais), Washington, DC, 29 September – 2 October, 2014 [link]

Siti di riferimento

 

*Quanto scritto è esclusivamente di responsabilità dell’autrice e non riflette in alcun modo la posizione dell’Ufag

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