Per il terzo anno consecutivo, nei negoziati del Doha Round del World Trade Organization (WTO) si assiste al fallimento delle trattative subito prima della pausa estiva. Il 29 luglio scorso, a Ginevra, la riunione “mini-ministeriale”, cui hanno partecipato una quarantina di ministri dei paesi membri, si è conclusa in un nulla di fatto. Almeno apparentemente, erano molte le attese che si erano concentrate sull’esito della mini-ministeriale; anche se, a testimoniare le difficoltà dei negoziati, il suo inizio, da aprile, era stato via via posticipato a maggio, poi a giugno, ed infine al 21 luglio. Le intenzioni, appunto, erano di poter sfruttare l’ultima settimana di lavori a Ginevra per trovare un accordo, sulla base della bozza delle modalities aggiornata il 10 luglio da Crawford Falconer, l’ambasciatore neozelandese che presiede il negoziato per l’agricoltura.
Tuttavia, dopo nove giorni (e notti) di intensi negoziati, anche quest’ultimo tentativo si è rivelato un fallimento; come del resto è già avvenuto nel 2006, quando i negoziati furono del tutto sospesi, e nel 2007, quando fallirono, a Potsdam, le trattative del cosiddetto G-4 (formato da Brasile, India, Stati Uniti, Unione Europea). Tuttavia, e su questo sembra non ci siano dubbi, questa volta le possibilità di giungere ad un accordo sarebbero state molto più concrete. Secondo quanto riportato dallo stesso Pascal Lamy, direttore generale del WTO, posizioni convergenti erano infatti emerse su ben 18 punti in una lista di 20. Il diciannovesimo, riguardante il meccanismo speciale di salvaguardia, è stato un nodo impossibile da sciogliere; del ventesimo, inerente la questione del cotone, non si è arrivati neppure a discutere. Nonostante, quindi, le posizioni degli stati membri si fossero ravvicinate sull’80-85% delle questioni, nel WTO, come è noto, nothing is agreed until everything is agreed, ovvero non c’è accordo su nulla finché non c’è accordo su tutto. A parte i progressi compiuti su prodotti tropicali ed erosione delle preferenze, merita un cenno la questione delle indicazioni geografiche, cara all’Unione Europea. Gli sforzi del ministro degli esteri norvegese Jonas Gahr Støre avevano infatti consentito di ottenere l’accordo di un centinaio di paesi membri sull’inclusione all’interno dei negoziati di tre temi: la creazione di un registro per la protezione di vini e bevande alcooliche, l’accesso alle risorse genetiche, e appunto le indicazioni geografiche.
All’indomani del fallimento di Ginevra, il Brasile ha già reso noto di voler andare fino in fondo nella disputa contro i sussidi statunitensi sul settore del cotone, il che potrebbe portare all’imposizione di sanzioni commerciali per un valore di 4 miliardi di dollari. Il Brasile potrebbe intraprendere un’azione simile anche contro le tariffe statunitensi sui biocarburanti. Anche la disputa che coinvolge Unione Europea ed Ecuador per i sussidi nel settore delle banane, in cui le due parti avevano raggiunto un accordo nell’ambito della riunione ministeriale a Ginevra, sembra ora destinata a riprendere. L’UE, che si era detta disponibile ad un ulteriore taglio delle proprie tariffe proprio per andare incontro alle richieste dell’Ecuador, ha infatti ribadito che la proposta resta valida solo all’interno di un accordo complessivo per il Doha Round.
È spontaneo chiedersi, a questo punto, perché proprio il meccanismo speciale di salvaguardia abbia costituito un ostacolo insormontabile. Si tratta di uno strumento destinato ai soli paesi in via di sviluppo, introdotto dalla Dichiarazione Ministeriale di Hong Kong del 2005, che consente di innalzare temporaneamente i dazi tariffari in caso di aumento improvviso dei volumi o crollo dei prezzi all’importazione. Non va confuso con la preesistente Clausola speciale di salvaguardia per l’agricoltura, prevista già dall’Accordo Agricolo dell’Uruguay Round, di fatto utilizzata per lo più dai paesi sviluppati, che dovrebbe invece essere ora sostanzialmente ridotta o eliminata. Nella bozza di modalities di giugno, il meccanismo speciale di salvaguardia era già stato indicato da Falconer come uno dei temi su cui erano presenti le maggiori divergenze. D’altra parte, i dettagli da definire sono ancora numerosi: la possibilità di utilizzare criteri più o meno severi per far scattare il meccanismo; di imporre aumenti tariffari temporanei più o meno alti; la possibilità, o il divieto, di eccedere le tariffe consolidate nell’Uruguay Round; il lasso di tempo in cui le misure possono rimanere in vigore.
Le trattative, al termine di sessanta ore di negoziati, si sono arenate tra Stati Uniti ed India proprio sulle soglie da utilizzare per far scattare il meccanismo e poter applicare tariffe che eccedano i livelli tariffari consolidati nell’Uruguay Round: almeno il 40% di aumento del volume delle importazioni per il primo, 10% per la seconda. Sarebbe però sbagliato concentrarsi sui dettagli per cercare di capire il perché del fallimento; da subito, infatti, è stato chiaro che il meccanismo speciale di salvaguardia non era che un indicatore del grado di insoddisfazione attorno al tavolo negoziale.
È significativo che lo scontro si sia consumato attorno ad uno strumento che estende ai paesi in via di sviluppo quella che avrebbe dovuto essere una clausola transitoria per facilitare l’implementazione dell’Uruguay Round. Quello che cela è una sorta di “questione di principio”: il meccanismo speciale di salvaguardia sarebbe la contropartita richiesta da parte dei paesi in via di sviluppo alla possibilità dei paesi sviluppati di mantenere in atto sussidi sostanziali nel settore agricolo. Tanto più che, in una situazione di prezzi agricoli elevati, non avrebbero dovuto sussistere, almeno nel breve periodo, particolari preoccupazioni. Il fatto che il meccanismo di salvaguardia abbia costituito l’ostacolo principale alle trattative in un momento di alti prezzi agricoli e, soprattutto, in cui le tariffe attuali sono, nei paesi in via di sviluppo, in molti casi ben al di sotto di quelle consolidate, è parso a molti paradossale (Ottaviano 2008).
In secondo luogo, ancora una volta, detto per inciso, il fallimento si è consumato attorno al tavolo agricolo. A questo proposito, The Economist provocatoriamente fa notare come il problema del numero di temi oggetto di trattativa nel Doha Round sia nel suo essere casomai troppo ridotto, piuttosto che troppo ampio. Sul tavolo negoziale, la mancanza di altri interessi commerciali che possano costituire una valida contropartita rafforzerebbe infatti il potere delle lobby degli agricoltori dei paesi ricchi. Inoltre, se mai ci fossero stati dubbi in proposito, è emerso chiaramente come il processo di liberalizzazione venga arrestato non appena si scontri con gli interessi nazionali, siano essi dei paesi sviluppati o dei paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli più forti. Questi ultimi hanno rivelato in modo emblematico il loro essere costituiti non soltanto da quei grandi esportatori, che a partire dalla costituzione del Gruppo di Cairns e del G-20 hanno perseguito strategie d’attacco per ottenere maggior accesso ai mercati, ma anche e soprattutto da quegli importatori, appartenenti al G-33, i cui interessi difensivi hanno appunto costituito un ostacolo insormontabile.
Infine, un commento sul ruolo dei “colpevoli”: sebbene vada precisato che, a differenza dei precedenti, questo fallimento non è stato seguito da un pungente “blame game”, India e Stati Uniti sono additati come i principali responsabili. Entrambi i paesi sono alla vigilia delle elezioni presidenziali. La strategia statunitense ha destato più di una perplessità: è stata bollata come anacronistica, non valutando in modo appropriato il potere negoziale dei paesi in via di sviluppo. Qualcuno ha suggerito che sarebbe bastato concludere, nel frattempo, la questione del cotone, per lasciare India e Cina isolate nelle trattative sul meccanismo speciale di salvaguardia; ma questo, appunto, ammettendo che la reale intenzione degli Stati Uniti fosse di chiudere l’accordo. Non è chiaro infatti come questi abbiano intenzione di proseguire, mancando a tutt’oggi di un mandato negoziale, e con le elezioni presidenziali alle porte; anche se non va dimenticato che lo stesso Uruguay Round venne siglato dagli USA grazie ad una proroga della trade promotion authority al neoeletto Clinton.
Il fallimento dei negoziati induce a riflettere sui benefici che potrebbero derivare da un possibile accordo, e sui costi del fallimento. Alcune stime quantificano l’impatto del Doha Round nella riduzione dei dazi tariffari pari a ben 130 miliardi di dollari. Gli effetti sul prodotto mondiale sarebbero però attorno al solo 0,1%. Un impatto quindi comunque positivo ma limitato, ed anche difficile da quantificare, visto che, come detto, in molti casi le tariffe effettivamente applicate sono già minori di quelle consolidate e verrebbero quindi di fatto ridotte poco o per nulla. Tra l’altro, la crescita del commercio mondiale non accenna a rallentare nonostante gli esiti poco positivi delle trattative in sede WTO. Tuttavia, non va dimenticato come il valore reale delle trattative stia nell’offrire la possibilità al sistema commerciale mondiale di dotarsi di regole comuni: regole che garantiscono l’apertura ed il dinamismo dei mercati, le sole in grado di arginare quella possibile ripresa del protezionismo, che molti temono sarà la naturale conseguenza dell’attuale crisi economica mondiale. In questo senso, il WTO è un foro negoziale cruciale.A Ginevra, i negoziati sono ripresi già in questi giorni. La speranza di concludere le trattative entro il 2008 è ormai appesa ad un filo; e suona purtroppo malinconicamente familiare l’appello di Lamy a cercare un accordo entro l’anno almeno sulle modalities, per concludere il Doha Round entro il 2009.
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