Terra, capitale, lavoro e la ristrutturazione neoliberale dell’agricoltura

Terra, capitale, lavoro e la ristrutturazione neoliberale dell’agricoltura
a Sam Houston State University, Department of Sociology

Introduzione

Negli ultimi 120 anni di storia del capitalismo, la questione della relazione tra terra, capitale e lavoro è stata caratterizzata da un susseguirsi di periodi di equilibrio e crisi che ne hanno definito l’evoluzione. La critica marxista all’economia politica lascia pochi dubbi sulla contraddizione tra l’affermazione dell’ideologia borghese, che rinvia all’esistenza di un sistema basato sulla cooperazione e lo scambio mutualmente conveniente, e i processi disequilibranti di dominazione e sfruttamento generati dalle relazioni di mercato. Questa situazione di disequilibrio strutturale ha storicamente richiesto interventi di legittimazione del potere delle classi dominanti che hanno preso la forma sia di azioni socio-economiche (legittimazione materiale) sia di azioni a livello culturale e ideologico (legittimazione ideologica). In entrambi i casi si è trattato di tentativi per creare sistemi di egemonia, per cui l’ideologia e la politica delle classi dominanti erano condivise dalle classi subalterne. La ricerca e applicazione di giustificazioni a situazioni di disequilibrio e sfruttamento e il loro contenimento possono essere usati come chiavi di lettura del rapporto terra, capitale, lavoro che si e sviluppato nel XX secolo e in queste prime due decadi del XXI secolo.

Politiche di laissez-faire e lotte contadine

Il periodo del laissez-faire

Le lotte contadine tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, non solo in Italia ma anche a livello internazionale, hanno posto l’accento sulle contraddizioni e instabilità di un sistema basato sulla mercificazione del lavoro e della terra che vennero costituiti e interpretati come merci. In un contesto di politiche di laissez-faire, l’impossibilità di regolare il rapporto disequilibrato tra terra, capitale e lavoro ha richiesto, in quegli anni, azioni violente di repressioni politica da un lato e di espulsione fisica dall’altro. Per i contadini, sia italiani che di altri paesi, alla violenza degli eserciti e polizie nazionali si aggiunse la “scelta obbligata” dell’emigrazione. L’Età Giolittiana, che definisce gli anni antecedenti alla Prima Guerra Mondiale in Italia, fu incentrata su un progetto egemonico basato sul coinvolgimento delle nascenti forze socialiste nel sostegno di un governo che vide nella violenza fisica e in quella dell’emigrazione transoceanica la risposta alla mancata ridistribuzione della terra, alla concentrazione del capitale e della proprietà, e alla povertà che caratterizzavano le campagne. Simili esperimenti avevano placato contraddizioni dirompenti in altri paesi, come il Regno Unito, la Francia e la Germania, dove l’emigrazione verso le colonie fu usata per disporre dell’ingombrante presenza dei contadini e braccianti resi in soprannumero dall’evoluzione dei rapporti di produzione. Tutto questo si svolgeva in un contesto in cui il valore sociale della terra, come oggetto e soggetto del lavoro contadino, aumentava a dismisura. Scrivendo alla fine del secolo XIX, e delineando la politica agricola della social democrazia europea, Karl Kautsky (Kautsky, 2007) indicava l’importanza della presenza contadina nelle campagne non solo in termini di sviluppo economico e stabilità sociale ma, soprattutto, in termini della costruzione di alternative. Il contenimento dell’esercito industriale di riserva nelle campagne, sosteneva Kautsky, si rivelava come un elemento fondamentale per la crescita economica complessiva e rappresentava un punto di riflessione sull’importanza del movimento contadino e bracciantile all’interno del movimento socialista di quegli anni.
Le difficoltà del laissez-faire di controllare le contraddizioni che si sviluppavano all’interno di un sistema che proclamava la possibilità di una crescita socio-economica stabile, ma si basava sull’appropriazione privata del profitto, erano esacerbate dalla crescita di monopoli (concentrazione e centralizzazione del capitale), sia nell’industria come in agricoltura, e dalla concomitante accentuazione di sistemi protezionistici. Contraddicendo i dettami del laissez-faire, la struttura dell’economia mondiale si era andata sviluppando in maniera tale che le condizioni definite dalla teoria economica erano altamente differenti da quelle che si riscontravano nei fatti. In maniera paradossale, gli interventi necessari per controllare lo sviluppo socio-economico avevano molto poco a che vedere con il libero (autonomo) funzionamento della domanda e dell’offerta. Teorizzata da John Dewey nel suo saggio sul liberalismo (Dewey, 2000), la crisi del laissez-faire era motivata non solo dalla crescita dei monopoli e del protezionismo, ma anche dalla incapacità del sistema socio-politico di creare condizioni adeguate per la partecipazione dei cittadini al così detto “processo di concorrenza.” Troppi gruppi –  tra cui i contadini e gli operai  – erano visibilmente emarginati e sfruttati. Nella sua analisi del periodo, Michel Foucault parla di una crisi di governabilità dello Stato liberale (Foucalt, 1984).

Gli anni tra le due guerre

Karl Polanyi (Polanyi, 2001) pone l’accento sui problemi del liberalismo tra le due guerre in termini non solo della “falsità” del concetto di libero mercato, ma anche dei limiti allo sviluppo economico collegati con l’esistenza del gold standard, ossia del collegamento diretto tra la quantità di moneta in circolazione nel paese e le riserve d’oro disponibili. Per ciò che riguarda la veridicità del libero mercato, Polanyi denunzia la falsità dell’idea che il mercato sia un prodotto naturale (stato di natura). I mercati di qualsiasi tipo, afferma, non possono esistere senza l’intervento costante e costruttivo dello stato che ne definisce i parametri e le funzioni. Allo stesso tempo, le merci fondamentali per il sistema, quali terra, capitale e lavoro, non esistono come merci allo stato naturale ma sono socialmente costruite all’interno del capitalismo. Lo stato e il sistema economico costruiscono, Polanyi conclude, quelle strutture che la teoria del laissez-faire  definisce invece come naturali. Per ciò che riguarda il gold standard –sistema che fu definitivamente abbandonato dopo la Seconda Guerra Mondiale – Polanyi dimostra come non permettesse investimenti e spese statali superiori alla quantità disponibile d’oro. In effetti e per evitare situazioni economiche insostenibili, come l’inflazione devastante del primo dopoguerra in Germania, questo era un limite invalicabile. Pertanto, processi di legittimazione materiale che si incentravano su azioni di redistribuzione della ricchezza erano virtualmente impossibili da attuarsi. In una situazione di alta conflittualità sociale e di crescita dei movimenti socialisti nelle città e nelle campagne, il controllo sociale attraverso la violenza esplicita emerse come la risposta più praticabile del capitale alle richieste del lavoro in diversi paesi, come in Italia (Fascismo), Germania (Nazismo) e Spagna (Franchismo). Le lotte contadine e bracciantili che avevano caratterizzato le campagne italiane immediatamente dopo la prima guerra mondiale furono spente attraverso questo tipo di violenza.

La fase della modernizzazione

Il dopoguerra e il Fordismo

Alla fine del secondo conflitto mondiale, la relazione capitale lavoro assunse una dimensione nuova. Per la prima volta nella storia recente del capitalismo, la forza del movimento operaio e delle sue espressioni politiche (partiti della sinistra e sindacati) era arrivata ad un punto tale da poter condizionare le scelte del capitale sia a livello industriale che agrario. Come teorizza Wolfgang Streeck (2014), nel rapporto capitale lavoro, il potere è tendenzialmente sempre a favore del capitale, soprattutto in momenti di crisi economica. Tuttavia, nel dopoguerra questa condizione immanente del capitalismo si verificò in maniera molto alterata per almeno tre motivi. Primo, la Grande Depressione degli anni trenta e la caduta della domanda che l’aveva caratterizzata rappresentavano situazioni da evitare ad ogni costo per le classi impresariali. Secondo, le esperienze totalitarie dell’interguerra, benché dirette al supporto del grande capitale, si rivelarono nefaste per la crescita complessiva del capitalismo e una barriera alla crescita spaziale (ad esempio, la globalizzazione) delle relazioni di produzione. Terzo, la guerra e la resistenza avevano creato una forza socialista-comunista di grande spessore nel mondo occidentale e avevano cementato la forza del blocco sovietico a livello globale.
Ristrutturato sotto l’egida della teoria della modernizzazione, il rapporto terra capitale lavoro si riconfigurava attraverso l’introduzione di politiche economiche Keynesiane, la ricerca di un equilibrio intrasettoriale (promozione dello sviluppo sia nell’industria che nell’agricoltura) e del pieno impiego e, soprattutto, attraverso la pratica sull’intervento dello stato per regolare il capitalismo (da qui il nome di capitalismo regolato) e controllare i suoi aspetti negativi. Conosciuti con il nome di Fordismo, gli anni tra il 1945 e il 1975 rappresentarono un periodo di grande crescita economica – l’economista francese Thomas Piketty (Piketty, 2013) li definisce “i gloriosi trenta” – in cui il rapporto capitale lavoro assunse una dimensione a favore del lavoro che non si era registrata prima d’ora. Benché forti contraddizioni rimanessero e la distanza socio-economica tra aree sviluppate e in via di sviluppo non diminuisse, i processi di intervento dello stato crearono condizioni positive per le classi subalterne. In agricoltura, processi di ridistribuzione della terra (in Italia come in altri paesi si ebbe la riforma agraria) investimenti infrastrutturali e politiche a sostegno del reddito contadino ebbero degli effetti importanti. Simultaneamente, la crescita dell’industria creò processi di emigrazione dalla campagna alla città che ridussero drasticamente il numero di lavoratori agricoli. A livello politico-culturale, accesso e proprietà della terra vennero riconosciuti non solo come aspirazioni ma soprattutto come diritti dei lavoratori agricoli. Vista da teorici del Funzionalismo come una via per la risoluzione della conflittualità capitale-lavoro, questi processi di ridistribuzione di risorse si tradussero in atti di legittimazione del sistema che vedeva nell’idea della modernità la soluzione ai problemi di “arretratezza” della campagne e del settore agricolo.

La svolta neoliberista

Gli anni settanta videro la crisi del sistema Fordista. Il sociologo statunitense James O’Connor eloquentemente teorizzava la crisi fiscale dello stato Fordista (O’Connor, 1973) mentre allo stesso tempo Jürgen Habermas individuava nell’impossibilità dello stato di correggere la crisi il limite alla legittimazione del capitalismo regolato (Habermas, 1973). In maniera più specifica, il progetto di modernizzazione e il suo produttivismo avevano creato eccedenze sia a livello di prodotti che di manodopera e avevano innescato una crisi ambientale che non trovava soluzioni disponibili. L’idea di una struttura agro-alimentare che produceva molto e a basso costo e che avrebbe dovuto nutrire le grandi masse urbano-industriali si era trasformata progressivamente in un sistema che danneggiava l’ambiente e la salute di queste popolazioni che, mai come prima, cominciarono a soffrire di nuovi problemi di salute di massa (tra i più importanti: i disturbi cardio-vascolari; quelli legati all’aumento di peso e i tumori). Questo sistema fatto di eccedenze, alti costi e danni fisici e ambientali riceveva critiche sia da sinistra che da destra. La critica al Fordismo delle forze di sinistra si incentrava sulla sua dimensione di classe, sui suoi sprechi e sul progetto di dominazione politico-culturale che lo caratterizzava. La critica dei gruppi conservatori, paradossalmente, si incentrava su molte delle stesse obiezioni e in particolare sull’inefficienza e corruzione degli apparati dello stato e gli sprechi che ne derivavano. Mentre la sinistra non riusciva a proporre un’alternativa unificante, la critica delle forze conservative si raggruppava intorno al progetto del Neoliberalismo.

La teoria del Neoliberalismo

Teorizzato negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, il Neoliberalismo rifiuta non solo la politiche e teorie keynesiane ma anche l’idea classica del laissez-faire. Il Neoliberalismo non è il liberismo classico. Per i neoliberisti la concorrenza di mercato e il libero funzionamento di quest’ultimo rappresentano le soluzioni ai problemi generati dal capitalismo regolato. Lo stato deve intervenire non per regolare il mercato, ma per creare le condizioni per il suo libero funzionamento. In questa visione, il processo di concorrenza basato sull’individuo libero di agire e responsabile delle sue azioni porta alla allocazione più efficiente delle risorse e a un sistema definito come veramente meritocratico. Pertanto, le differenze di classe invece di essere problemi sono i risultati benefici della concorrenza che permettono di distinguere i valori reali nell’economia e società. In questo sistema, ogni individuo si trasforma in capitale umano che deve essere valorizzato attraverso il mercato. La responsabilità individuale si sostituisce a quella collettiva patrocinata dallo stato. Attaccando le politiche di aiuti all’agricoltura e ai produttori familiari, pensatori neoliberali come Friedman M. e A. F. Hayek sostennero la validità dell’apertura dei mercati agricoli e della terra. Nel loro schema, le persone sono ridotte a semplici produttori e consumatori il cui rapporto trova il giusto equilibrio nell’equilibrio di mercato.

Neoliberalismo in agricoltura

Nel Neoliberalismo, gli agricoltori e le loro famiglie diventano produttori che devono adottare la razionalità del mercato e abbandonare altre forme di razionalità che storicamente hanno fatto parte dell’agricoltura familiare e contadina o che hanno alimentato visioni alternative. Allo stesso tempo, la terra diventa non solo un fattore di produzione ma, soprattutto, un valore di mercato che trova nella sua valenza finanziaria la dimensione fondamentale. Rispondendo alla logica della finanziarizzazione, la terra è vista nell’ottica di “breve-periodo” dove il suo valore è dato dalla quotazione nel mercato azionario. Rispondendo alla medesima logica, i cittadini si trasformano da esseri umani, sociali e politici in consumatori. La logica del consumo diventa l’unica forma di razionalità praticabile non solo in ambiti commerciali ma anche in quelli etici e di costruzione di alternative. Da una parte, la definizione del comportamento etico si trasferisce dalla sfera pubblica a quella privata e si sottomette al sistema di mercato. L’etica si traduce in buon comportamento nel mercato. Pertanto, nella migliore delle ipotesi, l’etica nel sistema agro-alimentare significa che le imprese si comportano come “buone” imprese di mercato. A livello di alternative, queste sono anch’esse ricercate nell’abito del mercato abbandonando di fatto altre maniere di generare produzione e socializzarla. Il mercato, in altre parole, diventa allo stesso tempo elemento dominante e dimensione nella quale si sviluppano alternative.

Conclusioni

Se nella teoria neoliberale terra, capitale e lavoro sono per definizione merci che esistono allo stato di natura, la storia dimostra che la loro costruzione sociale non può essere ridotta a una questione di neutralità e naturalezza. Come sottolineato già oltre settanta anni fa da Karl Polanyi, l’idea del mercato che funziona liberamente è semplicemente un mito. Tuttavia, sono queste le dimensioni ideologiche che oggi legittimano il dominio del sistema di libero mercato e che vengono accettate a livello politico e ideologico. Discutendo questo dominio, da varie parti1 si sottolinea come il potere di questa teoria non solo non ha alternative che possano contraddirlo ma, addirittura, condizioni le proposte che vorrebbero opporsi ad essa. Molti degli approcci alternativi, infatti, si basano o sull’iniziativa degli individui trasformati in consumatori o cercano soluzioni a problemi strutturali con iniziative individuali. Nonostante la loro grande popolarità e alcuni successi, tutte queste “alternative,” dalla agricoltura civica, alle organizzazioni dei consumatori, al comportamento “riflessivo,” non alterano i rapporti di mercato che sono al fondamento del potere e legittimazione del Neoliberalismo. Soprattutto queste proposte rimangono parallele al dominio del capitale globale e allo sfruttamento globale del lavoro. Pertanto la questione della possibilità di creare un sistema di mercato che possa risolvere le sue stesse contradizioni rimane, congiuntamente a un ritorno al Fordismo (Neo-Fordismo o Post-Keneysianismo), come la “migliore” prospettiva disponibile.
Rimane dubbia inoltre la fattibilità di proposte che si incentrano su un ritorno a sistemi precapitalistici come quelle associate al progetto di Via Campesina. In un sistema in cui grandi masse popolari sia nel Sud globale come anche nel Nord sono espropriate e distanti dalla terra, la problematicità di progetti che rivendicano un “ritorno alla terra” e forme di approvvigionamento diretto richiedono, per lo meno, approfondimenti importanti. In questo quadro rimangono i tentativi che, partendo dal basso, tentano di riqualificare l’agricoltura familiare, il lavoro agricolo e la proprietà della terra.  E’ proprio la forza di questi movimenti che pone, oggi più che mai, al centro dell’attenzione la questione della ricerca di una ideologia e pratiche che possano contrapporsi al Neoliberalismo e al dominio del mercato. Non è difficile vedere come sia attraverso questa ricerca che la strada verso sistemi realmente alternativi possa essere aperta. In particolare, ci sembra importante sottolineare la rilevanza che ideologie e pratiche che sostengano processi di de-mercificazione possano assumere in questa ricerca.

Riferimenti bibliografici

  • Block F. e Somers M.S. (2014), The Power of Market Fundamentalism. Cambridge, MA: Harvard University Press

  • Brown W. (2015), Undoing the Demos, Neoliberalism’s Stealth Revolution, New York: Zone Books

  • Crouch C. (2011), The Strange Non-Death of Neoliberalism. London: Verso

  • Dewey J. (2000) [1936], Liberalism and Social Action, New York, Prometheus Books. Traduzione Italiana: Liberalismo e Azione Sociale, 1948, Firenze: La Nuova Italia

  • Foucault M. (1984), Naissance de la Biopolitique, Paris: de Seuil/Gallimard. Traduzione Italiana: Nascita della Biopolitica. 2005, Milano: Feltrinelli

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  • O’Connor J. (1973), The Fiscal Crisis of the State. New York: St. Martin’s Press. Traduzione Italiana: La Crisi Fiscale dello Statto. 1979. Torino: Einaudi

  • Piketty T. (2013), Le Capital au XXIe siècle. Paris: Seui. Traduzione Italiana: Il Capitale nel XXI Secolo, 2014, Milano: Bompiani

  • Polanyi K. (2001) [1944], The Great Transformation, Boston: Beacon Press. Traduzione Italiana: La Grande Trasformazione. 1974. Torino: Einaudi

  • Streeck W. (2014), Buying Time, The Delayed Crisis of Democratic Capitalism. New York and London: Verso

  • 1. Si veda in proposito Crouch (2011), Block, e Somers (2014) e Brown 2015.
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