Il peso dell’obesità nei paesi in via di sviluppo

Il peso dell’obesità nei paesi in via di sviluppo

 

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Adattato e tradotto da Sara Capacci (Università di Bologna) dall’articolo originale di Schmidhuber, J. & Shetty, P. (2005) “The nutrition transition to 2030. Why developing countries are likely to bear the major burden.” Acta Agriculturae Scand Section C – Food Economics, 2, 150-166.

Cambiamenti nell’apporto calorico complessivo della dieta

Si definisce “transizione nutrizionale” in termini generali un mutamento nei livelli di assunzione media pro capite di calorie. Negli ultimi 40 anni tale transizione si è manifestata in una trasformazione della dieta media verso livelli calorici più elevati.
Da un lato, all’inizio degli anni ’60 l’intero mondo in via di sviluppo – con poche eccezioni – soffriva di un sostanziale deficit calorico, con sottonutrizione cronica e casi frequenti di vere e proprie carestie. Molti paesi sviluppati, al contrario, stavano già raggiungendo, se non anche eccedendo, la soglia delle 3000 chilocalorie pro capite al giorno (con differenze sostanziali tra paese e paese).
Gli ultimi tre decenni invece hanno portato un cambiamento radicale nello stato nutrizionale di molti paesi in via di sviluppo. Il consumo energetico medio è cresciuto rapidamente in gran parte dell’Estremo Oriente, dell’America Latina, del Medio Oriente e del Nord Africa.
Alla fine degli anni ’90 il quadro piuttosto omogeneo degli scarsi livelli energetici e della fame degli anni ’60 è cambiato drasticamente. La malnutrizione era ormai scesa sotto il 10% in tutte le principali aree in via di sviluppo, fatta eccezione per l’Africa sub-Sahariana e alcuni paesi dell’Asia meridionale.
Tuttavia, al di fuori delle aree ancora in difficoltà, la popolazione dei paesi in più rapido sviluppo ha cominciato a sperimentare le conseguenze negative di un’offerta calorica eccessiva con un aumento importante dei casi di obesità. E ora, con la sperequazione nelle distribuzione del reddito che caratterizza la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, la fame e l’obesità si trovano a coesistere nello stesso paese o addirittura nella stessa regione, delineando in maniera sempre più evidente un doppio volto della malnutrizione.
La transizione nutrizionale è destinata a continuare a passo veloce nei prossimi decenni. La rapidità della transizione nelle abitudini alimentari e nello stile di vita, e con essi l’incidenza del sovrappeso e dell’obesità potranno addirittura accentuarsi. Un numero crescente di paesi si assesterà ai livelli di 2700 chilocalorie pro capite e oltre nei prossimi 30 anni. In media, i consumatori dei paesi in via di sviluppo avranno a disposizione quasi 3000 chilocalorie al giorno. Il numero e l’incidenza di persone cronicamente sottonutrite continuerà a decrescere; si stima che entro il 2030 solo il 6% della popolazione dei paesi in via di sviluppo rimarrà cronicamente sottonutrita (Bruinsma 2003); sarà il caso probabilmente di alcune zone dell’Africa sub-Sahariana.
Queste stime tuttavia nascondono differenze sostanziali tanto tra i paesi quanto all’interno dei singoli paesi. Dove le disparità di reddito rimangono alte, la fame e la sovranutrizione sono destinate a coesistere anche nello stesso paese. Il risultato globale sarà che il doppio carico della malnutrizione (il ben noto double burden of malnutrition) graverà su molte aree del pianeta.

Cambiamenti nella composizione della dieta

La transizione nutrizionale tuttavia non ha significato (ne significherà) unicamente un generale incremento del contenuto calorico medio della dieta, essa si caratterizza anche per un marcato cambiamento nella sua composizione.
In questa prospettiva il primo stadio della transizione avvenuta finora può essere sintetizzato in un “effetto espansione”. A livelli di reddito bassi, il contenuto energetico medio delle diete è aumentato, perlopiù a causa dell’immissione di calorie aggiuntive provenienti da cibi poco costosi di origine vegetale (questo sembra verificarsi indipendentemente da fattori culturali e religiosi o dalle tradizioni alimentari e dalle specificità produttive delle zone geografiche).
Il secondo stadio è per lo più un “effetto sostituzione” e riflette uno spostamento della scelta alimentare da cibi ricchi di carboidrati (cereali, radici e tuberi) verso oli vegetali, zucchero e cibi di origine animale. Questo effetto mostra molte specificità geografiche ed è spesso influenzato dalle tradizioni alimentari culturali o religiose. Tali fattori determinano sia la misura in cui i prodotti animali vanno a sostituire quelli di origine vegetale, sia la composizione dei prodotti animali che entrano nella dieta.
L’aumento della quota calorica derivante da prodotti animali è stato particolarmente pronunciato in Estremo Oriente in passato, mentre i paesi dell’Africa Sub-Sahariana non hanno fatto registrare alcun incremento. Il rapido aumento in Asia Orientale è stato dominato dall’elevato consumo di carne (suina) in Cina. L’incremento del consumo sia cinese che indiano di prodotti animali si stima debba protrarsi per i prossimi trenta anni, anche se probabilmente a ritmi più moderati.
Il consumo di latte e carne continuerà ad aumentare in America Latina, in Medio Oriente e nel Nord Africa. L’incremento in queste ultime due aree sarà trainato da un maggiore consumo di latte, uova e carne di pollo, mentre un maggiore consumo di carne bovina e di pollo continuerà a dominare l’espansione in America Latina.
In termini di salute, lo spostamento verso livelli di consumo più elevati di carne e latte ha effetti positivi; determina infatti un aumento della quantità e della qualità delle proteine, dei sali minerali essenziali e delle vitamine ingerite. Tuttavia i benefici declinano rapidamente con l’ulteriore crescita del consumo: alti livelli di consumo infatti sono associati a considerevoli rischi per la salute. Un elevato consumo di carne rossa tende ad incrementare il rischio di contrarre alcune forme di cancro e un’elevata assunzione di grassi saturi e di colesterolo provenienti da carne, formaggi e uova aumenta il rischio di malattie cardiovascolari.
Oltre a tutto questo, il rapido processo di urbanizzazione ha inciso e continuerà ad incidere sulle abitudini di consumo e sugli stili di vita. L’urbanizzazione crea nuove infrastrutture per la distribuzione, attrae i supermercati e i loro sistemi di gestione e manipolazione del cibo, semplifica l’accesso ai fornitori stranieri, e promuove la globalizzazione delle abitudini alimentari. In particolare per i poveri urbani lo spostamento verso cibi veloci e più convenienti conduce ad uno spostamento verso una dieta più ricca di zucchero, sale e grassi (Smil, 2000). Inoltre, lo stile di vita più sedentario associato alla realtà urbana riduce il consumo di calorie. Infine gli impatti negativi della rapida transizione nutrizionale finora descritti sono destinati ad essere accompagnati da una serie di ulteriori fattori aggravanti, specifici dei paesi in via di sviluppo.

La transizione nutrizionale nei paesi n via di sviluppo

In molti paesi sviluppati, il mutamento delle tendenze di consumo e degli stili di vita si è già tradotto in un rapido incremento nell’incidenza del sovrappeso, dell’obesità e delle conseguenti malattie non trasmissibili ad essa collegate. Molti paesi in via di sviluppo stanno per intraprendere simili processi e gli effetti sulla salute di tale transizione potrebbero essere molto gravi soprattutto a fronte di capacità di gestione di tali effetti molto più limitate.
I principali fattori aggravanti dei cambiamenti alimentari sono la predisposizione fenotipica e genotipica verso l’obesità e le malattie non trasmissibili. La predisposizione fenotipica è esemplificata nel modo in cui la fame e la malnutrizione “programmano” le nuove generazioni ad un maggiore rischio di obesità e di malattie connesse ad essa (Hales and Barker 2001).
La predisposizione genotipica è quella che più in generale rende alcune popolazioni e gruppi etnici più a rischio di contrazione di determinate malattie non comunicabili.
Il prezzo umano ed economico della trasformazione dell’alimentazione potrebbe dunque essere drammatico per molti, l’uscita dalla povertà alimentare potrebbe essere l’ingresso in una nuova povertà di salute. Se poche persone soffriranno la fame e la sottonutrizione cronica, sempre più avranno problemi di salute legati al sovrappeso, all’obesità e alle malattie non trasmissibili. Gli effetti di queste ultime saranno avvertiti in maniera ancor più severa nei paesi in via di sviluppo dove ancora pochi individui hanno accesso a trattamenti medici adeguati.
Il messaggio politico che emerge da questo quadro è duplice. Da un lato la lotta alla fame, oggi, e alla conseguente predisposizione fenotipica all’obesità di domani, deve ricevere ancora più attenzione dalla comunità internazionale. Dovrebbero essere incrementati programmi alimentari appositi per migliorare la nutrizione in gravidanza e pre-gravidanza. Tali programmi perseguirebbero il duplice obiettivo di combattere la fame e di frenare la probabile epidemia di malattie non trasmissibili.
In secondo luogo, data la rapida trasformazione delle abitudini alimentari della popolazione dei paesi in via di sviluppo, un’attenzione specifica deve essere posta a misure che limitino gli effetti negativi in termini di aumento dell’incidenza dell’obesità e delle malattie non trasmissibili che già tale transizione comincia a manifestare.

Riferimenti bibliografici

  • Bruinsma, J. (Ed.) (2003). World agriculture: Towards 2015/2030, An FAO Perspective. Rome: FAO and London: Earthscan
  • Smil, V. (2000). Feeding the world - a challenge for the twenty-first century. Cambridge . MA: The MIT Press.
  • Hales, C. N., & Barker, D. J. P. (2001). The thrifty phenotype hypothesis. British Medical Bulletin, 60, 5-20.
  • Schmidhuber, J. & Shetty, P. (2005) The nutrition transition to 2030. Why developing countries are likely to bear the major burden. Acta Agriculturae Scand Section C, 2, 150-166.
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