Il cedro: un patrimonio dell’agricoltura familiare calabrese

Il cedro: un patrimonio dell’agricoltura familiare calabrese
a Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

Introduzione

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2014 Anno internazionale dell’agricoltura familiare (Iyff). Eppure, come afferma Van der Ploeg (2013), l’agricoltura familiare è uno di quei fenomeni che le società occidentali trovano sempre più difficile da comprendere.
Pur affermandosi come la pratica agricola prevalente su scala mondiale, non esiste, in letteratura, una definizione condivisa del concetto di ‘agricoltura familiare’, capace di cogliere il fenomeno astraendo dalla sua complessità empirica spazio-temporale. La categoria è stata costruita, essenzialmente, attraverso l’individuazione di elementi caratterizzanti, riferiti al controllo ed alla gestione dei più importanti fattori produttivi (terra e lavoro) (Kasimis e Papadopoulos, 1997; Garner e de la O Campos, 2014; Lowder, Skoet e Singh, 2014).
I limiti di questa definizione derivano dall’interpretazione insita nel paradigma novecentesco, secondo la quale questa modalità di ‘fare’ agricoltura sarebbe stata destinata a scomparire sotto la spinta dei processi di modernizzazione. La sua permanenza (Calus e Lauwers, 2009) ha indotto il dibattito ad ampliare la riflessione, tenendo in conto l’eterogeneità delle forme empiriche di esistenza (Davidova e Thomson, 2014). Così la Fao (2014) fa esplicito riferimento alle funzioni economiche, ambientali, sociali e culturali.
Intento di questo articolo è illustrare brevemente una delle molteplici agricolture familiari, con riferimento alla coltivazione del cedro (Citrus Medica L. cv. Diamante), un agrume prodotto in pochissime aree del mondo: oggi, la quasi totalità della produzione italiana della varietà “Liscia di Diamante” proviene dalla Riviera dei Cedri, nella fascia tirrenica settentrionale calabrese, con una quasi unica concentrazione nel territorio di Santa Maria del Cedro. Verranno presentati i primi risultati di una indagine empirica ancora in corso, che riguarda l’area territoriale della Riviera dei Cedri. L’indagine si avvale di una metodologia non standardizzata, di tipo qualitativo, con utilizzo di tecniche diversificate (interviste in profondità, colloqui informali). I dati sono stati raccolti attraverso la realizzazione di undici interviste, un focus group ed innumerevoli colloqui informali con gli attori sociali che animano la filiera del cedro (produttori, trasformatori, organizzazioni di categoria).

Il cedro: origine ed utilizzo

Pur considerato un agrume minore, il cedro è ritenuto, assieme al pomelo ed al mandarino, una delle tre specie di agrumi da cui derivano tutti i membri del genere oggi conosciuti. È stato il primo agrume ad essere giunto e coltivato nel Mediterraneo: ritenuto non commestibile, era frutto raro, considerato prezioso per le sue qualità curative, per il suo valore simbolico e per il suo intenso profumo (Tolkowsky, 1938).
La sua diffusione nel bacino del Mediterraneo avvenne per mediazione culturale ebraica. Il frutto, chiamato etrog (plurale etrogim), infatti, viene usato a scopo rituale durante la festa autunnale del Sukkot, una delle più importanti ricorrenze dell’ebraismo. Gli elementi rituali della festa sono dati da un passo del Levitico (23: 39-40): “Dunque il quindici del settimo mese, raccolti che abbiate tutti i frutti della vostra terra, celebrerete per sette giorni la festa del Signore e nell’ottavo giorno ci sarà riposo. Nel primo giorno prenderete i frutti dell’albero più bello [perì ‘etz adar], dei rami di palma [lulàv] e dell’albero più frondoso [hadas], dei salici del torrente [haravà] e vi rallegrerete dinanzi al Signore Dio vostro (…). Celebrerete questa solennità al settimo mese e per sette giorni abiterete nelle capanne”. Il passo del Levitico non contiene alcun riferimento esplicito al cedro, ma la tradizione rabbinica ha individuato proprio in esso il frutto dell’albero più bello. Nella festa del Sukkot, il cedro occupa un posto speciale - unico frutto - fra le quattro specie indicate (un ramo di palma, due di salice e tre di mirto), che, nel loro insieme, compongono l’unità dell’Arbah Minim. Il fascio di palma, mirto e salice viene tenuto nella mano destra, il frutto di cedro nella mano sinistra. Durante il rituale, l’Arbah Minim, tenuto con entrambe le mani, viene delicatamente agitato in sei direzioni (punti cardinali, in alto e in basso), come segno propiziatorio di fertilità e pioggia.
È proprio la sua importanza nell’osservanza religiosa ebraica che definì tempi di diffusione e modi di coltivazione nel Mediterraneo (Spagna, Corfù, Corsica, Italia, Marocco, Tunisia), seguendo le vicende storiche legate alla diaspora, e modificando il paesaggio agrario (Isaac, 1959; Tolkowsky, 1938). L’Italia, ed il Mezzogiorno, è stata fra le fonti più importanti per l’approvvigionamento.
L’utilizzo industriale del cedro (scorza e polpa) diventa predominante nella prima metà del XX secolo. Con lo sviluppo dei processi di raffinazione dello zucchero, e di conseguente industrializzazione della canditura, che vede, a cavallo fra Ottocento e Novecento, il suo più intenso sviluppo negli Stati Uniti (Hartel e Hartel, 2014), il cedro diventa materia prima del comparto agroalimentare: preparazione di canditi, estrazione dell’olio essenziale per la preparazione di acqua, sciroppo ed essenza di cedro; produzione della cedrata, che ha come base l’estratto alcolico delle bucce dei frutti. L’innalzamento della domanda internazionale, combinato al declino della coltura in altre regioni italiane, provoca un aumento consequenziale dei prezzi che spinge verso l’estensione della coltura in tutto l’Alto Tirreno cosentino.
Il costante incremento registrato dagli anni Cinquanta agli anni Settanta arriva però ad una battuta d’arresto. La concorrenza da parte di altre aree di produzione (Portorico, Grecia, Marocco, Corsica, Giappone) e l’abbassamento dei prezzi rende più vantaggiosa, a fronte dello sviluppo turistico, la conversione dei terreni agricoli in edificabili. Da qui una contrazione di ettari investiti (da una superficie di 800 ha, a metà del XX secolo, a 60 – 70 ha) e di prodotto (da quasi 90mila negli anni Cinquanta a meno di mille nel 2012) (A.A. V.V., 2009) su tutta la Riviera dei Cedri.
Al momento, il prodotto continua ad essere per lo più destinato all’industria alimentare, ma da qualche decennio alimenta il circuito locale, articolato su piccole aziende di trasformazione (produzione di estratto, liquore, marmellate, bevande, sciroppi, pasticceria). Sono in corso ricerche finalizzate ad indagare i possibili effetti terapeutici di sostanze naturali estratte dalla cultivar locale, in particolare quelli ipoglicemici e anticolinesterasici relativamente al diabete e al morbo di Alzheimer (Conforti et al., 2007).

Il cedro: commercio, lavoro e cura

Le modalità di coltivazione e l’organizzazione della produzione sono strategicamente orientate a rispondere alle esigenze di qualità provenienti dal mercato, che combina filiere lunghe e filiere corte. Da una parte, prevalentemente l’industria agroalimentare (cedro candito e bibite analcoliche), dove è l’interesse verso la quantità a dominare e dove l’andamento dei prezzi non consente di coprire nel tempo i costi di produzione o allargare la scala. La cultivar locale è altamente apprezzata per la commercializzazione del frutto “a coppa”, destinato in gran parte alla canditura. Il “piccolo verde”, ossia l’insieme dei cedri migliori, spunta il prezzo più alto: mantiene l’intenso colore verde alla fine dei processi di canditura e contiene in misura elevata gli oli essenziali che danno l’aroma alle bibite. I frutti rimanenti, che digradano verso il giallo, sono prevalentemente considerati scarto dall’industria, e vengono di conseguenza pagati ad un prezzo inferiore.
Il secondo canale di commercializzazione è legato alla festa autunnale del Sukkot. La minore quantità di prodotto assorbito è controbilanciata dal più alto valore aggiunto, strettamente legato a particolari caratteristiche. Ricadendo, infatti, nella categoria degli oggetti rituali comandati (tashmishey mitzvah), il cedro deve possedere specifiche qualità che lo rendono kosher, cioè utilizzabile per la festa del Sukkot, e mehudar, cioè esteticamente ‘bello’. Non deve provenire da una pianta innestata, né deve avere macchie, graffi o imperfezioni. La cultivar locale ha come specificità quella di durare senza acqua fino a quattro mesi e perdere solo una quantità minima del suo volume. Ciò fa sì che, nonostante i tempi di trasporto verso le comunità ebraiche dislocate nel mondo, continui a rimanere perfetto ed essere ritualmente accettabile.
Data l’alta qualità richiesta, la coltura si caratterizza per essere ad alta intensità di lavoro. La pianta del cedro è particolarmente delicata ed estremamente sensibile agli sbalzi di temperatura dal momento che, al contrario di altri agrumi, la fioritura avviene più volte durante l’anno. Le operazioni che i cedricoltori faticosamente realizzano sulle piante aiuta a riprodurre il microclima necessario alla sua crescita. Con la potatura si regola la crescita delle ramificazioni, in modo che la pianta sia protetta dal freddo invernale, ma abbia la quantità adeguata di luce ed aria; che il frutto sia abbastanza in ombra da non essere macchiato dal sole. La complessa e continua cura durante la crescita evita che il frutto sia danneggiato dal contatto con i rami, le foglie, le lunghe spine o dallo sfregamento con altri frutti. Anche l’irrigazione deve essere continuamente monitorata e, a fine inverno, è necessario proteggere le cedriere con operazioni di copertura per non lasciare la pianta preda di possibili gelate. Si tratta di una lavoro molto faticoso, sia per il ridotto sviluppo in altezza della pianta, sia per la difficoltà di meccanizzare le operazioni colturali: la maggior parte delle operazioni viene effettuata manualmente ed in ginocchio.
Si comprende come le innovazioni introdotte abbiano avuto come finalità principale quella di diminuire il carico di lavoro di alcune operazioni, mantenendo comunque una particolare attenzione alla protezione delle piante per avere un prodotto di qualità. Si tende ad ampliare le corsie di servizio per aumentare la distanza fra i filari, così da consentire l’uso di mezzi meccanici.
I materiali naturali utilizzati in passato per la copertura delle cedriere (stuoie di canne e legacci di salice o di ginestra) tendono ad essere rimpiazzati da reti antigrandine e frangivento in polietilene ombreggianti, più maneggiabili e riutilizzabili nel tempo. Sono state introdotte nuove tecniche di irrigazione (metodi a “a pioggia” o “a goccia”).
La produzione di cedro rimane, comunque, una coltivazione labour-intensive. In passato, la manodopera era esclusivamente familiare, e partecipava all’attività produttiva seguendo il ciclo di trasformazione della famiglia come unità di produzione e consumo. A causa dei processi di modernizzazione e di urbanizzazione, oltre che al difficile ricambio generazionale diretto, è sempre più frequente il ricorso a manodopera esterna, soprattutto nei momenti di maggior carico - come, per esempio, la copertura e scopertura delle cedriere o la raccolta del prodotto – e man mano che l’azienda tende ad orientarsi verso la specializzazione produttiva. Tuttavia, un ruolo rilevante nella riproduzione della coltura continua ad essere giocato dalla rete parentale allargata e dalla rete relazionale locale.
La necessità di cura è inevitabilmente orientata a rispondere alla domanda di mercato, soprattutto in relazione alle pressioni provenienti dalla filiera lunga. Evidentemente, essendo la produzione esclusivamente orientata alla commercializzazione, il livello dei prezzi definisce non solo il margine e la scala entro cui continua ad essere razionalmente conveniente coltivare i cedri per la realizzazione di un reddito ritenuto adeguato, ma anche la direzione della pratica aziendale concreta.
Tuttavia, al di là della filiera lunga, la ricerca di redditività orienta le aziende verso altri canali di commercializzazione, che assumono forma specifica: da una parte l’antico canale del cedro rituale, dall’altra il più recente canale della trasformazione locale.
Sul primo versante, come abbiamo accennato, il cedro non deve provenire da una pianta innestata, qualità difficilmente individuabile attraverso il frutto, certificata per questo dalla presenza di un rabbino al momento della raccolta, ma anche – nel corso del tempo – sulla base del rapporto di fiducia con i coltivatori: non è raro che ciò si dia come un elemento essenziale della relazione anche laddove opera il ricambio generazionale. In questo caso, la riproduzione delle piante non avviene per innesto, metodo che le rende meno longeve e più soggette a malattie, ma per talea, rendendo possibile la riproduzione della varietà. Tale pratica ha come risultato generale quello di permettere il pieno controllo delle risorse genetiche.
Sul secondo versante, di più recente sviluppo, la vendita del prodotto alimenta un circuito locale di trasformazione (preparazione di estratto, liquori, crema di cedro, cedrate, sciroppi), articolato su piccole aziende a gestione familiare. Le attività economiche intorno al cedro hanno buone potenzialità di consolidamento anche grazie alla rinnovata attenzione verso questa coltura: è nata l’Accademia Internazionale del Cedro [link], il Museo del Cedro, il Consorzio del Cedro [link] con la La via del Cedro di Calabria, un’azione di promozione combinata al percorso archeologico del sito della città magnogreca di Laos. Santa Maria del Cedro è entrata nella rete delle città che organizzano gli eventi legati alla “Giornata europea della cultura ebraica”.

La cedricoltura nella strategia di riproduzione dell’agricoltura familiare

La coltivazione del cedro è principalmente articolata su piccole imprese a gestione familiare. La risorsa produttiva centrale – la terra – è di proprietà, trasmessa di generazione in generazione, con inevitabili processi di spezzettamento della proprietà.
Non essendo il cedro un prodotto alimentare da utilizzare per l’autoconsumo, la sua coltivazione ha tradizionalmente rappresentato una strategia di diversificazione produttiva finalizzata ad accedere ai circuiti monetari. Anche se la tendenza è orientata alla specializzazione produttiva, non è generalmente praticata come coltura esclusiva: mantenendo vincoli stretti con il sistema agricolo familiare, ha la funzione di innalzare l’economicità dell’azienda.
Ciò spiega l’elevata diffusione, e anche l’estrema frammentazione, della coltura. Dai dati forniti dai testimoni privilegiati nel corso della ricerca sul campo emerge come la superfice complessiva di coltivazione nella Riviera dei Cedri si attesti sui 60-70 ettari, con una produzione di poco più di 5mila quintali; in pochissimi casi (3-4 aziende) la dimensione aziendale arriva a 10 ettari, attestandosi al di sotto di un ettaro per le restanti aziende.
Non sono soltanto le due variabili appena prese in considerazione (terra e lavoro) a collocare la cedricoltura nell’alveo dell’agricoltura familiare, ma la caratterizzazione di quello che Van der Ploeg (2006) definisce ‘stile aziendale’ connesso al modo di produrre contadino. Essenzialmente qualificato dallo stretto legame esistente fra produzione e riproduzione, esso implica un modo di ‘fare’ agricoltura che tiene in considerazione, fra le altre cose, il rapporto con la natura viva, il contesto locale, i rapporti sociali, la storia.
La specificità del prodotto ne fa un sistema fortemente radicato in quella che Mendras (1967) chiama art de la localité, non solo in termini ambientali, ma più generalmente sociali. Ciò è in primo luogo determinato dal fatto che l’unità di coltivazione non è la singola pianta di cedro, ma l’intera cedriera, il che significa che la gestione è finalizzata ad assicurare risultati produttivi duraturi, essendo l’investimento, soprattutto in tempo e lavoro, particolarmente elevato. Da qui la necessità di mantenere il microclima ed aver costantemente cura delle piante, che iniziano a fruttificare dopo qualche anno. Come dice un nostro intervistato, “perché una pianta di cedro, per portarla a produrre nei cinque anni, c’è tutto un lavoro, tecniche, cioè l’intelaiatura che deve essere fatta”.
Questa capacità strategica dipende da una conoscenza produttiva complessa e dettagliata, un savoir faire applicato nonostante l’introduzione di mezzi chimici e meccanici e nonostante i cambiamenti ambientali. Si tratta, per esempio, di proteggere le piante in modo da far fronte ad eventuali sbalzi di temperatura; irrigare per mantenere l’umidità adeguata, evitando però di far marcire le radici; potare in un certo modo per avere la migliore – e non necessariamente la massima - fioritura. A riprova, il fatto che il tentativo di reimpiantare il cedro sulle rive del lago di Garda non ha prodotto i risultati sperati: i frutti non riuscivano a sviluppare la quantità necessaria di olio essenziale (Mannucci, 2014).

Considerazioni conclusive

Crediamo non sia esagerato affermare che la coltura del cedro rappresenti un patrimonio culturale, storico e religioso. È frutto di quello che Bevilacqua (s.d.) definisce “cosmopolitismo delle campagne” italiane, luogo di sperimentazione e di diffusione del materiale genetico di tre continenti, selezionato e tramandato dall’oscuro – più spesso oscurato - lavoro dei contadini.
La continuità di questo patrimonio, e delle relazioni cosmopolite che ne accompagnano la storia, si deve all’agricoltura familiare. Come evidenzia Van der Ploeg (2013), tale modalità di fare agricoltura supera la semplice identificazione con terra e lavoro: rappresenta un legame fra passato, presente e futuro, luogo di accumulazione di esperienze, di apprendimento e di trasmissione della conoscenza.

Riferimenti bibliografici

  • A.A. V.V. (2009), Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, Assessorato Urbanistica e Governo del Territorio, Provincia di Cosenza, [pdf]

  • Bevilacqua P. (S.d.), Agricoltura. Campagne cosmopolite, [pdf]

  • Calus M. e Lauwers, L. (2009), Persistence of family farming, learning from its dynamics, paper presentato al 111 Eaae-Iaae Seminar ‘Small Farms: decline or persistence’, University of Kent, Canterbury, UK, 26th-27th June 2009

  • Conforti F. et al. (2007), In vitro activities of Citrus medica L. cv. Diamante (Diamante citron) relevant to treatment of diabetes and Alzheimer’s disease, Phytother Research, vol. 21, n. 5

  • Davidova S. e Thomson, K. (2014), Family farming in Europe: challenges and prospects. In-depth analysis, [link]

  • FAO (2014), The State of Food and Agriculture, Fao, Roma

  • Garner E. e de la O Campos, A. P. (2014), Identifying the “family farm”. An informal discussion of the concepts and definitions, Esa Working Paper, n. 14-10

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  • Isaac E. (1959), The citron in the Mediterranean: a study in religious influences, Economic Geography, vol. 35, n. 1

  • Kasimis C. e Papadopoulos, A. G. (1997), Family farming and capitalist development in Greek agriculture: a critical review of the literature, Sociologia Ruralis, vol. 37, n. 2

  • Lowder S. K., Skoet J. e Singh, S. (2014), What do we really know about the number and distribution of farms, family farms and farmland worldwide? Background paper for The State of Food and Agriculture 2014, Esa Working Paper, n. 14-02

  • Mannucci E. (2014), Salò. Le virtù dei cedri e di chi li ha trasformati in bibita, Corriere della sera – Sette, n. 51

  • Mendras H. (1967), La fin des paysans, innovations et changement dans l’agriculture française

  • Paris: Sedeis

  • Ploeg van der J.D. (2006), Oltre la modernizzazione, Rubbettino, Soveria Mannelli

  • Ploeg van der J.D. (2013), Ten qualities of family farm, Leisa India, vol. 15, n. 4 [link]

  • Tolkowsky, S. (1938), Hesperides. A history of the culture and use of citrus fruits, John Bale, Sons & Curnow, Ltd., London

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