Quasi una premessa (1)
Il problema identificato come “emergenza rifiuti in Campania” è da qualche tempo ormai agli “onori” della cronaca, nel nostro come in altri paesi. Le ragioni sono numerose, ma forse la più semplice è che esso è giustamente considerato, allo stesso tempo, grave, assurdo e inspiegabile. Grave per le conseguenze che può avere per la società e l’economia dei territori e dei settori produttivi interessati; assurdo perché originato da eventi, tutti sotto il controllo umano, facilmente e banalmente preventivabili; inspiegabile perché, in un paese e in un continente che vengono normalmente considerati fra i più avanzati del mondo, non è facile darsi ragione delle cause che lo hanno determinato.
Il settore agroalimentare della Campania, ossia di una delle aree più produttive d’Europa, è peraltro talmente coinvolto da questo problema che, malgrado quanto sia già stato narrato dai media di tutto il mondo, sembra meritare ancora un minimo di attenzione per valutare, sia pure in via approssimativa, la natura delle sue origini e la portata delle sue possibili conseguenze. Potrebbe sembrare improprio discutere dei particolari aspetti che il problema riveste per le sole agricolture interessate, scorporandoli da quelli più ampi e gravi dell’intero sistema socio-economico. Tuttavia ciò è proprio quanto qui ci si propone di fare, limitando la discussione al solo settore agroalimentare, nel tentativo di rendere più semplice la valutazione delle specifiche ricadute che lo interessano. Ciò deve essere preceduto, però, da una breve e generale descrizione dei fatti che hanno portato alla situazione che qui si vuole discutere.
Il problema dei rifiuti in Campania probabilmente nasce nella prima parte degli anni ’80, vale a dire pressappoco nello stesso periodo in cui la Regione, reduce dall’esperienza del grave terremoto che ne aveva sconvolto buona parte del territorio, comincia a gestire in prima persona la politica e l’intervento pubblico per la ricostruzione e lo sviluppo, nonché l’ingente flusso di risorse economiche a ciò destinato in sede nazionale e internazionale. Un flusso la cui entità suscita subito l’interesse sia delle forze politiche che della malavita locali, le quali, per motivi differenti, cominciano in contemporanea a prendere a cuore quella che eufemisticamente potrebbe essere definita come “la problematica del territorio”. Un elemento di quest’ultima, che a poco a poco comincia a fare capolino, è proprio quello dello smaltimento dei rifiuti.
In quel periodo il nascente problema dei rifiuti non si identificava con ciò che veniva prodotto in sede regionale, ma riguardava invece, prevalentemente, il traffico e lo scarico illegale, nelle regioni del Sud, di residui tossici provenienti dalle aree settentrionali del paese. In proposito, nel suo ormai popolare “Gomorra”, Roberto Saviano racconta: “La zona più colpita dal cancro del traffico di veleni si trova tra i comuni di Grazzanise, Cancello Arnone, Santa Maria La Fossa, Castelvolturno, Casal di Principe – quasi trecento chilometri quadrati di estensione – e nel perimetro napoletano di Giugliano, Qualiano, Villaricca, Nola, Acerra e Marigliano. Nessun’altra terra nel mondo occidentale ha avuto un carico maggiore di rifiuti, tossici e non tossici, sversati illegalmente. Grazie a questo business, il fatturato piovuto nelle tasche dei clan e dei loro mediatori ha raggiunto in quattro anni quarantaquattro miliardi di euro. Un mercato che ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29,8 per cento, paragonabile solo all’espansione del mercato della cocaina. Dalla fine degli anni ’90 i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti (2).” (Saviano, 2006). E’ stato così che negli ultimi anni la Campania è divenuta la meta di un incessante e colossale trasferimento illegale di rifiuti tossici provenienti da quasi ogni regione del Nord dell’Italia. Le varie inchieste giudiziarie che si sono succedute hanno dimostrato con agghiacciante chiarezza la provenienza della “merce”: Brescia, Milano, Pavia, Pisa, e poi Priolo, Santa Croce sull’Arno, Venezia, Forlì, o ancora, in generale, perfino la Toscana, l’Umbria, il Molise, e così via. Le ragioni per le quali ciò è accaduto e i meccanismi seguiti sono ben spiegati da Saviano. In sintesi, un numero sempre maggiore di imprenditori del centro-nord, con pochi scrupoli, hanno affidato lo smaltimento illegale dei propri rifiuti pericolosi ad un numero crescente di “operatori” campani, senza alcuno scrupolo, che spesso con la connivenza di politici, amministratori e dipendenti pubblici locali hanno curato lo smaltimento e l’occultamento di qualsiasi genere di residuo di lavorazione nelle discariche abusivamente realizzate nelle campagne. I costi di un tale smaltimento illegale risultavano pari ad appena il 20-40 % delle tariffe dovute per lo smaltimento legale. Si potevano quindi in tal modo realizzare economie e profitti colossali. Dice ancora Saviano: “Unendo tutti i dati emersi dalle inchieste condotte dalla Procura di Napoli e dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere dalla fine degli anni ’90 a oggi è possibile comprendere che il vantaggio economico per le aziende che si sono rivolte a smaltitori della camorra è quantificabile in cinquecento milioni di euro. […] Si stima che negli ultimi cinque anni in Campania siano stati smaltiti illegalmente circa tre milioni di tonnellate di rifiuti di ogni tipo, di cui un milione solo nella provincia di Caserta (3).” “Mentre i clan trovavano spazio ovunque per i rifiuti, l’amministrazione della regione Campania dopo dieci anni di commissariamento per infiltrazioni camorristiche non riusciva più a trovare il modo di smaltire la sua spazzatura. In Campania finivano illegalmente i rifiuti d’ogni parte d’Italia, mentre la monnezza campana nelle situazioni di emergenza veniva spedita in Germania a un prezzo di smaltimento cinquanta volte superiore a quello che la camorra proponeva ai suoi clienti. Le indagini segnalano che solo nel napoletano su diciotto ditte di raccoglimento rifiuti, quindici sono direttamente legate ai clan camorristici (4).” Queste le premesse. Cerchiamo ora, più da vicino, di spiegarci le ragioni e la misura della attuale “emergenza”, e delle sue possibili ricadute, limitatamente al settore agricolo.
Breve storia dell’“emergenza”
Lo stato di vera “emergenza rifiuti” nella regione Campania ha inizio nel febbraio 1994. Sarebbe dovuto terminare il 30 aprile dello stesso anno! Esso deriva sostanzialmente dalla mancanza di un sistema impiantistico a supporto del trattamento dei rifiuti (inceneritori), dalla chiusura delle discariche disponibili e dai ritardi dovuti alla mancata adozione del Piano per lo smaltimento dei rifiuti, previsto dalla stessa normativa regionale.
Il primo Piano Regionale, del 1996, subisce subito un drastico ridimensionamento: riduzione del numero dei termovalorizzatori e degli impianti di produzione di Combustibile Derivato dai Rifiuti (CDR) previsti, rispettivamente da 7 a 2 e da 9 a 7. A giugno 1997 il Piano viene approvato ed adottato. Esso sarà aggiornato nel 2006 (Commissario all’Emergenza Rifiuti, 2007).
Nel corso di questo periodo la situazione si è progressivamente aggravata per una serie di vicende il cui risultato complessivo è riassumibile nella mancata costruzione degli impianti necessari ad avviare il ciclo integrato dei rifiuti e nel contemporaneo mancato avvio della raccolta differenziata. Nel frattempo, la produzione di rifiuti è andata crescendo a fronte della progressiva chiusura delle poche discariche ancora disponibili. Oggi, in Campania, l’impiantistica di settore poggia su 7 impianti di produzione di CDR, qualche discarica ed un cantiere per la costruzione di un unico termovalorizzatore che, a torto o a ragione, subisce continui rallentamenti. Gli impianti di CDR, in mancanza della raccolta differenziata, svolgono attività di selezione del rifiuto urbano prevalentemente mediante tritovagliatura. Il ciclo prevede la produzione delle cosiddette “ecoballe” di CDR, di una Frazione Organica Stabilizzata (FOS) e di frazioni (sovvalli) da smaltire in discariche speciali. Nella realtà, come è ormai chiaramente assodato, il rifiuto compresso nelle cosiddette ecoballe è ben lontano dall’avere i requisiti richiesti al CDR.
Ma qual è la dimensione dell’attuale emergenza? La regione Campania si estende su una superficie di 13.590 kmq, collinare per il 50,8%, montuosa per il 34,6% e pianeggiante per il 14,7%. A gennaio 2006 la popolazione campana risulta costituita da 5.790.929 residenti, con una densità di 426 abitanti per kmq. Pur essendo Napoli la provincia meno estesa, essa accoglie il maggior numero di abitanti (3.086.622). Seguono Salerno (1.090.934), Caserta (886.758) ed, infine, Avellino e Benevento (rispettivamente 437.414 e 289.201 abitanti). Prima, per estensione territoriale, è la provincia di Salerno (4.917 kmq) mentre ultima è proprio quella di Napoli (1.171 kmq). Ne discende una densità abitativa, nella provincia di Napoli pari a ben 2.636 abitanti per kmq. Rispetto a questo dato, quelli delle altre province sono ben più limitati: il più alto spetta alla provincia di Caserta con 336 abitanti per kmq.
Stando ai dati riportati quotidianamente dai mezzi di informazione, la produzione giornaliera di rifiuti, nell’intera regione, attualmente oscilla dalle 7500 alle 8000 tonnellate. Rapportato alla popolazione regionale, ciò si traduce in una produzione giornaliera pro-capite di 1,4 kg di rifiuti. La produzione annua dei rifiuti, in Campania, nel 2000, era pari a 2.598.562 tonnellate; nel 2005 a 2.806.112 tonnellate, con un incremento del 7,9%. Di contro, nel 2005, la raccolta differenziata si attestava su una percentuale regionale di poco superiore al 10% e lì, praticamente, si è rimasti. Nella tabella 1 sono riportati i dati di produzione dei rifiuti e di raccolta differenziata per provincia. Il primato negativo spetta alla provincia di Napoli che, su una produzione di oltre 1,6 milioni di tonnellate di rifiuti da parte di oltre tre milioni di abitanti, differenzia solo il 7,7%. Il dato migliore è quello della provincia di Salerno (19,6%), seguita da Avellino (13,8%), Caserta (10,8%) e Benevento (10,2%).
A questo punto sono possibili alcune considerazioni. La prima riguarda il ruolo della provincia di Napoli nella determinazione dell’emergenza. Un ruolo derivante, principalmente, dal suo peso sulla popolazione regionale. La produzione pro-capite di rifiuti non mostra, difatti, una grande variabilità tra le diverse province e le percentuali di raccolta differenziata, a parte la provincia di Salerno, sono praticamente allineate. E’, perciò, la particolare combinazione, che si verifica nella provincia di Napoli, tra produzione di rifiuti, basso livello di raccolta differenziata, scarsità di discariche e di impianti, ridotta estensione territoriale, a far assumere all’emergenza connotati assai più drammatici qui che nelle altre province. Proprio qui, tuttavia, il problema posto dalla necessità di trovare siti adatti ad accogliere discariche si presenta estremamente difficile. Di ciò è testimonianza il continuo e quasi ossessivo ricorso a discariche già chiuse in territori in cui, a giusta ragione, si dovrebbe invece procedere solo ad interventi di bonifica ambientale.
Tabella 1 - Produzione di rifiuti e raccolta differenziata (2005)
Fonte: Piano Regionale Rifiuti (2007)
La seconda considerazione ha a che fare con l’atteggiamento culturale della popolazione nei confronti della problematica rifiuti in genere, che appare ormai tutt’altro che collaborativo. Da un lato, è vero che ogni intervento è stato percepito in modo assolutamente negativo ma, dall’altro, è opportuno sottolineare quanto appaia poco accettabile localizzare una discarica o, peggio, riaprirla, in un territorio fortemente urbanizzato, rispetto ad altre localizzazioni lontane dai centri urbani.
Si tenga presente, inoltre, che si è passati da un piano che prevedeva 7 termovalorizzatori ad uno che ne prevedeva solo 2 e non se ne è realizzato neppure uno! La popolazione non è stata adeguatamente “preparata” a scelte impopolari riguardanti l’uso dell’ambiente, con percorsi di educazione e di partecipazione alle scelte pubbliche che si intendevano adottare.
E’ stata avviata faticosamente la costruzione di un unico termovalorizzatore, poi rallentata anche per consentirne l’adeguamento agli standard di sicurezza. Intanto, il mancato avvio della raccolta differenziata ha concorso a determinare un abnorme aumento della produzione di rifiuti, riciclabili solo in parte e solo a seguito di trattamenti industriali quali quelli previsti dagli impianti di CDR. Ciò che ha portato al progressivo aumento della quantità di rifiuti immagazzinati nelle cosiddette ecoballe. Secondo quanto affermato nel Piano Regionale Rifiuti le frazioni di FOS e “sovvallo”, in uscita dagli impianti, in attesa degli interventi tecnici di miglioramento previsti, risultano pari a circa il 52% del totale dei rifiuti in ingresso e vengono totalmente avviati a smaltimento definitivo in discarica, il che ha un costo non trascurabile. Da qui deriva la necessità di valorizzare la frazione organica dei rifiuti puntando sul potenziamento della raccolta differenziata e sulle attività di compostaggio. Come è noto, il compost, se di qualità, potrebbe essere utilizzato dagli imprenditori agricoli nelle pratiche di fertilizzazione dei campi. Al contrario, oggi in Campania, vi sono intorno ai 7 miloni di ecoballe, ciascuna delle quali ha una dimensione di circa 1 metro cubo. In assenza di impianti di termovalorizzazione queste sono state stoccate su terreni agricoli variamente distribuiti tra le diverse province, con la netta prevalenza di quelli localizzati tra Napoli e Caserta, dove occupano poco più di 180 ettari su un totale che si aggirerebbe sui 200 ettari in tutta la regione. Da qualche tempo la magistratura si sta occupando, ormai in maniera intensiva, del modo in cui il sistema dei rifiuti è stato gestito in Campania.
Lo Stato centrale è inoltre da tempo intervenuto direttamente per avviare a soluzione il problema. E’ con tali finalità che è stata istituita, fin dal 1994, una struttura con amplissimi poteri amministrativi, il Commissariato straordinario di governo, tuttora in funzione! Il problema è tuttavia ben lontano dall’essere stato risolto, pur essendo state spese fino ad oggi somme da giudicare iperboliche. La Corte dei Conti, che si sta attualmente occupando del funzionamento del Commissariato, avrebbe accertato cha la sua spesa totale, dal 1994 al 2007, è stata pari a oltre 2 miliardi di euro, di cui il 21% solo per stipendi e funzionamento delle varie sue sedi, che via via si sono aperte (Chiariello, 2008)5. Purtroppo uno dei pochi risultati che sembrano essere stati conseguiti è che oggi, in Campania, vi è “un addetto ai rifiuti ogni 400 abitanti. La media nazionale è di uno ogni novemila” (6)!
Una rilettura dei fatti
E’ quindi chiaro che il problema dei rifiuti in Campania presenta molte facce, fra di loro differenti anche se collegate, che è opportuno tenere distinte. Esiste, cioè, un problema di smaltimento di rifiuti tossici diverso da quello dei rifiuti urbani. Ve ne è poi uno originato dalle connivenze fra malavita, amministrazioni pubbliche e classi politiche campane. Si deve infine individuare un ulteriore specifico problema che riguarda l’area dove l’emergenza oggi appare più drammatica, da tenere distinto da quello, assai meno grave, riferibile al resto del territorio regionale.
Il primo problema ha, quindi, a che fare con le vicende che hanno interessato lo smaltimento abusivo di rifiuti tossici, per loro natura ovviamente ben diversi da quelli urbani. Da un punto di vista strettamente economico, si tratta di un esempio di esternalità negativa, nel quale una parte consistente del costo tipicamente privato dello smaltimento di residui di lavorazioni industriali da parte di talune imprese, prevalentemente centro-settentrionali, è stato fraudolentemente trasformato in un costo sociale, di fatto posto a carico di talune aree della Campania.
Il modo illegale e clandestino con cui questo problema è stato gestito ha portato, come si è visto, a notevoli vantaggi economici per le imprese che hanno approfittato della situazione, sia quelle produttrici che hanno goduto di notevoli riduzioni dei propri costi industriali, sia quelle che hanno materialmente curato lo smaltimento. Ciò è stato possibile in quanto, negli ultimi due decenni, nelle aree dello smaltimento illecito si è via via venuto a costituire un sistema che si è dato carico di organizzare e gestire la cosa. Tale sistema ha operato con la partecipazione attiva della malavita, come dimostrano le numerose inchieste giudiziarie in corso, e la connivenza di una parte della pubblica amministrazione e della classe politica locale. E’ chiaro che tutte queste diverse figure di operatori, dal Centro-nord alla Campania, sono da giudicare fra i principali responsabili della situazione che progressivamente si è venuta a determinare. Tale sistema ha poi esteso la propria attività, nelle zone in cui ha operato più ampiamente, alla gestione di buona parte dell’intero smaltimento locale dei rifiuti, inclusa la quota quantitativamente prevalente di quelli urbani, prodotti localmente e non tossici. Ecco pertanto che, dove ciò è accaduto, come nell’area di maggiore smaltimento dei rifiuti tossici, tutto il sistema ha finito per essere gestito o quanto meno condizionato da connivenze di tipo malavitoso, operanti fuori dalla legalità, assolutamente sorde anche alle più elementari esigenze collettive, non sempre adeguatamente controllate dagli stessi organi giudiziari.
Il territorio nel quale l’inquinamento da rifiuti si presenta oggi più grave, che si potrebbe quindi chiamare della “maggiore emergenza”, non è esteso su tutta la Campania, ma riguarda solo un’area geografica limitata, a nord della città di Napoli, che ricade parzialmente nella sua provincia e in quella di Caserta. Si tratta, con tutta probabilità, di un’area compresa fra 400 e 450 chilometri quadrati, pari a poco più del 3% del complessivo territorio regionale, che interessa fra 20.000 e 22.000 ettari di superficie agricola utilizzata, cioè fra il 3% e il 4 % della SAU della regione. In questa area della “maggiore emergenza” i terreni effettivamente occupati da discariche di rifiuti tossici e urbani, abusive e non, forse non occupano più di 2.000 ettari e, in tutta la regione, probabilmente non raggiungono l’estensione di 3.000 ettari. Qui il problema è reso ancora più grave dall’aumento del rischio di inquinamento dei terreni e delle sottostanti falde acquifere dovuto allo stazionamento prolungato dei rifiuti. In tale situazione si forma, difatti, il cosiddetto “percolato”, liquido di decantazione estremamente inquinante, che appare destinato a generare problemi di inquinamento assai gravi e duraturi e che presumibilmente richiederanno in futuro un’opera di bonifica non rapida e non semplice.
Problema diverso è quello dei terreni agricoli interessati dai fumi inquinanti originati dai roghi che quotidianamente e illegalmente vengono appiccati ai cumuli di immondizia giacenti nelle discariche e lungo le strade. Questi, in realtà, sono quasi inesistenti nelle province di Avellino, Benevento e Salerno, e a livello regionale probabilmente superano di poco 5.000 ettari, vale a dire l’1% circa della SAU complessiva. Questo specifico problema è molto grave dal punto di vista della sanità pubblica, specie se si considera che i roghi riguardano aree fortemente popolate del napoletano e del casertano, ed è probabilmente preoccupante per la qualità della produzione agricola ottenuta nelle immediate vicinanze dei roghi stessi. Anche se una recentissima e qualificata indagine scientifica condotta nella zona di “maggiore emergenza” circa gli impatti sulla salute umana della presenza di discariche e di abbandono incontrollato di rifiuti conclude che, allo stato, non è possibile dimostrare alcuna dipendenza causale e tantomeno “stimare l’entità di tale impatto” (7). Nell’area in questione, infatti, insistono numerose altre pressioni ambientali risultanti da intense attività industriali e agricole (Organizzazione Mondiale della Sanità et al., 2007). L’elevata incidenza di talune gravi patologie sulla popolazione della zona, che pure appare evidente, potrebbe cioè essere dovuta ad altre cause, sempre di carattere ambientale, ma non direttamente legate alla presente “emergenza”.
Anche limitando la nostra attenzione, come qui ci siamo proposti di fare, ai danni procurati solo all’agricoltura campana dalla “emergenza”, non si può tuttavia non porre al primo posto proprio il danno alla salute delle popolazioni locali, delle quali quelle rurali rappresentano una rilevante frazione. A questo occorre aggiungere il danno ambientale in genere, correlato in qualche modo sia alla caduta della qualità della vita che al costo del disinquinamento delle aree che dovranno essere bonificate. Il resto della superficie agricola della regione non appare, invece, direttamente interessato da fenomeni di inquinamento derivanti da rifiuti, in maniera diretta o indiretta. Con riferimento a questi si può quindi individuare una seconda area, praticamente “non inquinata”, che comprende quasi il 95% della complessiva SAU regionale. Questa area, in cui si producono, in valore, approssimativamente i 4/5 dell’offerta agricola complessiva, è quindi molto ampia, fino ad essere del tutto prevalente nei riguardi dell’agricoltura regionale. Essa, tuttavia, non è immune da ricadute negative conseguenti all’emergenza rifiuti. Quest’ultima sta di fatto dando luogo ad una rilevante perdita di immagine, sui mercati regionali ed internazionali, che colpisce praticamente tutte le produzioni ed i servizi offerti dall’agroalimentare campano, sia in provenienza dall’area di “maggiore emergenza” che da quella “non inquinata”. Il valore di tale perdita viene attualmente stimato dalla Coldiretti pari a circa mezzo miliardo di euro e, anche se non è semplice comprendere come si sia giunti a una tale valutazione, resta il fatto che nell’intero settore agroalimentare della regione esiste in proposito un allarme già oggi elevatissimo. La perdita di immagine sta infatti determinando una evidente caduta della domanda e dei prezzi nel mercato dei servizi offerti dal turismo rurale e dall’agriturismo, che negli anni scorsi aveva fatto registrare una sensibile espansione, anche a seguito degli investimenti effettuati da molti imprenditori agricoli locali. Analoga caduta si sta inoltre registrando nel mercato delle produzioni agricole, e forse di quelle agro-industriali. Tale contrazione della domanda interessa in particolare le produzioni di qualità, verso le quali si era indirizzata la più recente e qualificata evoluzione del settore in tutta la regione. Ciò ovviamente corrisponde ad un calo della competitività dell’offerta campana sui mercati nazionali ed esteri, che appare particolarmente grave in considerazione della struttura della sua offerta. In Campania esistono ben 14 prodotti a marchio DOP e IGP, 24 vini DOCG, DOC e IGT, 329 prodotti tradizionali, 16.000 ettari coltivati a produzioni biologiche, 734 agriturismi: per tutti la politica di marchio instaurata nel recente passato si sta traducendo in uno strumento di identificazione dell’origine di merci dalle quali molti consumatori in questi giorni tendono a fuggire, anche se spesso senza una motivazione razionale o in maniera del tutto ingiustificata.
La percezione dei rischi connessi all’“emergenza” da parte dei consumatori, per numerosi motivi, appare difatti irragionevolmente elevata e il giudizio sulla situazione da parte delle popolazioni, anche di quelle non locali, è reso più severo da numerosi fattori concomitanti.
L’attuale “emergenza”, che a rigore dovrebbe eventualmente riguardare una parte molto limitata dell’offerta e dei terreni agricoli della regione, potrebbe quindi configurarsi, per l’agroalimentare della intera Campania, come una autentica catastrofe economica e sociale della quale non è agevole, in questo momento, apprezzare la reale dimensione!
Purtroppo non si vedono ancora segni concreti che l’emergenza si stia avviando a soluzione e, quindi, le popolazioni locali non appaiono fiduciose e tanto meno disposte a fornire la loro collaborazione alle soluzioni che si vanno prospettando, senza la quale il problema non sembra possa essere risolto. Peraltro, come si fa oggi a essere fiduciosi sulla possibilità che la crisi possa essere risolta in maniera accettabile, in presenza di tanti elementi che la caratterizzano così negativamente? Una copertura mediatica intensa e continua, ma spesso fuorviante, alla ricerca più della notizia clamorosa che della sua rappresentatività; la perdurante esistenza su una parte del territorio, ancorché limitata, di rifiuti tossici e di discariche abusive in fiamme; l’accertato coinvolgimento della malavita nella gestione del sistema sotto accusa; l’inefficienza della pubblica amministrazione cui competerebbe il compito di risolvere i problemi; il permanere della classe politica locale aggrappata alle stesse posizioni dalle quali nel passato non è riuscita a sorvegliare e gestire la cosiddetta emergenza; la perdita di credibilità nelle istituzioni pubbliche in genere; la evidente scarsa capacità di controllo dello stato centrale sugli enti locali; una popolazione e una pressione demografica altissime, specie nelle aree più colpite; l’indebolito senso di responsabilità messo in mostra dalle popolazioni locali, unito alla loro insofferenza e sfiducia nella capacità dei poteri pubblici di risolvere la crisi senza porne i costi ancora e prevalentemente a loro carico; la consapevolezza degli enormi interessi che hanno girato e girano tuttora attorno alla faccenda; la dimensione ormai assunta dall’emergenza. Come si fa oggi a essere fiduciosi sulla possibilità che la crisi possa essere risolta in maniera accettabile?
E allora?
Il quadro che viene fuori da quanto fin qui è stato discusso è di quelli che lasciano senza parole e con poche speranze. L’attuale classe politica locale è in buona parte figlia della situazione che ha generato l’emergenza. Non è quindi da essa, o solo da essa, che ci si possa attendere la soluzione dei problemi che si sono creati e accumulati nel tempo. Peraltro essa ha fino ad oggi mostrato di non sapere o di non volerli risolvere. E non sembra che, anche qualora in futuro possa averne la volontà, abbia oggi le capacità per impegnarsi in una tale difficilissima opera.
La soluzione allora non può essere cercata solo all’interno della regione. Quando un quarto di secolo fa ci si avviò verso un’altra ricostruzione, quella successiva al terribile terremoto che sconvolse buona parte della regione, la situazione di partenza si presentò molto diversa. Allora vi fu la piena solidarietà del resto d’Italia e la ricostruzione partì subito con vigore, anche se poi in parte si arenò. Uno degli errori principali, allora, fu di limitare deliberatamente la solidarietà nazionale alla sola fase iniziale della ricostruzione, per affidarne i compiti alle forze della regione, quasi senza controllo e assistenza dall’esterno. La classe politica e la malavita locali fecero il resto, radicandosi ancora di più sul territorio.
Oggi la situazione è per certi versi peggiore. La perdita di credibilità delle forze politiche e delle strutture amministrative locali, unita al fatto che il problema dei rifiuti in Campania non è dovuto ad una inevitabile calamità naturale, ma in prevalenza all’insipienza della società locale, fa sì che la stessa solidarietà esterna potrebbe rapidamente venire meno. Peraltro, senza la collaborazione delle forze locali, che al momento è molto carente, il problema appare senza soluzione. Le popolazioni campane appaiono quindi, per così dire, “condannate” a reagire per risolvere in prima persona i propri problemi, anche se con l’aiuto dei poteri dello stato e con la collaborazione del resto del paese.
Sul piano locale, rispetto al quadro degli anni scorsi, qualcosa tuttavia sembra stia cambiando. Si tratta del nascere e del crescere di una sensazione di indignazione popolare che sta prendendo tutti coloro che, in un modo o in un altro, stanno vivendo questa “moderna” tragedia, e ne stanno subendo le conseguenze. Una indignazione di cui si trova traccia sempre più evidente nell’opinione pubblica, anche se, fino ad oggi, essa si è prevalentemente rivolta contro le forze di uno stato che è sembrato, nel passato, sostanzialmente assente e prevalentemente incapace. E’ indispensabile, tuttavia, dare ancora fiducia a questo stato, e bisogna ancora sollecitare la collaborazione del resto del paese, altrimenti la partita sarà irrimediabilmente perduta, per tutti.
Sarà questa crescente indignazione capace di dar luogo ad una autentica mobilitazione delle persone e delle istituzioni campane, dello Stato e del resto del paese? E saranno capaci i “media” di partecipare, abbandonando la mera cronaca, per dar voce, assistenza e dignità a una tale mobilitazione? Non è facile credere che tutto ciò possa realmente verificarsi, ma la sola cosa ragionevole da fare è quella di provarci. Subito.
Note
(1) Il lavoro è stato curato in parti uguali dai due autori. Tuttavia, T. Panico ha steso il paragrafo 2, F. de Stefano il paragrafo 3 mentre i paragrafi 1 e 4 sono opera di entrambi gli autori Gli autori ringraziano T. Del Giudice e F. Verneau che hanno letto e discusso la prima bozza del lavoro
(2) Saviano R., Gomorra, A. Mondadori, Milano, 2006, pag. 311.
(3) Saviano, pag. 322.
(4) Saviano, pag. 325.
(5) Chiariello, P. (gennaio 2008), Monnezzopoli, Ed. Tullio Pironti, Napoli, pag. 52.
(6) ivi, pag. 101.
(7) Organizzazione Mondiale della Sanità, Istituto Superiore di sanità, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Regione Campania (2007), Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana. – Studio Pilota- Sintesi dei risultati e indicazioni preliminari - Studio commissionato dal Dipartimento della Protezione Civile, pag.3.
Riferimenti bibliografici
- Chiariello, P. (2008), Monnezzopoli, Ed. Tullio Pironti, Napoli.
- Commissario Delegato per l’Emergenza Rifiuti nella Regione Campania (2007), Piano Regionale Rifiuti Urbani Della Regione Campania, Napoli
- Istat (2003), 5°Censimento dell’Agricoltura 2000, Caratteristiche strutturali delle aziende agricole, Fascicolo regionale, Campania e fascicoli provinciali
- Istat (2006), 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni, 2001
- Organizzazione Mondiale della Sanità, Istituto Superiore di sanità, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Regione Campania (2007), Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana. Studio commissionato dal Dipartimento della protezione civile e consultabile sul sito: [pdf]
- Saviano R. (2006), Gomorra, A. Mondatori, Milano
Commenti
Utente non regi... (non verificato)
Gio, 01/01/1970 - 01:00
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Contenuto dell' articolo
Ho cominciato a leggere l' articolo con l' ingenua aspettativa di trovarvi delle soluzioni: si tratta invece di una storia circoscritta che offre delle spiegazioni plausibili ed è proposta con stile appassionato. In effetti, la soluzione è affidata al commissario straordinario (se non sbaglio, lo stesso fedele servitore dello stato che non ebbe reazioni durante e dopo i fatti di Genova).
Conosco bene la Campania -come del resto i due autori- e vorrei che mi aiutassero a trovare una risposta ad una domanda d' ordine generale: come è possibile che una popolazione composta da individui spesso così intelligenti, colti, furbi e raffinati non sia mai riuscita a produrre dei comportamenti sociali moderni? Quale spiegazione abbiamo per comportamenti individuali così brillanti e comportamenti sociali così cialtroni?
Mi piacerebbe discorrere a lungo di questi argomenti con le tante degnissime persone che conosco in Campania. Ma per ora non mi resta che augurare a loro singolarmente la soluzione rapida dei loro problemi.
Commento originariamente inviato da 'Luciano Pasi' in data 25/03/2008.
Utente non regi... (non verificato)
Gio, 01/01/1970 - 01:00
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Risposta
Ringrazio Luciano Pasi che con il suo commento fornisce occasione di confronto sul tema trattato. Tuttavia, in apertura, non posso non chiarire che la domanda posta parte da un presupposto da me non condiviso. Ritengo, difatti, che nell'attuale fase emergenziale campana vi sia poco da imputare alla sua popolazione che, anzi, anche in questa occasione ha dimostrato di essere capace di comportamenti sociali civili, più che moderni. Del resto, da un'attenta lettura dell'articolo, in cui si è cercato di dare una visione di insieme dei tanti aspetti di questa vicenda e del modo in cui essi interagiscono con il sistema agroalimentare regionale, ben emerge il punto di vista degli autori, sia sulle soluzioni possibili che sulle responsabilità delle vicende odierne. Ripercorrendo le tappe attraverso cui l'emergenza si è determinata, se ne puntualizzano diversi aspetti, reali e virtuali, e si tirano in ballo le responsabilità del nostro sistema di informazione e di buona parte della classe dirigente, non solo locale. Di certo non si può affermare che i bassi livelli regionali di raccolta differenziata siano solo colpa dei cittadini campani. Il conferimento differenziato dei rifiuti è solo una delle fasi necessarie per il buon funzionamento di un sistema che presuppone l'organizzazione di attività che vanno dal conferimento dei rifiuti alla raccolta, smaltimento e trattamento degli stessi. Il conferimento differenziato, anzi, risulta vanificato nel momento in cui le altre fasi non vengono attivate. Ora, fatta eccezione per pochissime realtà, questo è proprio quello che è avvenuto in Campania. Quali le soluzioni? Rilanciare in modo serio la raccolta differenziata fornendo, al contempo, il settore di tutti gli impianti necessari ad avviare un ciclo integrato di trattamento dei rifiuti, a partire da quelli per il compostaggio! Avviare da subito le bonifiche là dove si sa di dover bonificare; completare e/o avviare al più presto la caratterizzazione dei terreni, soprattutto in quelle località dove vi sono buoni motivi per ritenere che essi contengano sostanze nocive in quantità superiori ai valori fissati dalla normativa vigente e tali da richiedere ulteriori interventi di bonifica. Smetterla con l'esposizione mediatica negativa di una regione che oggi ha un problema gravissimo sì, ma le cui conseguenze sono state amplificate da una cattiva informazione.
Commento originariamente inviato da 'Teresa Panico' in data 08/05/2008.