L’agricoltura biologica: problemi e prospettive

L’agricoltura biologica: problemi e prospettive
a Università di Torino, Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis”

L’agricoltura biologica: una realtà in crescita

L’agricoltura biologica rappresenta una importante alternativa all’impostazione convenzionale e offre una possibile parziale risposta alle preoccupazioni sull’impatto ambientale dell’attività primaria. Vi sono diverse definizioni di agricoltura biologica ma se, ad esempio, si confrontano quella data da Wikipedia con quelle dell’Ifoam, dell’Unione Europea, dell’Usda, si ritrovano due tratti comuni: il rifiuto nella misura massima possibile di prodotti chimici, e l’insistenza sui cicli biologici, sull’attività biologica del suolo, sulla biodiversità, sulla restituzione al suolo degli elementi nutritivi attraverso i reflui.
Quanto è importante però l’agricoltura biologica? A livello mondiale, la stima è di circa 30,4 milioni di ha nel 2006, pari allo 0,65% della superficie agricola, ed il coinvolgimento di 700.000 aziende (Willer et al., 2008). Due terzi della superficie sono costituiti da pascoli permanenti, un terzo da seminativi. I paesi con le maggiori superfici a biologico sono l’Australia (12,3 milioni di ha), la Cina (2,3), l’Argentina (2,2), gli USA (1,6); ma in termini di incidenza sul totale della superficie i paesi europei sono in testa. Le vendite totali di prodotti biologici nel 2006 erano valutate a 38,6 miliardi di dollari, contro i 18 miliardi nel 2000. La caratteristica principale del mercato dei prodotti biologici è però la loro concentrazione nel mondo sviluppato: Nord America ed Europa coprono il 97% della domanda di consumo (Willer et al., 2008).
Nell’UE-25, nel 2003 la superficie a biologico certificata ed in conversione era di 5,7 milioni di ettari, pari al 3,6% della SAU; fra i paesi dell’UE-15, la superficie era cresciuta dai 0,7 milioni di ha nel 1993 ai 5,1 nel 2003 (Commission Européenne, 2005). Nel 2005, la percentuale della Sau a biologico nell’UE-25 era ulteriormente cresciuta al 4% (Llorens Abando e Rohner-Thielen, 2007).
In termini di superficie complessiva, l’Italia era in testa, con il 18% del totale europeo, seguita da Germania e Spagna con il 14%. Tuttavia, in termini di percentuale sulla superficie totale nazionale, le situazioni sono molto diverse da paese a paese: nel 2003 era l’Austria al primo posto con il 9,7%, mentre l’Italia era all’8,1%; l’incidenza della superficie biologica è ancora più differenziata se si guarda il livello regionale (Figura 1).

Figura 1 - Percentuale della superficie biologica sulla SAU a livello regionale, 2000 (%)

In termini di produttori, quelli biologici erano 158 mila nel 2005 nell’UE-25, pari all’1,6% del totale; anche in questo caso la percentuale varia da paese a paese, con Austria, Danimarca, e Finlandia che presentano le percentuali maggiori; in Italia, il numero dei produttori, cresciuto costantemente fino al 2001, dopo un periodo di diminuzione fino al 2004, ha ripreso a crescere, raggiungendo i 51 mila nel 2006 (Ismea, 2007).

Quali caratteristiche strutturali hanno le aziende biologiche?

Contrariamente a quanto spesso comunemente si ritiene, le aziende biologiche hanno mediamente una dimensione maggiore della media: i dati per l’UE-25 davano una Sau media delle aziende biologiche di 40 ha, contro i 14 della media (Commission Européenne, 2005). Anche a livello italiano, un’indagine in Piemonte (Corsi, 2007) indicava una dimensione media pari a 22,3 ha di Sau per le aziende biologiche, contro una media regionale di 8,8. La distribuzione per classi di vendite suggeriva anch’essa che, se sono sicuramente presenti aziende biologiche di piccole dimensioni, queste non esauriscono il panorama, ed anzi sono presenti aziende di dimensioni rispettabili, che fra l’altro concentrano gran parte del valore della produzione. Non è poi nemmeno vero che le aziende biologiche siano a maggior intensità di lavoro: con poche eccezioni, in quasi tutti i paesi europei il rapporto Ulu/ha è maggiore nelle aziende convenzionali. In effetti, questo può dipendere dall’ordinamento produttivo: la forte presenza di pascoli nella superficie biologica europea ovviamente diminuisce l’intensità media di lavoro. Mancano tuttavia dati generali approfonditi sulle caratteristiche strutturali delle aziende biologiche. Secondo l’indagine piemontese, però, effettivamente la parte di prati e pascoli era superiore al valore regionale (43% contro 38%), ma lo era pure quella a colture permanenti (14% contro 9%), mentre era inferiore quella a cereali (32% contro 39%); una caratteristica particolare era la forte presenza di attività agrituristiche e simili (17%) e di trasformazione di prodotti in azienda (31%). In effetti, confrontando gli ordinamenti produttivi, si ha fra le aziende biologiche una percentuale leggermente inferiore di specializzate (77% contro l’83% regionale). Nel complesso, quindi, si può dire che non si riscontrano differenze enormi nelle strutture delle aziende biologiche rispetto a quelle convenzionali: si ha piuttosto una vasta differenziazione, dalle piccolissime aziende a quelle pienamente commerciali, come d’altronde nell’agricoltura convenzionale.

I determinanti delle prospettive di sviluppo del biologico

Per capire le prospettive di sviluppo dell’agricoltura biologica, contano ovviamente, insieme alle prospettive di consumo, quelle della produzione. Dal punto di vista dei produttori, la scelta di “passare al biologico” può dipendere dalle convinzioni personali (un fattore che, all’inizio del biologico, ha contato molto), ma sempre di più dalla convenienza economica, vale a dire dalla condizione che la variazione dei ricavi passando al biologico superi la variazione dei costi. Ovviamente, le variazioni di ricavo dipendono sia dalle rese (il che comporta affrontare i problemi tecnici del biologico), sia dal premio di prezzo che il prodotto biologico riesce ad avere rispetto al convenzionale. Dal punto di vista dei costi, insieme a quelli relativi ai problemi tecnici, vanno considerati anche i costi di certificazione. Secondo gli agricoltori biologici piemontesi (Corsi, 2007), i problemi tecnici, pur presenti e denunciati dal 15% degli intervistati come maggiore criticità, non sono quelli prevalenti, e neppure gli alti costi (13%): i maggiori problemi si ritrovano negli sbocchi di mercato (28%) e nei conseguenti bassi prezzi (23%); anche il peso burocratico della certificazione non è particolarmente determinante (16%). Il problema degli sbocchi è anche la ragione assolutamente predominante per la vendita di prodotti biologici come prodotti convenzionali (84%). Si tenga peraltro presente che le percentuali si riferiscono al numero di agricoltori, non alla percentuale sui prodotti: sono i piccoli produttori che soffrono maggiormente del problema, anche per le scarse dimensioni delle partite, che creano difficoltà con alcuni canali commerciali, come la grande distribuzione.
E’ anche importante conoscere le intenzioni dei produttori biologici: una percentuale notevole (il 18%) dichiara di voler abbandonare il biologico, e la ragione principale (31%) è indicata nella cessazione dei sussidi; seguono la scarsa convenienza (24%), mentre le difficoltà tecniche e le complicazioni burocratiche sono relativamente secondarie (10% e 11%). La cessazione dei sussidi è anche indicata come la ragione principale (57%) fra gli agricoltori che avevano abbandonato il biologico, con la carenza di sbocchi al secondo posto (14%); si noti che la maggioranza (54%) dichiarava che avrebbe potuto tornare al biologico se le condizioni fossero cambiate, specialmente fra quelli che indicavano come causa principale la cessazione dei sussidi. Questi risultati indicano due aspetti: che c’è un grosso ricambio di aziende che entrano ed escono dal biologico; e che le aziende sono fortemente sensibili ai sussidi.
In effetti, l’esistenza di sussidi pubblici al biologico (che esistono nell’UE ma non, ad esempio, negli Usa), ha l’effetto di dividere in due la decisione degli agricoltori: in primo luogo, la scelta se produrre biologico, che è influenzata da ricavi, costi, e dall’entità dei sussidi pubblici; in secondo luogo, la decisione se vendere il prodotto come biologico, che comporta la sua certificazione ed è influenzata dal premio di prezzo del prodotto biologico certificato, dal costo della certificazione, e dagli sbocchi di mercato esistenti. La certificazione è necessaria perché i prodotti biologici sono “beni-fiducia”, vale a dire il consumatore non è in grado da solo di accertare che siano effettivamente tali, ed occorre che qualcuno glielo garantisca. Questa è la ragione della certificazione, che può essere privata o, come nel caso dell’UE, anche pubblica; fra quella privata, sta assumendo sempre più importanza quella della grande distribuzione.

Le ragioni ed i possibili criteri dell’intervento pubblico sul biologico

Ma perché l’operatore pubblico dovrebbe intervenire sul biologico? La ragione è fondamentalmente solo una, cioè il fatto che il biologico consente la riduzione delle esternalità negative (inquinamento, ecc.) prodotte dall’agricoltura. L’aspetto più interessante dell’agricoltura biologica, da questo punto di vista, è che il costo della riduzione delle esternalità negative è pagato in parte dai consumatori, e solo in parte – laddove esistano sussidi - dall’operatore pubblico, cioè in ultima istanza dai contribuenti. Ne segue che il primo criterio da seguire da parte dell’operatore pubblico dovrebbe essere quello di facilitare il più possibile l’incontro fra la domanda di prodotti biologici da parte dei consumatori con l’offerta relativa, in modo da permettere al mercato stesso la produzione delle esternalità positive. Solo in seconda istanza dovrebbe essere sussidiata la produzione biologica, nella misura in cui effettivamente produce le esternalità desiderate. La ragione è piuttosto semplice, ed è proprio l’esistenza da parte dei consumatori di una disponibilità a pagare per i prodotti biologici, sia che questa derivi da motivazioni “egoistiche” (maggiore salubrità, genuinità, gusto), sia da motivazioni “altruistiche” come la preoccupazione per l’ambiente (AC Nielsen, 2005; Torjusen et al., 2004): è più efficiente che il raggiungimento di un maggior rispetto dell’ambiente sia affidato al mercato, piuttosto che a prescrizioni o sussidi. Quindi, un ruolo importante dell’operatore pubblico dovrebbe essere quello – oltre che di garantire attraverso il controllo che i prodotti biologici siano tali – di facilitare l’organizzazione e la concentrazione dell’offerta, che come si è visto sembra essere un impedimento importante alla valorizzazione dei prodotti biologici.
Per quanto riguarda i sussidi al biologico, questi si giustificano in un’ottica pubblica se determinano esternalità positive, cioè un maggiore rispetto dell’ambiente. Occorrerebbe però una maggiore attenzione all’efficienza di questi interventi: occorrerebbe cioè verificare che i sussidi al biologico raggiungano lo scopo (cioè essere sicuri che il risultato non sarebbe stato raggiunto ugualmente anche in assenza del sussidio) e che lo raggiungano nel modo più efficiente (cioè che non esistano altri modi per ottenerlo con minore spesa). In effetti, a volte, vengono sostenute produzioni che per la loro natura sono già biologiche (ad esempio le castagne), senza che sia necessario per questo l’intervento pubblico: si tratta allora di semplici trasferimenti di reddito, non di politiche ambientali. E, più in generale, l’efficienza dell’azione pubblica richiederebbe che il sussidio sia commisurato al valore dell’esternalità prodotta, e che non ci sia né sovra-compensazione (che comporterebbe uno spreco di fondi pubblici rispetto all’effetto desiderato), né sotto-compensazione (perché non si raggiungerebbe l’effetto ambientale richiesto). Su questi temi sarebbe desiderabile una maggiore attività di ricerca e, ovviamente, una maggiore attenzione da parte degli enti pubblici.
Una ulteriore osservazione, collaterale ma importante, è che la regolamentazione e la certificazione pubblica – come d’altronde quella privata – possono essere non pienamente coerenti con gli obiettivi ambientali. Questo perché vi è una tendenza – per molti versi d’altronde positiva – verso la creazione di aziende biologiche commerciali e specializzate. Il rischio è allora che il biologico si riduca al puro rispetto delle regole di produzione, facendo perdere alla produzione la valenza ecologica, che era nel suo spirito iniziale. Ne deriva il rischio che venga ad esempio consumato un frutto biologico sì dal punto di vista delle tecniche colturali, ma prodotto a grande distanza: il beneficio ambientale della produzione biologica diventerebbe molto discutibile, per gli impatti ambientali del trasporto. La stessa specializzazione produttiva delle aziende biologiche tende ad essere in contrasto con lo spirito originale dell’agricoltura biologica, che avrebbe dovuto orientarsi verso la policoltura ed il riciclo delle deiezioni animali all’interno dell’azienda (1).

Nuove frontiere per l’agricoltura a basso impatto ambientale?

Sono allora la filiera corta e le “food miles” la nuova frontiera ambientale agricola? Per filiera corta si intende una organizzazione che diminuisca i passaggi della catena commerciale fra il produttore agricolo ed il consumatore; questo comporta spesso anche una riduzione dei costi (e dell’impatto ambientale) del trasporto del prodotto. Con il termine “food miles” si intende invece la diffusione dell’informazione riguardo alla distanza percorsa dal prodotto dalla fase agricola al consumo, per rendere i consumatori stessi coscienti del possibile impatto ambientale dei loro acquisti. In effetti una forte tendenza in questa direzione esiste: recentemente anche i negozi della catena Wal-Mart negli Usa hanno cominciato a vendere prodotti agricoli locali propagandati come tali. Nella stessa direzione vanno i mercati contadini (farmers markets), che si stanno diffondendo negli Usa e che sono stati regolamentati recentemente anche in Italia (dove peraltro erano già una pratica diffusa). Sicuramente l’impatto ambientale dell’attività agricola può essere ridotto con queste pratiche, anche se il loro effetto non va sopravvalutato; c’è infatti una evidente discrepanza geografica fra la produzione ed il consumo di prodotti biologici, dato che il 97% del consumo è nel mondo occidentale, mentre una parte importante della produzione è nei paesi in via di sviluppo. Anche a livello nazionale, il maggior numero di operatori agricoli del biologico si trova nell’ordine in Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata, che assommano il 43% delle aziende biologiche, mentre il 69% dei consumi domestici si concentra nelle regioni settentrionali, contro il 9,4% del Sud (Ismea, 2007). Pur andando nella direzione giusta della riduzione dell’impatto ambientale, diventa quindi improbabile che questa tendenza possa avere effetti di grande entità. Complessivamente, però, queste tendenze, come l’espansione dell’agricoltura biologica, vanno nella direzione di diminuire gli effetti negativi ambientali (e sulla salute) dell’agricoltura più intensiva; questo effetto diventa maggiore man mano che alcune regole diventano standard minimi di entrata sul mercato, come è il caso della lotta integrata, che è diventata un requisito minimo per la fornitura a gran parte degli operatori della grande distribuzione.

Note

(1) Il nuovo regolamento CE 834/2007, nelle considerazioni iniziali, insiste molto sullo “spirito” dell’agricoltura biologica.

Riferimenti bibliografici

  • AC Nieslsen (2005) Functional Food and Organics. A Global AC Nielsen Online Survey on Consumer Behavior & Attitudes, AC Nielsen, November 2005
  • Commission Européenne, DG Agri (2005) Organic farming in the European Union. Facts and figures. G2 EW-JK D(2005) Bruxelles, 3 novembre
  • Corsi A. (2007), L’agricoltura biologica Piemontese. Un’analisi delle strutture e delle forme di commercializzazione, Supplemento al n. 56 di “Quaderni della Regione Piemonte – Agricoltura”, novembre 2007, pp. 99
  • ISMEA, Il mercato dei prodotti biologici: tendenze generali e nelle principali filiere, Roma, 2007
  • Llorens Abando L., Rohner-Thielen E. (2007) Different organic farming patterns within EU-25. An overview of the current situation, Eurostat Statistics in focus, Agriculture and Fisheries 69/2007, Bruxelles
  • OECD (2003) Organic Agriculture: Sustainability, Markets, and Policies, CABI Publishing, Wallingford
  • Torjusen H, Sangstad L, O’Doherty K J and KJÆRnes U (2004) European Consumers' Conceptions of Organic Food: A Review of Available Research, SIFO Professional report no. 4-2004, disponibile a [link]
  • Willer H, Youssefi-Menzler M, Sorensen N. (eds.) (2008) The World of Organic Agriculture. Statistics and emerging trends, IFOAM-FIBL, Earthscan, London
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