L’evoluzione della zootecnia bovina tra gli ultimi due censimenti dell’agricoltura

L’evoluzione della zootecnia bovina tra gli ultimi due censimenti dell’agricoltura
a Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Agraria
b Università Cattolica del Sacro Cuore, Dipartimento di Economia Agroalimentare, Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali

I cambiamenti della politica agricola comunitaria

A partire dagli anni '90 la Pac ha subito una profonda trasformazione che ha inevitabilmente mutato gli incentivi forniti al settore agricolo, incluso ovviamente il comparto zootecnico (Meester, 2011). Con la riforma McSharry del 1992 si introduce un radicale mutamento di prospettiva per la politica agricola europea. Dietro la forte pressione per una riduzione del livello di sostegno garantito dai prezzi di intervento comunitari e per il contenimento di una spesa agricola ormai fuori controllo, comincia a farsi strada il concetto di ‘disaccoppiamento’ degli interventi. Ciò si concretizza con la riduzione dell’aiuto accoppiato dei prezzi garantiti, sostituito da forme di compensazione basate su contributi per ettaro e/o per capo, nelle intenzioni meno distorsivi. La riforma, che ha introdotto i pagamenti per capo nel settore della carne bovina, come compensazione della riduzione del sostegno, ha interessato soltanto marginalmente il settore lattiero-caseario, dove la presenza di un sistema di quote di produzione garantiva in qualche modo il controllo della spesa. Bisogna però dire che negli anni ’90, tra le rilevazioni censuarie di inizio e fine decennio, in Italia è stata concessa la possibilità di commercializzare le quote di produzione; questo ovviamente ha consentito una profonda ristrutturazione del settore, che si è tradotta in particolare in un consistente processo di uscita dal settore delle imprese più piccole e meno efficienti.
Il processo di riforma della Pac è poi continuato attraverso Agenda 2000, che, seppure non abbia avuto un impatto rilevante nell’immediato sul settore agricolo, in generale, e sulla zootecnia bovina, in particolare, ha comunque sancito un radicale mutamento della Pac, e in particolare dei suoi obiettivi, indirizzandola verso il miglioramento della competitività, le produzioni sicure e di qualità, l’attenzione all’ambiente. Tutto ciò si verrà a concretizzare con la riforma di medio-termine o riforma Fischler del 2003, che sterza decisamente verso un disaccoppiamento spinto e converte tutto l’aiuto in un sostegno indifferenziato, di norma per unità di superficie (il cosiddetto Pagamento Unico Aziendale), dove confluisce il sostegno accoppiato garantito dai precedenti strumenti (sostanzialmente aiuti per capo e prezzi di intervento), concedendo soltanto alcune deroghe per il mantenimento del sostegno accoppiato (mantenimento temporaneo di alcuni premi accoppiati, come i premi alla macellazione, per i bovini maschi o per le vacche nutrici). Con la riforma Fischler il prezzo di intervento, oltre a venire ridotto, comincia a perdere il suo ruolo di prezzo garantito, ed il meccanismo dell’intervento automatico viene sostituito da un sistema che prevede una ‘rete di sicurezza’ da attivarsi in condizioni critiche di mercato (con la successiva ‘Health Check’ della Pac verranno stabiliti dei massimali garantiti di intervento, quali quelli per burro e latte scremato in polvere). Nel settore latte inoltre si conferma il termine al regime delle quote di produzione, abolite a partire dal 2015, che richiederà poi di approntare una serie di passi che garantiscano un avvicinamento non traumatico a questa scadenza (sostanzialmente con un progressivo aumento delle quote nazionali). È evidente che in un contesto nel quale si riducono gli incentivi accoppiati della politica agricola, solo le imprese più efficienti e di norma di maggiori dimensioni hanno più possibilità di sopravvivenza e/o espansione, e questo dovrebbe riflettersi sugli ultimi dati censuari del settore riferiti al primo decennio del secolo.

Il ridimensionamento del settore secondo i dati censuari

L’evoluzione del settore bovino in Italia mostra un sostanziale ridimensionamento per quanto riguarda sia il numero di aziende, sia di capi allevati. Scomponendo il periodo 1990-2010 nei due decenni, si osserva come il contributo maggiore alla riduzione riguardi il periodo 1990-2000, durante il quale il 46% delle aziende con bovini dismette l’allevamento, con una riduzione del patrimonio bovino però limitata al 21% (Tabella 1).

Tabella 1 - Numero di aziende con allevamento bovino e di capi allevati in Italia dal 1990 al 2011


Fonte: Istat, IV, V, VI Censimento dell'agricoltura e Indagini infra-censuarie 2003, 2005 e 2007

E’ quindi evidente che l’introduzione delle quote latte da un lato (regolamento Cee 856/1984 del 31 marzo 1984, sostituito dal regolamento 3950/92 del 28 dicembre 1992), la significativa riduzione dell’intervento per le carni prevista dalla riforma MacSharry del 1992 e l’apertura di un mercato per il trasferimento delle quote hanno contribuito ad innalzare la dimensione minima efficiente degli allevamenti. Se nel 1990 la dimensione media era di 24,1 capi, nel 2000 passava a 35,2. La variazione è ancora più consistente se si considerano gli allevamenti con vacche da latte: nel corso del decennio, da 12,8 capi per azienda si sale a 22,2, con un incremento del 73%, variazione determinata dalla consistente riduzione delle aziende da latte (-61%), più che proporzionale rispetto alla variazione delle vacche da latte (-33%).
L’ultimo Censimento dell’agricoltura, il sesto, che fa riferimento al 24 ottobre 2010, consente di analizzare la riduzione intercorsa nel periodo 2000-2010 che, come anticipato, è meno significativa della precedente: gli allevamenti bovini si riducono del 28%, i capi allevati soltanto del 7%, con una dimensione media che cresce di circa 10 capi, attestandosi a 45 capi per azienda. Se l’entità di questi mutamenti è inferiore al decennio precedente, la tendenza all’aumento della dimensione media prosegue con un ritmo sostenuto (+28%); se poi facciamo riferimento alle aziende con vacche da latte, la riduzione nel numero di allevamenti arriva al 37%, quella dei capi a poco meno del 10%, con un incremento delle dimensioni medie del 43%, a indicare una forte razionalizzazione delle unità produttive.
Può essere interessante confrontare il dato censuario con le altre informazioni statistiche disponibili nei periodi infra-censuari su numero di aziende e di capi. In particolare facciamo riferimento alla Banca Dati Nazionale (Bdn) dell’anagrafe zootecnica (l'Anagrafe bovina e bufalina è costituita dal censimento di tutti gli allevamenti, stalle di sosta, centri genetici, centri di raccolta, mercati e pascoli presenti sul territorio italiano e dai capi in essi detenuti o che vi sono transitati), all’indagine campionaria sulle consistenze dell’Istat e in parte anche alle indagini sulla struttura delle aziende agricole1. Il confronto dei dati censuari con quelli delle altre fonti infra-censuarie indica una sostanziale sottostima dell’evoluzione del settore da parte di queste ultime: basti pensare che l’ultima indagine sulle strutture agricole, quella del 2007, mostra un aumento sia del numero degli allevamenti, sia del numero di capi. Prendendo invece a riferimento il dato del 2010, si vede che per quanto riguarda il numero degli allevamenti la Bdn, che fa riferimento alla popolazione censita, sovrastima il numero di aziende di circa il 22% rispetto alla rilevazione censuaria. Mentre il censimento rilevava 124.210 aziende, la Bdn registrava 151.501 aziende, di cui oltre 90 mila (93.202, il 61% del totale) con orientamento produttivo specializzato da carne, ed altre 21.771 con orientamento misto. In termini percentuali, invece, le due rilevazioni mostrano una certa concordanza, per quanto riguarda il peso degli allevamenti da carne e la ripartizione territoriale. Se confrontiamo il numero di capi, l’indagine campionaria dell’Istat, al 1° dicembre 2010, registrava un numero di capi bovini pari a 5.832.000 (di cui 1.796.000 vacche da latte), superiore di circa 240 mila unità rispetto al dato censuario (una differenza di poco più del 4%); leggermente inferiore il dato ricavato dalla Bdn, che parla di 5.786.111 capi bovini in allevamento.
Nonostante la crescita dimensionale degli allevamenti bovini italiani, la loro dimensione media rimane ancora ben al di sotto di quella degli allevamenti del Nord Europa: per le aziende da latte, i dati PZ (Productshap Zuivel) indicano che in Germania la dimensione media stimata era di 46 capi nel 2010 e nel Regno Unito, il paese con gli allevamenti più grandi d’Europa, di quasi 120 capi.
La necessità di adeguarsi alla riduzione dei ricavi ha portato all’uscita dal settore bovino delle aziende meno efficienti, quelle con meno di 20 capi, che nell’ultimo decennio considerato si sono ridotte del 33% (Tabella 2).

Tabella 2 - Numero di aziende e capi allevati per dimensione dell'allevamento: confronto 2000-2010


Fonte: Istat, V e VI Censimento generale dell'agricoltura

Ancora una volta la razionalizzazione è più veloce per le aziende con vacche da latte, che per la stessa classe dimensionale mostrano una riduzione del 44%. L’entità della contrazione nel numero degli allevamenti tende poi progressivamente a ridursi per le classi successive, fino a tramutarsi in aumento per le classi maggiori. Il passaggio da riduzione ad aumento avviene da una dimensione di 500 capi per il totale bovini e di 100 capi per le vacche da latte. Ciò può essere considerato come un’indicazione, seppur grossolana, dello spostamento della dimensione minima efficiente degli allevamenti. Il maggiore dinamismo degli allevamenti da latte alla ricerca di condizioni produttive più efficienti è il frutto di due tendenze complementari. Da un lato, l’uscita dal settore dei piccoli allevamenti, spesso localizzati in zone marginali, che, non potendo contare su una valorizzazione qualitativa della propria produzione, non sono più competitivi, e questo è vero soprattutto nelle regioni settentrionali. Dall’altro, la crescita dimensionale degli allevamenti che hanno deciso di continuare l’attività di produzione, condizione indispensabile per poter difendere la redditività aziendale nei nuovi scenari competitivi che si vanno delineando.
Che l’appartenenza alle aree marginali possa consentire anche una differenziazione qualitativa del prodotto legata all’ambiente e alle modalità di allevamento è dimostrato dal diverso grado di ridimensionamento delle aziende a seconda della zona altimetrica in cui sono inserite. Nel decennio considerato, gli allevamenti di montagna e di collina si sono ridotti in misura relativamente minore, del 24% e del 28% rispettivamente, contro il 33% di quelli di pianura, nonostante le dimensioni ridotte degli allevamenti stessi, 23 e 32 capi per azienda, contro i 101 capi degli allevamenti di pianura, dove però nel 24% delle stalle si concentra il 53% dei bovini.

La specializzazione territoriale degli allevamenti

Secondo il Censimento 2010, tre sono le regioni con un numero di allevamenti bovini a cinque cifre: Lombardia, con 14.718 unità produttive, Piemonte con 13.234 e Veneto con 12.896. In queste tre regioni si concentra un terzo circa degli allevamenti. Guardando però al numero di capi allevati, a queste tre si deve aggiungere l’Emilia-Romagna, che, nonostante i 4.272 allevamenti, che la collocano soltanto all’ottavo posto tra le regioni italiane, possiede oltre 557.000 bovini, ponendosi al quarto posto dopo Lombardia, Piemonte e Veneto. Il ruolo di Lombardia ed Emilia-Romagna è ancora più rilevante se si fa riferimento agli allevamenti da latte, con queste due regioni che detengono circa la metà delle vacche da latte italiane. Confrontando gli ultimi due Censimenti si osservano i mutamenti intercorsi nella struttura del settore bovino a livello regionale, che indicano una dinamica a due velocità (Tabelle 3 e 4).

Tabella 3 - VI Censimento Generale Agricoltura (dati definitivi): distribuzione territoriale del numero di aziende con bovini per classe dimensionale


Fonte: Istat, V e VI Censimento dell'agricoltura

Tabella 4 - VI Censimento Generale Agricoltura (dati definitivi): distribuzione territoriale del numero di bovini per classe di dimensione aziendale


Fonte: Istat, V e VI Censimento dell'agricoltura

Nelle regioni del Nord, il decennio ha visto una profonda ristrutturazione, attraverso la chiusura di un maggior numero di allevamenti rispetto al resto del Paese, anche se si possono osservare alcune differenze significative: nelle regioni già relativamente efficienti, ad esempio la Lombardia, o dove le peculiarità del territorio e le caratteristiche qualitative dei prodotti garantiscono un’elevata redditività, come in Trentino Alto-Adige, la riduzione degli allevamenti è stata relativamente meno intensa. In altre aree magari meno vocate (Liguria) o ad alta intensità zootecnica, ma con ampi margini di razionalizzazione, la riduzione appare invece più forte (Veneto, -40,2%; Emilia-Romagna, -38,5%). In percentuale, il calo maggiore si riscontra in Friuli Venezia-Giulia, dove quasi si dimezza il numero delle stalle (-45%), ma la variazione assoluta rappresenta comunque un numero modesto, e in Veneto, -40%, che corrisponde invece all’uscita di oltre 8.000 allevamenti. Questi andamenti hanno portato a un aumento significativo delle dimensioni medie soprattutto in Emilia-Romagna, da 52 a 76 capi, in Piemonte, da 44 a 62 capi, in Friuli V.G., da 27 a 43 capi (Figura 1).

Figura 1 - Numero di capi bovini per azienda: distribuzione regionale, 2000 e 2010


Fonte: Elaborazione su dati Istat, V e VI Censimento dell'agricoltura

Tra le regioni del Centro è il Lazio a detenere il maggior numero di allevamenti, sia in totale, sia da latte. In questa regione la razionalizzazione ha riguardato soprattutto le aziende da latte, che si sono ridotte del 47% nell’arco del decennio. Complessivamente in questo aggregato territoriale è soprattutto la consistenza bovina a subire un marcato ridimensionamento (-12,6%), valore superiore alla contrazione media per l’intero Paese (-7,5%), per cui, nell’ottica dell’efficienza, è lecito aspettarsi una ulteriore perdita di importanza delle regioni centrali per un’attività che qui può sopravvivere solo nelle forme più differenziate qualitativamente e integrate con il territorio.
Se consideriamo l’aggregato ‘Sud’, il confronto tra i due Censimenti mostra un patrimonio bovino sostanzialmente invariato, ma con una riduzione delle unità produttive del 23% circa. Le regioni con una dinamica più accentuata sono la Campania (-39%), il Molise (-38%) e l’Abruzzo (-33%). Guardando agli allevamenti da latte, ben cinque regioni registrano una diminuzione del numero di allevamenti di oltre il 43%; tra queste la Campania, nella quale si concentra il numero maggiore di strutture, ha visto ridursi di quasi la metà (47%) il numero di stalle. Per questo aggregato territoriale è interessante analizzare anche la variazione del numero di capi, perché per alcune regioni si osserva un aumento delle consistenze. E’ il caso soprattutto della Basilicata (+14%), a indicare perciò un aumento consistente della dimensione media aziendale, e in misura minore della Sicilia (+9%), che però è l’unica regione italiana per la quale aumenta leggermente anche il numero di allevamenti. Oltre a queste due regioni, anche Puglia e Sardegna presentano un aumento del numero totale di bovini allevati. Complessivamente si prospetta quindi una progressiva ‘specializzazione’ verso l’allevamento da carne nel Sud, con una crescita progressiva delle dimensioni, mentre l’allevamento da latte trova terreno fertile soprattutto nelle aziende di maggiore efficienza localizzate prevalentemente in Pianura Padana. La ricerca dell’efficienza produttiva è assai maggiore nel Nord, dove a fronte di una riduzione dei capi bovini del 9% le imprese zootecniche perdono il 31% delle unità, con una dimensione media che passa da 48 a 63 capi. Centro e Sud subiscono una certa razionalizzazione del settore, ma rimangono con dimensioni medie limitate, passando da 20 a 23 capi e da 22 a 28 rispettivamente. Nel caso delle stalle da latte la dinamica è maggiore soprattutto al Sud, ma le dimensioni rimangono modeste (Figura 2).

Figura 2 - Numero di vacche da latte per azienda: distribuzione regionale, 2000 e 2010


Fonte: Elaborazione su dati Istat, V e VI Censimento dell'agricoltura

Si tratta di un altro tipo di zootecnia, maggiormente legata alle produzioni locali, fortemente compenetrata nel territorio, che spesso non ha la necessità di confrontarsi con la competizione accesa di mercati più ampi.
Nel censimento del 2010 sono state rilevate per la prima volta alcune informazioni specifiche sulle produzioni biologiche: seppure non sia possibile il confronto con precedenti dati censuari, sono 4.874 le aziende biologiche in Italia (circa il 4% del totale), per un totale di 232.102 capi bovini allevati (poco più del 4% del totale): quindi la dimensione media degli allevamenti biologici è leggermente superiore rispetto a quella degli allevamenti con metodi convenzionali (la media italiana è di 47,6 capi). È anche interessante sottolineare come gli allevamenti biologici siano più diffusi al Sud, in particolare in Sicilia, dove quasi il 16% degli allevamenti ed oltre il 20% dei capi sono biologici: nel complesso al Sud si concentra circa il 61% degli allevamenti ed oltre il 54% dei capi. Al Nord, invece, se si escludono Liguria e soprattutto Emilia Romagna, la diffusione dell’allevamento biologico è marginale; in Emilia Romagna, la seconda regione per numero di capi, si registra anche la dimensione media più elevata (76,3 capi/azienda).

Considerazioni conclusive

La zootecnia bovina italiana sta attraversano un periodo di profondo cambiamento, come già mostravano i dati provvisori disponibili nel 2011 (Lanciotti 2011). I dati definitivi indicano un profondo calo delle piccole aziende, a tutto vantaggio di una dimensione media in forte crescita. Il fenomeno è ancora più consistente se si guarda alla riduzione degli allevamenti da latte, per i quali il raggiungimento di una dimensione minima efficiente adeguata sembra essere una condizione necessaria per la sopravvivenza. La contrazione del numero di allevamenti è stata in parte sottostimata dalle indagini campionarie infracensuarie dell’Istat: la discrepanza è particolarmente evidente per il numero di capi, che nelle indagini è addirittura in aumento dal 2005 al 2007. La razionalizzazione produttiva ha riguardato soprattutto le regioni settentrionali, mentre al Sud si manifesta una sostanziale tenuta del settore, almeno per quanto riguarda il numero di capi allevati: si può qui ipotizzare un minor vincolo di efficienza legato da un lato alla produzione di prodotti zootecnici locali di qualità, dall’altro al massiccio spostamento della zootecnia da latte verso le condizioni di efficienza offerte dal Nord.

Riferimenti bibliografici

  • Lanciotti C. (2011), Gli allevamenti da latte: struttura e produzioni secondo Istat, Aia e Anagrafe Zootecnica. In Pieri R. (ed.), Il Mercato del Latte. Rapporto 2011: Franco Angeli

  • Lanciotti C. (2011), Gli allevamenti. In Rama D. (ed.), Il mercato della carne bovina. Rapporto 2011: Franco Angeli

  • Meester G. (2011), European integration and its relevance for agriculture, food and rural areas. In Oskam A., Meester G., Silvis H., EU policy for agriculture, food and rural areas: Wageningen Academic Publishers

  • 1. I dati della Bdn sono relativi all’intera consistenza bovina italiana e quindi dovrebbero rappresentare il dato di riferimento, come indicato nella nota ministeriale dell’11 giugno 2007. Le indagini Istat sono invece campionarie, effettuate però su un ampio campione rappresentativo, che include un numero di aziende che nel corso del tempo è oscillato da un minimo di 28 mila a un massimo di 38 mila, distribuite su circa 5.200-6.600 comuni.
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