Con il presente volume, come precisano i due curatori - Misiani, docente di storia nell’Università di Teramo, e Gómez Benito, sociologo dell’Università di Zaragoza - è delineato un percorso conoscitivo per «introdurre il lettore spagnolo a un tema di particolare rilevanza per la storia contemporanea: la riforma agraria italiana del 1950». L’opera in questione è tuttavia in grado di soddisfare anche la curiosità del lettore italiano. Sono trascorsi poco meno di settant’anni da quell’evento, ovvero un accadimento piuttosto recente dal punto di vista storico, segnando in maniera significativa gli anni ’50 del paese. Ormai sono pochi coloro i quali ne possiedono ancora memoria: quella necessaria per ricostruire una problematica identità democratica nazionale nata dopo l’avvento del fascismo. Con l’auspicio di disporne una versione tradotta nella nostra lingua, questo volume si può considerare come una ricerca d’utilità per riprendere un dibattito mai concluso. Un avvenimento controverso che, ancor oggi, presenta zone d’ombra non sufficientemente approfondite dalla ricerca storico-economica e sociologica.
È quanto mai appropriato il titolo della ‘Presentazione’ dei due curatori nel quale, alla “costruzione della nazione e la modernizzazione dell’agricoltura”, è associata la “bonifica, colonizzazione e riforma agraria”. Si tratta di un titolo che riproduce proprio il percorso storico avutosi in Italia. Si è passati infatti dalla bonifica - prima solo idraulica, poi a quella integrale (colonizzazione) - alla riforma agraria. Ciò spiega perché si è difronte a un testo dagli ampi contenuti esposti in più di 550 pagine e in ben undici ricerche, oltre a quella relativa all’ampia presentazione ricordata. Vi si annovera difatti il contributo di:
- Rolf Petri, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, nel quale è delineato il quadro generale storico della dinamica agricola nell’ambito dello sviluppo economico italiano relativo al periodo 1918-1961;
- Gilberto Corbelli, dell’Università La Sapienza di Roma, in cui sono trattati i problemi della malaria in Italia e il loro superamento;
- Renato Sansa dell’Università della Calabria, dove è ricostruita la complessa tematica riguardante il risanamento dell’Agro Romano dal XVI al XX secolo;
- Aldino Monti, dell’Università di Bologna, riguardante la particolareggiata disamina degli studiosi antifascisti della scuola serpieriana: Manlio Rossi Doria ed Emilio Sereni;
- Simone Misiani, uno dei curatori del volume, che disegna il percorso compiuto da Nallo Mazzocchi Alemanni a favore della colonizzazione interna e della riforma agraria;
- Marco Zaganella, dell’Università dell’Aquila, dove è considerata l’esperienza di Giuseppe Medici come presidente dell’Ente di riforma fondiaria per la Maremma e il Fucino;
- Gino Satta, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, inerente alla complessa problematica antropologica della cultura contadina meridionale;
- Luca Bianchi e Stefano Preziosi, il primo del Ministero della politica agricola, alimentare e forestale, l’altro ricercatore della Svimez, nel quale sono analizzati i flussi migratori del Mezzogiorno nel contesto dello sviluppo economico e dell’accumulazione del capitale umano;
- Simone Misiani e Cristóbal Gómez Benito, ancora i due curatori, che sulla base di una lunga intervista a Giuseppe Barbero, professore emerito della Sapienza, economista e sociologo agrario, ne ripercorrono le esperienze accademiche, di ex presidente dell’Inea e di consulente Fao, come pure di attento studioso della stessa riforma agraria italiana;
- Angel Palerm Vich (1917-1980), antropologo messicano, di cui qui è riprodotto uno scritto del 1962 riguardante le considerazioni dello stesso autore sulla riforma agraria realizzata in Italia negli anni ’50;
- Cristóbal Gómez Benito, che attiene all’epilogo conclusivo della presente ricerca unitamente alle personali riflessioni sopra l’esperienza italiana comparata con quella spagnola.
I contributi risultano pertanto numerosi. Tracciano un quadro analitico piuttosto articolato di non facile sintesi. Da questi studi, tuttavia, il lettore può trarre spunto per affrontare una serie di questioni alle quali il volume considerato tende a dare delle soddisfacenti risposte. Tra queste, può chiedersi: all’epoca, era veramente necessaria la riforma agraria definita dalle leggi ‘Sila’, ‘Stralcio’ e quella attinente alla Sicilia, promulgate nel 1950? Con tale riforma, si conseguirono risultati significativi sul piano redistributivo della proprietà terriera e su quello del miglioramento produttivo? Era possibile risolvere il drammatico squilibrio uomo-terra aggravato alla sottoccupazione bracciantile che allora incideva pesantemente sull’agricoltura? Infine, esistevano modalità alternative alla riforma per affrontare i nodi sociali, economici, produttivi dell’agricoltura di quel tempo?
Per cercare di orientarsi su questa complessa problematica occorre ricordare, seppure in breve, le condizioni in cui versava l’Italia nell’immediato dopo guerra.
Nel 1945, a seguito degli eventi bellici, il reddito medio pro-capite era crollato di quasi la metà rispetto all’ante guerra, passando da 4.040 a poco più di 2.240 Euro (espressi in valori costanti 2010 danno conto delle avverse condizioni in cui viveva la popolazione dell’epoca specie se confrontati con i valori più recenti superiori, rispettivamente, di ben sei e dodici volte). Il benessere economico di oltre 45 milioni di italiani (di cui 18-19 milioni di popolazione rurale) era dunque quanto mai contenuto, aggravato da una rilevante inflazione che erodeva gli scarsi redditi. I lavoratori impegnati in agricoltura si aggiravano attorno a poco meno di 9 milioni, cioè oltre il 44% degli attivi totali, operanti su circa 29 milioni di ettari (quindi con una disponibilità di appena 3,4 ettari per lavoratore!). Era perciò in atto, come nell’ante guerra, una patologica pressione demografica sulla terra. Questa poi assumeva caratteri sociali ancora più drammatici per la presenza di 2,5-3 milioni di braccianti. Nel nuovo regime politico democratico post guerra, gli stessi i braccianti davano luogo a forti agitazioni per rivendicare condizioni di vita più dignitose, con occupazioni di terre agricole talora sfociate in lotte sanguinose.
Siamo all’epoca dei vari governi Bonomi e De Gasperi e dei ministri dell’agricoltura Gullo e Segni impegnati ad affrontare questa gravissima situazione. Il primo diede corso alla proroga dei contratti agrari (provvedimento peraltro ripetuto fino al 1982), con cui venne data stabilità ai contadini che operavano su un dato fondo; si impegnò anche per la legalizzazione delle occupazioni bracciantili delle terre. A Segni, invece, si devono le linee generali della riforma agraria. Queste vennero esposte durante il 2° Congresso DC svoltosi a Napoli nel 1947. In tale occasione, infatti, lo stesso ebbe modo di annunciare l’intenzione del governo di muoversi in una precisa direzione: «dare maggiore stabilità al lavoro» mediante la realizzazione di una «riforma agraria che la Costituente ha promosso», da attuarsi però con «gradualità perché non vogliamo precipitare il paese nella rivoluzione». Secondo Segni, il fine di una simile politica era di favorire la formazione della «piccola proprietà coltivatrice, [specie quella] unita in cooperative» in modo da recare nelle campagne «la pace sociale che oggi è profondamente turbata».
Di fatto, le leggi di riforma agraria approvate nel ’50, di cui i partiti della sinistra storica ne chiesero una più generale applicazione, non precipitarono il paese in nessuna rivoluzione. Non risolsero nemmeno il dramma bracciantile. Come è noto, con le medesime, su poco meno di 700 mila ettari assegnati degli oltre 770 mila espropriati, stabilizzarono circa 113 mila nuclei familiari. Diedero quindi lavoro stabile forse a 200-250 mila unità lavorative, interessando perciò una quota piuttosto ridotta della precarietà complessiva esistente. Data la modesta entità degli espropri, la riforma in questione permise di realizzare una trasformazione agraria e infrastrutturale ben maggiore rispetto a quella di redistribuzione fondiaria. Più rilevante, invece, assunse l’aspetto politico perché, come sostenne a suo tempo Rossi Doria, finalmente venne attaccata la grande proprietà fondiaria assenteista «attorno alla quale si erano sempre barricati il conservatorismo e l’immobilismo meridionale».
Come evidenzia peraltro Barbero, nell’intervista riprodotta nel volume, «la riforma agraria italiana […] aveva un obiettivo preciso: costituire aziende familiari con insediamento sulla terra; riprodurre in sostanza il modello di appoderamento di buona parte dell’agricoltura dell’Italia centro-settentrionale. In diversi casi ha avuto successo, come nella Maremma tosco-laziale, nel Metapontino, in certe zone della Puglia. Ma non poteva andar bene dappertutto, […] specie dove per le specificità dell’ambiente fisico l’insediamento sparso, pressoché impossibile in quelle condizioni, non aveva fino ad allora attecchito». Tuttavia, «c’è voluto uno sforzo considerevole di organizzazione, di progettazione degli insediamenti, di interventi diretti a rendere i terreni coltivabili ed abitabili, di assistenza tecnica e creditizia».
Il disegno generale di politica agraria annunciato a Napoli da Segni volto a favorire la diffusione più ampia possibile della “piccola proprietà coltivatrice”, prese forza, più ancora che con le leggi di riforma, soprattutto con la costituzione della ‘Cassa per la formazione della proprietà contadina’. Istituita con la Legge n.121 del marzo 1948, aveva il compito di acquistare terreni e provvedere alla loro lottizzazione per rivenderli a condizioni vantaggiose ai coltivatori diretti mediante mutui trentennali a bassissimo tasso d’interesse. Con la stessa istituzione, rafforzata da altri 18 provvedimenti di legge emanati fino al 1960 a favore dei coltivatori diretti, si attuarono trasferimenti di proprietà verso le famiglie contadine per oltre 1.048 mila ettari. Si superarono così ampiamente in termini redistributivi della terra realizzati dalla riforma agraria, come peraltro è evidenziato dai curatori del volume.
Sono dunque numerose le risposte che il saggio considerato è in grado di fornire. La questione che però non trova una adeguata rappresentazione riguarda se all’epoca esistevano o meno proposte alternative alla visione di riforma agraria progettata da Segni. È pur vero che i curatori dello studio tracciano con precisione il percorso storico dell’esperienza italiana nei confronti della «larga tradición» redistributiva della proprietà fondiaria. Ricordano infatti i diversi provvedimenti che nel tempo sono stati presi a partire dall’Opera nazionale combattenti per finire alla bonifica integrale. Dato questo percorso, non potevano non considerare, come peraltro hanno fatto, la figura di Arrigo Serpieri, cioè colui che più di altri ha tentato di accrescere le capacità produttive dell’agricoltura del suo tempo. Questo è avvenuto soprattutto attraverso l’opera svolta dallo stesso dal 1922 al 1934 per realizzare la bonifica integrale. Di tale “personalità imponente”, come l’ha definita Manlio Rossi Doria, non risulta tuttavia evidenziata con nitidezza la visione alternativa di riforma agraria da lui proposta nell’immediato dopo guerra. Tentò di delinearla con diversi saggi e molteplici articoli comparsi sulla stampa nazionale, in particolare sul ‘Corriere della sera’ con lo pseudonimo di Rusticus. Per tentarne un approfondimento, utile a completare il quadro storico tratteggiato, occorre partire da una (doverosa) premessa su questa personalità.
È problematico però parlare di Arrigo Serpieri (1877-1960) riducendolo a poche battute. Si è infatti in presenza di uno studioso originale, di un intellettuale di valore e di un uomo pubblico impegnato a migliorare le condizioni economiche e sociali del proprio paese. Si può soltanto cercare di spiegare perché, nel dibattito acceso nel 1945-‘50 sulla riforma agraria, Serpieri sosteneva in un saggio del 1946 che «per ottenere […] che la nuova terra vada utilmente ai contadini e per ottenere insieme che quella già da essi posseduta meglio adempia ai suoi compiti di produzione e consenta ad essi un più alto tenore di vita, la via maestra è […] una forte ripresa delle opere di bonifica e di colonizzazione […] inclusa la ricomposizione e sistemazione montana».
Dunque Serpieri non era contrario in via di principio alla riforma agraria. La vedeva però realizzata unicamente con l’attuazione del TU sulla bonifica integrale del 1933, ossia la legge da lui elaborata (assieme a Jandolo). Riteneva che fosse possibile ottenere risultati ottimali con la stessa, oltre tutto a minor costo, sia in termini produttivi che in quelli occupazionali. Il fine preminente era quello di stabilizzare sulla terra il maggior numero di lavoratori agricoli precari tramite la creazione delle condizioni di vita più consoni al vivere civile. In tal modo, però, gli sfuggiva il profondo cambiamento politico avvenuto con l’avvento della Repubblica e l’emergere di un nuovo clima di libertà in cui le istanze sociali, come quelle tragiche provenienti dal mondo bracciantile, richiedevano risposte celeri se non immediate. Prospettare interventi di bonifica integrale implicava la necessità di realizzare opere pubbliche e private assai complesse, richiedenti tempi troppo lunghi rispetto alla domanda, peraltro impellente, della “terra a chi la lavora”. Istanza questa che invece la politica non poteva disattendere, come riuscì a fare la DC, pur se contenendola in qualche misura con la riforma Segni. E ciò nonostante la forte contrarietà delle opposizioni. Non a caso, Barbero nell’intervista concessa ai curatori, ricorda una affermazione di Medici sulla riforma attuata in Maremma: «Abbiamo agito bene perché abbiamo fatto rapidamente».
È necessario però comprendere il perché dell’ostinata difesa da parte del Serpieri della bonifica integrale prevista nel TU del ’33. A questo scopo, occorre partire dalla figura di questa personalità come studioso. Si è di fronte a un pensatore originale che parte da una «visione integrale e concreta dei fenomeni sociali» al fine di ottenere una «maggiore praticità di risultati». Dato il tempo in cui si forma culturalmente, Serpieri indirizza i propri studi verso il campo del sapere economico-agrario legato alla scuola di Losanna (Walras). A questa, come è noto, si deve la concezione dell’economia come scienza dell’azione umana intesa come azione di scelta. Su tali basi, con la Guida a ricerche di economia agraria (1929) elabora il paradigma che pone le fondamenta dell’economia agraria moderna. Si tratta dell’opera che si basa sulle scelte sia dei singoli agricoltori (economia dell’azienda agraria) sia dei pubblici poteri (politica economica agraria). Distinzione però osteggiata dallo stesso Serpieri che invece sosteneva l’unitarietà disciplinare, come dimostrerà in particolare con le Istituzioni di economia agraria (1946). A lui si deve anche una nuova impostazione dell’estimo con Il metodo di stima dei beni fondiari (1914-’17). Si è quindi di fronte a uno studioso innovatore di notevole spessore.
Ma Serpieri è, nel contempo, anche l’intellettuale in grado di cogliere i problemi legati all’agricoltura, il settore prevalente negli anni 1920-36 nella formazione del reddito nazionale e dell’occupazione. Come tale, appartiene all’élite della competenza formatosi attorno a Nitti e Ivanoe Bonomi. Una élite fautrice di un progetto elettro-irriguo per abbinare la bonifica alle trasformazioni fondiarie, alla pianificazione territoriale e all’industrializzazione, il tutto finalizzato allo sviluppo di un paese arretrato quale era l’Italia prima della grande guerra e all’inizio del ventennio 1920-’40. Come uomo pubblico, Serpieri si è sempre battuto per risolvere il problema più assillante dell’agricoltura dei suoi tempi: l’elevata pressione demografica sulla terra. Nel 1947, al riguardo, asseriva che «una sensibile elevazione del tenore di vita dei contadini italiani […] non sarà stabilmente realizzato fino a che non sia rimossa una condizione che impende sulla nostra agricoltura come un tragico destino: è l’eccessiva densità della popolazione agricola, il grave squilibrio tra essa e le risorse della nostra terra» (dove il termine ‘impende’- ormai in disuso - deriva dal verbo transitivo ‘impendere’ che significa letteralmente ‘impiccare’).
I valori che lo guidano sono duplici: uno è legato alla necessità di preservare “un alto grado di ruralità” (ritenendo che gli attivi agricoli non dovessero scendere sotto il 40% di quelli totali) realizzabile legando stabilmente i contadini alla terra; l’altro è connesso alla concezione della proprietà fondiaria privata che, a suo avviso, non può che avere un «carattere essenzialmente sociale». Come tale, si giustifica attraverso il «migliore impiego della terra ai fini della produzione». Se ciò non avviene, lo Stato deve intervenire «sia con vincoli che obblighino il proprietario a seguire la via socialmente conveniente sia con l’espropriazione indennizzata», dove l’esproprio è inteso come il riconoscimento di quel principio.
Il percorso che conduce Serpieri a tentare di dare soluzione all’eccesso di mano d’opera prende consapevolezza soprattutto a partire dal convegno di San Donà del Piave nel 1922. Si concretizza poi durante i due Sottosegretariati, nel 1923-’24 con Corbino, nel 1929-’34 con Acerbo. In tale veste, elabora una serie di leggi che sfociano nella definizione del citato T.U. del 1933, n. 215. Si tratta della legge con la quale diviene possibile realizzare: i) un processo di trasformazione della terra degradata e/o scarsamente produttiva teso a incrementare la produzione agricola (opera di bonificamento); ii) le condizioni utili ad assicurare una sede di vita stabile per i lavoratori agricoli, specie quelli precari (opera di colonizzazione). La bonifica integrale si attua tramite un complesso unitario inscindibile di opere fondiarie pubbliche (strade, borghi, condotte irrigue, acquedotti, ecc.) e private (sistemazioni, piantagioni, fabbricati, ecc.). Opere capaci di dar luogo a profondi cambiamenti nell’insediamento della popolazione rurale, nella divisione delle grandi proprietà, nella costituzione di nuovi tipi d’impresa (aziende contadine) e negli ordinamenti produttivi. In definitiva, con la bonifica, diviene realizzabile un nuovo assetto fondiario e agricolo in grado non solo di dare lavoro stabile ed equamente retribuito ai contadini, ma creare altresì le condizioni più generali del vivere civile. La stessa si attua con massicci investimenti su un dato comprensorio condotti sulla base di un giudizio di convenienza pubblica fondato sulla massima ofelimità collettiva. Se realizzata su molteplici territori, dà luogo a più elevati redditi sia agricoli che dell’intero paese (muovendosi perciò nella direzione prospettata dalla teoria della scuola di Losanna). Tutto questo è conseguibile soltanto con il concorso dell’insieme delle opere private e pubbliche tra loro complementari. Se manca tale unitarietà, viene a decadere il fine della bonifica. Questo accade, secondo Serpieri, quando non venga rispettato l’obbligo da parte del proprietario di portare la terra alla più elevata produzione possibile. In tal caso, diviene necessaria l’espropriazione.
Sulla base di questa organica concezione, si capisce perché in un saggio del 1949 sostiene che il «fine fondamentale della riforma agraria, deve essere l’estensione della proprietà contadina a spese di quella borghese, senza […] che essa debba avvenire a spese della “grande” piuttosto che della “media” o “piccola” proprietà [alla] condizione, se non con vantaggio, almeno senza danno della produzione». La stessa deve «trovar luogo nei comprensori di bonifica [cioè dove] ogni territorio il cui regime fondiario possa essere, con rilevante vantaggio economico e sociale, trasformato in guisa da accogliere una più intensa e produttiva coltura ed una più densa popolazione coltivatrice, in soddisfacenti forme di insediamento rurale. [Quindi] bonifiche di risanamento di terreni dissestati e malarici; bonifiche irrigue; bonifiche di colonizzazione […]; bonifiche di montagna, di collina, di pianura; bonifiche con albero o senza albero; con un alto grado di intensità fondiaria e di esercizio, con uno o altro indirizzo di produzione; tutte congiungendosi poi nella realtà dei più vari tipi misti».
È allora chiaro che Serpieri concepisce la bonifica integrale alla guisa di una particolare tipo di riforma agraria, da estendersi ovunque esista un territorio che possa essere oggetto di un miglioramento produttivo. Non solo quindi da realizzarsi in ristrette zone agricole, ma laddove l’Operatore pubblico intraveda la possibilità di elevare il benessere economico e sociale del mondo rurale e dell’intera popolazione presente. E ciò con agevolazioni creditizie per il proprietario terriero, inducendolo così a seguire con minori oneri la via “socialmente conveniente” (la più elevata produzione possibile) di massima utilità collettiva. Rimane comunque ferma la sua convinzione che qualora quella via d’utilità generale non venga rispettata da qualche proprietario, lo stato deve intervenire con l’espropriazione (indennizzata). Risulta evidente che qui l’esproprio, per Serpieri, assume un carattere selettivo e non più coercitivo per l’universo dei proprietari, ovvero il contrario delle leggi di riforma agraria. Con questo, l’esproprio costituisce un’azione non più generalizzata, ma rivolta soltanto verso chi non rispetta quel dato vincolo sociale.
Come è noto, Serpieri operò in maniera da realizzare la bonifica integrale nella misura più ampia possibile, soprattutto nel periodo 1929-’34 nelle vesti di Sottosegretario all’agricoltura e alle bonifiche. Mentre riuscì a promuovere in larga parte le opere pubbliche nei numerosi comprensori di bonifica previsti, ciò non avvenne per quelle di competenza privata che, di fatto, stentarono a decollare. Per questa ragione è altrettanto noto che Serpieri predispose un decreto di legge (n. 248 del 12/11/1934) per «assicurare l’integralità della bonifica», nel quale veniva minacciata in maniera più stringente rispetto alle norme previste nel T. U. del ‘33 l’espropriazione del fondo per i proprietari non ottemperanti i propri obblighi. Il decreto, approvato dalla Camera ma non dal Senato, fu l’ultimo atto di Serpieri a favore della bonifica. Prevalse il partito dei grandi proprietari fondiari, per cui lo stesso venne allontanato dalla carica. Non gli riuscì perciò di realizzare, se non in modesta parte, quel processo di sviluppo agricolo e di colonizzazione in cui fermamente credeva1.
Nonostante le difficoltà incontrate da Serpieri nella realizzazione della sua visione su un vasto territorio, anche nel dopo guerra continuò a credere fermamente che soltanto attraverso quel tipo d’intervento pubblico si potesse raggiungere miglioramenti produttivi veramente significativi capaci di stabilizzare sulla terra un numero elevato di lavoratori agricoli precari, fornendogli condizioni di vita dignitose, quindi in grado di preservare un alto grado di ruralità. Una convinzione, però, tutta impregnata di un ‘ruralismo’ che finiva per scontrarsi con una realtà politica profondamente diversa da quella istaurata dal fascismo e, soprattutto, con l’avvio della graduale apertura dell’economia nazionale al resto del mondo, cioè a dire la premessa necessaria all’intensa e rapida industrializzazione del paese. Infatti, l’eccesso di manodopera agricola - come tutti sanno - venne risolto a partire dagli anni ’50 con lo sviluppo dell’industria e del terziario. Il conseguente esodo di oltre 5 milioni di attivi agricoli nei vent’anni successivi, seguito da quasi altri 3 milioni negli anni seguenti, diede luogo a una profonda e traumatica trasformazione sociale del paese. Vi furono complessi problemi d’integrazione dei rilevanti flussi migratori interni di cui si è persa memoria della loro drammaticità. Così come si è perso memoria, in gran parte, della riforma agraria e della relativa questione agraria, delle lotte contadine e dei contrasti politico-sociali che quella riforma suscitò.
Merito del volume considerato è non solo quello di far conoscere al lettore spagnolo un periodo rilevante della nostra storia post guerra, ma soprattutto di rinverdire un evento la cui conoscenza non può disperdersi nel nulla, specie in un paese che tende a essere immemore del proprio passato.
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- 1. La questione Serperi la riassunse, in una relazione tenuta all’Accademia dei Geogofili nel 1934, in questi termini. Su una superficie di 2,1 milioni di ettari interessati a opere pubbliche di bonifica «ultimate o molto prossime al termine», quella parte che veramente riguarda la bonifica vera e propria attiene solo a 1,2 milioni di ettari. Di questo territorio, «dove le opere pubbliche sono terminate o prossime al termine, la situazione attuale si può sintetizzare così: in circa due terzi la trasformazione agraria è già più o meno avviata, nel residuo terzo essa non è neppure iniziata o avviata». Per Bandini ciò pare una stima ottimistica dato che ritiene che forse solo 220-250 mila ettari sono stati quelli sui quali si sono completate le opere di bonifica sia private che pubbliche.