Tra le sette strategie tematiche ambientali della Comunità Europea, il suolo rappresenta un campo di applicazione cruciale1. Questa considerazione è una recente (2006) conquista sul piano culturale e scientifico e rimane ancora una scommessa su quello delle politiche di uso del suolo. La questione non è ovviamente semplice, stante soprattutto la diversità culturale, la sensibilità ambientale altrettanto differente e i molteplici interessi, specifici e diffusi, leciti e illeciti, che guardano al suolo come ad una piattaforma sempre disponibile ad usi profittevoli o a generare rendita. Quasi si trattasse di una risorsa infinitamente disponibile, indifferente rispetto agli effetti ambientali che può subire e riverberare a sua volta. Ma non è affatto così, ed è proprio con questo capovolgimento di pensiero che inizia la declaratoria della Strategia europea per la protezione del suolo2 che afferma che il suolo “visti i tempi estremamente lunghi di formazione […], si può ritenere […] una risorsa sostanzialmente non rinnovabile. Il suolo ci fornisce cibo, biomassa e materie prime; funge da piattaforma per lo svolgimento delle attività umane; è un elemento del paesaggio e del patrimonio culturale e svolge un ruolo fondamentale come habitat e pool genico. Nel suolo vengono stoccate, filtrate e trasformate molte sostanze, tra le quali l’acqua, i nutrienti e il carbonio”.
Oggi, sia per le politiche generali e locali, sia per i piani di uso del suolo, sia per i programmi di protezione della natura e del paesaggio, abbiamo a disposizione questa dichiarazione che riorienta in modo categorico la direzione da tenere nel trattare il suolo e tutti gli usi che se ne vogliano fare. Con questa dichiarazione, il suolo è considerato una risorsa ambientale e anche multifunzionale e strategica per la sua intima connessione con la produzione di cibo e per le implicazioni ambientali ed ecologiche. È evidente, a questo punto, che l’uso di questa risorsa deve essere regolato con rinnovate attenzione e responsabilità e, soprattutto, incorporando in questa regolazione la considerazione degli effetti derivanti da ogni attività basata sull’uso del suolo. Questo passaggio concettuale trova riscontro anche nella direttiva sulla valutazione ambientale strategica (2001/42/EC) con cui ne nasce un mutuo rafforzamento al punto da aumentare il valore strumentale di quella definizione plurale di suolo che si potrebbe perfino immaginare come passaggio concettuale obbligatorio nelle VAS, vista la forte relazione tra uso del suolo ed effetti ambientali, sociali ed economici. La molteplicità degli effetti derivanti dall’uso dei suoli impone un cambiamento di sguardo. Occorre lavorare per porre fine a quella leggerezza culturale con cui molti piani e programmi (e chi li disegna e amministra) usano quella risorsa, rivolgendo maggiore attenzione a scenari di contenimento, mitigazione e compensazione. Il suolo deve rimanere una risorsa verso la quale rimane ineludibile, forte e prioritaria la responsabilità pubblica delle politiche locali e sovra locali: questo anticipa e supera qualsiasi esigenza privata. La preoccupazione della Commissione Europea, infatti, è che, negli ultimi decenni, si è registrato un aumento significativo dei processi di degrado dei suoli e ci sono elementi che confermano che, in assenza di interventi (pubblici), tali processi continueranno ad aumentare3. Si tratta quindi di agire con una certa urgenza e in modo efficace.
La rimessa al centro della questione “suolo” ne richiama immediatamente un’altra: la conoscenza del suolo, dei suoi usi e dei sistemi per monitorarne le variazioni. Non è un caso che, proprio nello stesso anno di pubblicazione della Strategia europea per la protezione del suolo, siano stati pubblicati altri due documenti: Urban sprawl in Europe. The ignored challenge (EEA Report 10/2006) e Land accounts for Europe 1990-2000 (EEA Report 11/2006). Questi documenti tracciano un primo bilancio dei consumi di suolo basandosi sulla base dati Corine Land Cover 1990 e 2000 (un aggiornamento al 2006 è stato recentemente reso disponibile ) e traggono conclusioni allarmanti, nonostante la base dati utilizzata sottostimi le variazioni a scala regionale. Il bilancio alla scala locale è lasciato ai singoli Stati dove, per competenza, si esercita la pianificazione territoriale. Ma questo passaggio è cruciale e problematico per il caso italiano, dove vi è una sostanziale assenza di dati sugli usi del suolo e quindi una conseguente incapacità di dare piena forma e dimensione alle dinamiche di uso del suolo e alle valutazioni ambientali connesse.
Come ha dimostrato il rapporto 2009 dell’Osservatorio nazionale sui consumi di suolo4 (ONCS, 2009) nel nostro paese poco o a si sa di come vengono usati i suoli, nonostante l’intensità di urbanizzazione sia elevatissima. Questo espone la pianificazione territoriale, soprattutto se vi è una pretesa di sostenibilità, a un imbarazzante debolezza decisionale, a meno di accettare il disaccoppiamento tra decisione di utilizzo dei suoli e conoscenza sia del loro stato, che delle implicazioni ambientali. Ma ciò è quanto meno anacronistico e più verosimilmente inaccettabile alla luce della dichiarazione europea della strategia sui suoli. Eppure, solo considerando Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Friuli V.G., negli ultimi anni (ONCS, 2009), sono stati urbanizzati ogni giorno circa 20 ettari di suoli liberi (periodo 1999-2005/7).
Eccessi di urbanizzazione in un contesto già sovra-urbanizzato e disordinato
Negli ultimi 10-20 anni si è assistito ad un consumo di suolo fuori misura, disorganizzato, diffuso, spesso inutile e frammentante. Tutto ciò è avvenuto in un contesto già di per sé troppo urbanizzato. Prendiamo il caso emblematico della pianura lombarda. In Lombardia tra il 1999 e il 2005 sono stati urbanizzati oltre 10 ettari di aree agricole al giorno, oltre 22.000 ettari di suoli agricoli sono stati urbanizzati (ONCS, 2009). Quasi 4 milioni di abitanti lombardi vivono in aree di pianura urbanizzate per almeno il 35%. Di questi, oltre 3 milioni risiedono in comuni urbanizzati al 50% quindi con un rapporto preoccupante tra spazi aperti e spazi occupati. Di questi, circa 2 milioni vivono in comuni urbanizzati per oltre il 75%, quindi in località dove vi è quasi una mancanza di spazi aperti. Se poi consideriamo che la pianura lombarda è una realtà urbana diffusa, gli spazi aperti ivi rimanenti risultano molto frammentati e poco fruibili. Questi dati ci consegnano lo sfondo entro il quale prende forma la qualità della vita del cittadino di queste aree e ci dice anche che esiste un legame di responsabilità tra urbanizzazione, benessere e qualità eco-paesistica.
Tabella 1 - Grado di urbanizzazione dei comuni di pianura in Lombardia. Anno 2005-2007
Fonte: DUSAF 1.1 e DUSAF 2.0
Quello che si registra in Lombardia, lo si potrebbe rilevare anche in altre regioni. Ma vi è un aspetto per a marginale che rende questa situazione ancor più insostenibile e preoccupante: tutto ciò accade in un contesto già dotato di un patrimonio edilizio residenziale e industriale esistente enorme, di cui una quota rilevante non è utilizzata. Secondo l’Istat, circa il 20% del patrimonio edilizio abitativo nazionale non è occupato. Una quota quattro volte maggiore di quella tedesca. Sicuramente il caso italiano sconta un radicato fenomeno di seconde case, ma questo non basta a spiegare la situazione. Secondo l’Istat, nella regione Lombardia, circa il 12,3% delle abitazioni non sono occupate e, di queste, il 36,5% (quindi circa 187.000 abitazioni) sono vuote. Questo non avviene solo nelle aree turistiche, ma accade anche in aree dove più bassa è la presenza di seconde case: province di Cremona, Lodi, Pavia. Come pensare allora che buona parte della recente crescita urbana sia stata sostenibile? Come non dubitare che gli interessi speculativi non abbiano prevalso talvolta sugli interessi collettivi e soprattutto su quelli ambientali? È chiaro, quanto meno, che le decisioni di continua urbanizzazione nel nostro paese non si sono certo autoregolate prendendo spunto dal contesto iper-urbanizzato né intuendo i danni che tale sovra-urbanizzazione poteva generare. Ancor meno è stata elaborata una coscienza politica sull’argomento, capace di porsi un freno e di rivolgere lo sguardo a cogliere le proficue opportunità economiche che il rinnovo del patrimonio edilizio esistente potrebbe dare al settore dell’edilizia (una buona parte di questo patrimonio diffuso va recuperato, messo a norma, rifunzionalizzato e messo a reddito).
Liberalizzazione dei suoli: profili di problematicità
L’urbanizzazione di aree libere trasforma permanente gli spazi aperti (agricoli e naturali) in aree urbane, impermeabili, generatrici di traffico, ecologicamente impattanti e incapaci di svolgere quella ricca serie di funzioni che il suolo libero è invece in grado di garantire: produzione di ossigeno, sequestro di carbonio, mancata emissione di CO2, fertilità, produzione di cibo, mantenimento della biodiversità, produzione di biomassa, e così via.
I consumi di suolo non sono monitorati da nessuno nel nostro paese, innescando una catena di deresponsabilizzazione che va dai Ministeri alle Regioni ai Comuni. Il consumo di suolo non è un tema rilevante per la politica e, in questo momento, non vi è una sola legislazione urbanistica regionale che abbia proposto un limite effettivo al consumo di suolo. All’estero, ancora una volta prima di noi, il tema è stato affrontato e paesi come la Germania si sono dati un limite al consumo e un programma per traghettare l’industria del mattone verso attività più sostenibili e meno impattanti fin dal 2000 (Pileri, 2007).
In Italia, la trasformazione degli spazi aperti è stata, di fatto, addirittura facilitata sia dalla voluta (e incauta) partecipazione degli operatori immobiliari privati nei processi decisionali e strategici pubblici locali, sia da un contesto culturale in cui la questione ambientale è debolmente rappresentata e poco sostenuta dall’amministrazione pubblica e dal Governo, sia da provvedimenti fiscali che hanno addirittura creato le condizioni favorevoli per il consumo del suolo, come l’eliminazione dell’ICI (operazione totalmente di segno opposto all’impegno federalista che il Governo si è dato) o la possibilità di usare più della metà degli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente (Pileri, 2009). Questa deriva legislativa ha gettato le amministrazioni locali nella geenna della degradazione culturale, fomentando una pratica degenerativa secondo la quale il suolo veniva concesso alle trasformazioni immobiliari per finanziare servizi, stipendi ed eventi locali. Per poi ritrovarsi, l’indomani, di nuovo a cercare ulteriori risorse per fare fronte alla spesa pubblica nel frattempo aumentata.
Sostanzialmente, in pochi anni, si è consumata quella che potremmo chiamare la liberalizzazione dei suoli, senza che nessuno esercitasse un monitoraggio e senza tenere sotto controllo il fenomeno e i suoi effetti.
Riferendosi ancora a qualche numero lombardo, basti osservare le risposte dei comuni alla liberalizzazione condizionata dal poter utilizzare i proventi delle concessioni per la spesa corrente. In tabella 2 sono riportati alcuni comuni lombardi per i quali è stato calcolato il rapporto tra superficie urbanizzata e la variazione di abitanti, un indicatore di sprawl urbano che mette a confronto diretto la domanda (gli abitanti) con l’offerta (la superficie urbanizzata). La tabella dimostra che non vi è alcuna correlazione tra aumento della popolazione e i modi di usare il suolo. Dalla lettura emerge più il sospetto di comuni all’inseguimento del mercato immobiliare attento a sostenere tipologie edilizie monofamiliari, commercialmente allettanti (la villetta), o propensi a localizzazioni commerciali remunerative per le fiscalità locali.
Tabella 2 - Indicatori che legano variazione demografica a consumo di suolo5
Quali conclusioni?
Queste brevi riflessioni spingono a richiamare di nuovo e con urgenza quella stessa responsabilità in urbanistica che già Astengo nel 1966, in Urbanistica 48, invocava senza indugi e che è mancata in questi ultimi anni. Il consumo di suolo potrebbe anche essere preso come indicatore unico per un nuovo modello di sviluppo (la Germania in qualche modo lo ha fatto nella sua legge urbanistica più recente). Ma, sono convinto, che occorra innanzitutto capire e far capire che il suolo è un bene comune e che del suo uso occorre rendere conto. Detto questo, occorre il contributo di tutte le forze culturali e popolari del paese per chiedere al decisore politico di inserire la questione “suolo” nella sua agenda. Presto. Il primo passo spetta, per competenza, alle amministrazioni statali e regionali, ma anche i comuni possono dare segni positivi in tale direzione (si veda il caso del comune di Cassinetta di Lugagnano in provincia di Milano). Se la questione suolo continua a non essere percepita come un problema per il Paese, è grave. Grave perché abbiamo tutti i numeri e le condizioni per essere un Paese dove questi eccessi di urbanizzazione possono generare collassi rischiosi nel sistema economico e nel welfare e dove la sottrazione di suoli per costruire, sta esaurendo risorse preziose per il paese per più motivi: (a) perché diminuisce la superficie agricola e quindi l’autoproduzione alimentare; (b) perché danneggia il paesaggio e l’ambiente che per l’Italia (più che per gli altri paesi del nord-centro Europa) sono risorse economiche e occupazionali enormi; (c) perché si sta svalutando la piccola proprietà diffusa (le nuove urbanizzazioni possono inflazionare il valore del patrimonio immobiliare esistente svalutando i piccoli patrimoni immobiliari familiari); (d) perché si sta danneggiando l’ambiente, riducendo la multifunzionalità dei suoli e producendo una serie di guasti ambientali dei quali ancora sappiamo poco e per i quali il solo principio di precauzione basterebbe a disegnare politiche di forte contenimento.
Quali soluzioni? Per qualsiasi soluzione nel nostro paese occorre fare presto, perché siamo in ritardo e stiamo enormemente sottovalutando la gravità della questione. Dopodiché la politica più necessaria è quella della limitazione del continuo consumo di suolo agricolo. Occorrono dei limiti.Quindi si può e si devono orientare le esistenti domande di urbanizzazione al solo riuso delle aree dismesse e non più funzionali e, per i residui di piano che ancora interessano aree libere, occorre introdurre principi come la compensazione ecologica preventiva (Pileri 2007) per ottenere contropartite ambientali capaci di minimizzare gli effetti negativi e per responsabilizzare la città al rispetto della campagna e alla produzione di ambiente. Questi possono essere i primi passi.
Riferimenti Bibliografici
- Astengo G. (1966), dopo il 19 luglio, in Urbanistica n. 48, INU edizioni
- ONCS (2009), Primo Rapporto 2009, Maggioli Editore, Rimini
- Pileri P. (2007), Compensazione ecologica preventiva, Carocci Editore
- Pileri P. (2009), Suolo, oneri di urbanizzazione e spesa corrente. Una storia controversa che attende una riforma fiscale ecologica, Territorio, n. 51, pp. 88-92
- 1. Cfr. http://ec.europa.eu/environment/soil/three_en.htm
- 2. Cfr. COM (2006) 231 final; Comunicazione della commissione al consiglio, al parlamento europeo, al comitato economico e sociale europeo e al comitato delle regioni: Strategia tematica per la protezione del suolo.
- 3. Cfr. Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council establishing a framework for the protection of soil and amending Directive 2004/35/EC. COM(2006)0232 final - COD 2006/0086
- 4. Oggi confluito nel Centro di Ricerca sui Consumi di Suolo
- 5. I dati riportati sono il risultato di elaborazioni effettuate a partire dalla base dati DUSAF 1.1. e 2.0 di ERSAF/Regione Lombardia, per quanto riguarda usi e coperture dei suoli e da dati ISTAT riportati in www.ring.lombardia.it, per quanto riguarda i dati demografici. Nel calcolo sono incluse le coperture del suolo codificate 14 in DUSAF 2.0 ovvero le aree verdi urbane e quelle sportive e ricreative in ambito urbano. Per ulteriori approfondimenti sul trattamento dei dati si veda ONCS (2009).