Il finanziamento pubblico della ricerca in agricoltura: verso il contratto ottimo

Il finanziamento pubblico della ricerca in agricoltura: verso il contratto ottimo

Introduzione

L’attenzione per il tema del finanziamento pubblico della ricerca agricola a livello internazionale si è progressivamente spostata, negli ultimi decenni, dall’analisi di quante risorse pubbliche destinarvi alla questione del come allocare quelle disponibili per ottenerne il massimo beneficio (Huffman e Just, 1994, 1999a, 1999b; Spielman e von Grebmer, 2004). Quale, dunque, la forma migliore di allocazione delle risorse pubbliche per la ricerca agricola e quale la gestione ottimale delle stesse?
Obiettivo di questo articolo è esaminare le possibili forme di finanziamento pubblico alla ricerca in agricoltura sia da un punto di vista prettamente teorico, ovvero in riferimento alla letteratura dedicata ed agli approcci prevalenti, sia da un punto di vista più applicativo, ovvero verificando un riscontro pratico nella realtà italiana attuale. In particolare, nella letteratura economica uno dei problemi della gestione e dell’organizzazione razionale del finanziamento di ricerca diviene quello di realizzare dei “contratti ottimi”, ovvero rapporti di ricerca che massimizzino il payoff (o risultato di ricerca) e minimizzino gli oneri di controllo sostenuti da chi eroga il finanziamento. Tale analisi del contratto ottimo di ricerca viene in genere condotta secondo il cosiddetto modello “principale-agente” (Salanié, 1997; Laffont, Martimort, 2002): il principale (finanziatore della ricerca) cerca di definire un contratto ottimo con cui finanziare il lavoro di ricerca dell’agente (il ricercatore). Il contratto è ottimo proprio perché disegnato in modo da essere interesse di entrambe le parti rispettarlo, rendendo minimo il costo di controllo del rispetto del contratto da parte dell’agente stesso.
Nell’ambito di questa letteratura, un punto di riferimento è costituito dal modello di Huffman e Just (2000): di fronte alla richiesta di finanziamento da parte di una platea estesa di ricercatori, i finanziatori devono trovare la forma migliore di erogazione dei fondi (il “contratto ottimo”) che consenta ad entrambi le parti di massimizzare il proprio payoff, nonostante la forte asimmetria informativa esistente tra i soggetti e l’elevata rischiosità dell’attività di ricerca.

Le possibili forme di finanziamento pubblico: un punto di vista teorico

Il modello di Huffman e Just (2000) rappresenta il primo tentativo nella letteratura economica di analizzare il rapporto tra chi eroga risorse pubbliche e chi materialmente conduce la ricerca come un contratto tra due soggetti i cui interessi tendono inevitabilmente a divergere: il primo vuole ricavare un incremento di benessere collettivo, e per questo decide di destinare alla ricerca le risorse di cui dispone; il secondo vuole invece ottenere il finanziamento di ricerca ed in generale proseguire con il suo percorso di carriera. Il rapporto risulta condizionato da due fatti: da un lato, il finanziatore non conosce, se non parzialmente, le capacità dei ricercatori che deve selezionare; dall’altro la ricerca è comunque sempre rischiosa ed incerta negli esiti.
Di fronte a queste problematiche, la ricerca del “contratto ottimo” spinge alla definizione di adeguate forme di finanziamento che consentano alle parti in causa di massimizzare il proprio rendimento e di agire affinché entrambe trovino incentivante prendervi parte.
Le modalità con le quali il finanziatore può definire il contratto sono riassunte in tre tipologie (Tabella 1): external peer reviewed competitive programs (programmi competitivi di ricerca con selezione con parere di esperti esterni); incentive contracts (contratti di ricerca basati su incentivi per i ricercatori); formula funding (finanziamenti di ricerca istituzionali legati a parametri prestabiliti).

Tabella 1 - Potenzialità e limiti delle forme di finanziamento pubblico alla ricerca

La prima tipologia consiste in programmi di finanziamento alla ricerca in cui i ricercatori competono tra loro al fine del conferimento dei fondi che il soggetto erogatore mette a disposizione. La competizione avviene rispondendo ai bandi emessi con delle proposte di progetto che andranno selezionate da un gruppo di ricercatori esperti esterni e, se meritevoli, finanziate.
Se da un lato questa modalità di finanziamento, oltre a consentire una scelta trasparente ed oculata dei progetti più validi da finanziare, permette di acquisire informazioni sulle potenzialità dei relativi beneficiari che competono tra loro, dall’altro, comporta però per il ricercatore un dispendio di risorse in termini di tempo, motivazione, abilità, conoscenze ecc. che potrebbero essere destinate ad altre ricerche posto che non si è certi di vincere la competizione con quello specifico progetto presentato. In aggiunta si accentua il rischio che, una volta ricevuti i finanziamenti, il ricercatore minimizzi il proprio impegno.
La seconda forma di finanziamento proposta è relativa al contratto basato su incentivi per i ricercatori: l’ente che eroga le risorse propone dei contratti di ricerca su specifiche tematiche a ricercatori esterni interessati; la copertura finanziaria è data ex-ante e può essere totale o parziale; a questa si aggiunge il pagamento per il ricercatore di un incentivo finale che si basa sulla qualità e quantità del risultato realizzato. La selezione è quindi molto meno formale e complessa rispetto al caso precedente, dal momento che i ricercatori sono scelti o perché si auto-selezionano in quanto capaci di ottenere risultati sufficienti a meritare quell’incentivo, o perché l’ente erogatore conosce il loro passato di ricerca, la loro competenza ed affidabilità. Il difetto principale di un siffatto sistema è il meccanismo di incentivo: occorre definirlo correttamente a priori, in modo che sia commisurato al risultato prospettato. Tuttavia, proprio questo è spesso difficile da misurare. La stessa valutazione richiede tempo e risorse all’ente erogatore, e non c’è garanzia che l’incentivo sia effettivamente legato all’output della ricerca in termini, ad esempio, di effettivo beneficio sociale.
La terza forma di finanziamento pubblico della ricerca sopperisce, in un certo senso, a queste carenze, dal momento che non si basa su incentivi, piuttosto si presenta nella forma di finanziamenti concessi a singoli ricercatori o gruppi di questi a copertura dei costi dell’attività di ricerca. In questo caso la selezione si basa su criteri generici, come la rilevanza della tematica trattata, l’innovatività e la storia del rapporto di collaborazione tra l’ente finanziatore ed il ricercatore stesso. Pertanto, non risulta necessario un incentivo, dato che, poiché un simile rapporto si reitera anche nel medio-lungo termine, l’ente erogatore può di volta in volta osservare i risultati di ricerca ottenuti. Unico neo del meccanismo in questione è che tende a stabilizzare i rapporti con ricercatori o gruppi di ricerca che hanno mostrato le migliori performance, rendendo difficile l’ingresso dei giovani in veri e propri “cartelli” di ricercatori che si vengono a generare nel tempo.

Una chiave di lettura del finanziamento pubblico: le problematiche da affrontare

Il rischio insito nell’attività di ricerca va necessariamente distribuito tra i soggetti che vi operano, e questo è sicuramente un fattore in grado di influenzare il processo di allocazione delle risorse. Se, infatti, il rischio viene interamente sostenuto dal ricercatore, questi potrebbe essere disincentivato dal partecipare al finanziamento di ricerca (auto-selezione avversa). Se, invece, è interamente sostenuto dal finanziatore della ricerca, ciò potrebbe indurre il ricercatore ad un minore impegno per il raggiungimento del risultato prospettato (azzardo morale).
Pertanto, attraverso una adeguata definizione degli incentivi ed una appropriata distribuzione dei rischi il finanziatore dovrebbe essere in grado di definire la forma ottimale con cui concedere il finanziamento di ricerca. È altresì necessario che il finanziatore ottimizzi la fase di selezione dei beneficiari, richiamando i più adatti e allontanando i meno adatti, e verifichi successivamente gli esiti dell’attività di ricerca condotta dagli agenti in modo da poter davvero escludere, o comunque verificare e quantificare, l’entità dell’azzardo morale, cioè il grado di contract compliance (il rispetto delle condizioni imposte nel contratto).
Quale dunque la forma di finanziamento che più si avvicina a queste necessità, tra le tre proposte da Huffman e Just (2000)? Numerosi studi condotti a livello internazionale nell’ultimo ventennio mostrano una solida evidenza empirica circa il fatto che la forma di gran lunga prevalente è quella competitiva (Huffman e Just, 1994, 1999a, 1999b; Huffman e Evenson, 2006; Huffman et al., 2006): ad un sistema prettamente legato al ricorso ai finanziamenti istituzionali si è progressivamente accostata una pratica di affidamento a programmi selezionati su base competitiva che assicurino una selezione oculata dei beneficiari dei fondi, ed una allocazione delle risorse mirata al raggiungimento di specifici obiettivi.
Questa pratica è seguita attualmente non solo nella programmazione di ricerca dell’Unione Europea (VII Programma Quadro), ma anche a livello di singoli stati membri. L’Italia ne è un esempio: il suo sistema pubblico di ricerca per l’agricoltura è regolato, per esempio a livello di Regioni, soprattutto da procedure concorsuali di assegnazione dei fondi (Vagnozzi et al., 2006).
Questo non significa che il finanziamento competitivo abbia sostituito completamente le altre forme di finanziamento, né che abbia in generale un impatto maggiore sulla produttività della ricerca agricola rispetto al finanziamento istituzionale (Huffman e Evenson, 2006). Tuttavia, con l’evoluzione del sistema di ricerca realizzatasi anche in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Novanta si è sempre più affermata questa procedura che, seppure non scevra di problematiche, appare come la più utilizzata.
Di seguito, si apre una breve parentesi che si sofferma proprio sul sistema italiano di ricerca in agricoltura per poter trarre delle considerazioni conclusive in merito alla definizione di un contratto ottimo di ricerca secondo le principali tendenze in atto.

Il punto di vista pratico: il sistema della ricerca agricola in Italia e il ruolo delle Regioni

Il sistema di ricerca agricola in Italia si presenta piuttosto frammentato tra diversi attori (Vieri et al., 2006). In estrema sintesi, sono soprattutto il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) ed il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (MIPAAF) a costituire i principali ambiti di riferimento in tema di ricerca agricola: fanno capo al primo le Università ed il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr); il secondo, a seguito del riordino stabilito dal decreto legislativo n. 454/1999, ha visto ridurre il numero dei propri istituti e la creazione di nuovi in cui accorparli: ad es., il Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (Cra).
Generalmente, il meccanismo con il quale i suddetti Ministeri conferiscono fondi non è univoco. I finanziamenti che il MIUR, attraverso i singoli atenei, assegna annualmente ai differenti dipartimenti o quelli che il MIPAAF assegna agli istituti di ricerca che ad esso afferiscono seguono una modalità prettamente istituzionale, essendo dotazioni abbastanza stabili nel tempo in ammontare fisso o legato a parametri predeterminati piuttosto che alla performance di chi li riceve.
Tuttavia, è soprattutto attraverso i bandi di gara che i suddetti Ministeri finanziano progetti di ricerca vera e propria: piuttosto che singole istituzioni, si finanziano, cioè, determinati programmi e/o progetti previa valutazione comparativa delle proposte presentate e seguente selezione delle più meritevoli (è il caso dei Progetti di Rilevante Interesse Nazionale, PRIN, del MIUR).
A partire dal 2001, inoltre, si è affiancato al ruolo dei Ministeri anche quello delle Regioni che a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione hanno raggiunto una forte autonomia decisionale che si esplica in una ampia potestà legislativa in materia di ricerca scientifica e tecnologica e di sostegno all’innovazione. Come diretta conseguenza di un simile passo verso il decentramento, le Regioni hanno accresciuto peso e ruolo attivo nel finanziamento delle attività di ricerca agricola: in risposta alle norme comunitarie sulla concorrenza, hanno attuato la procedura concorsuale per l’accesso ai finanziamenti da parte delle istituzioni pubbliche e private, seguendo dunque sempre meno le forme di affidamento diretto (Vagnozzi et al., 2006).
I criteri di scelta dei progetti da selezionare spaziano dalla qualità della proposta alla affidabilità del proponente, dalla trasferibilità ed applicabilità dei risultati al coinvolgimento del sistema e dell’utilizzatore finale, dall’adeguatezza delle competenze alla coerenza con le priorità definite dalle amministrazioni per la programmazione regionale e provinciale.
L’importante mole di fondi resi disponibili per la ricerca agricola dalle Regioni fino ad oggi è un chiaro segnale del fatto che, soprattutto a questo livello istituzionale, la procedura competitiva di assegnazione delle risorse disponibili non solo risulta essere la forma ottimale di gestione delle risorse (il “contratto ottimo”), ma consente anche di ridurre la distanza tra ricerca e territorio, rendendo possibile in tal modo la diffusione e valorizzazione della conoscenza nel sistema economico e sociale circostante.
Principale limite del sistema della ricerca attuato dalle Regioni è però la totale assenza di un sistema di monitoraggio ex-post che verifichi con regolare tempistica ed appropriate metodologie non solo l’effettiva realizzazione del programma di ricerca secondo quanto pattuito “da contratto”, ma anche il reale impegno della controparte nonché quantità e qualità dei risultati.

Considerazioni conclusive e possibili indicazioni

a del finanziamento pubblico della ricerca agricola solleva in letteratura numerose questioni da affrontare affinché si realizzi una gestione ottimale delle risorse a disposizione. Gli attori di questo processo sono gli enti erogatori delle risorse (un governo nazionale o regionale, o in senso lato un soggetto pubblico “amministratore della ricerca”) ed i ricercatori (soggetti pubblici o privati che conducono materialmente le attività). La necessità di superare problematiche quali la carenza di informazione e la rischiosità dell’attività di ricerca motiva il bisogno di forme ottimali di allocazione delle risorse. La forma prevalente di finanziamento riscontrata per diversi programmi di ricerca europei ed italiani, così come a livello regionale nel nostro paese, è quella competitiva.
In particolare, in un quadro complessivo di finanziamento pubblico della ricerca agricola che vede stabilizzarsi, se non addirittura contrarsi, il volume reale della spesa, lo sforzo compiuto ad esempio dalle Regioni nel sistema italiano di ricerca risulta uno dei pilastri fondamentali. La modalità di finanziamento prettamente competitiva, tuttavia, necessita inevitabilmente di essere integrata con disposizioni che tengano conto della valutazione non solo ex-ante ma anche in-itinere ed ex-post dell’operato degli agenti.
Le Regioni italiane, difatti, come più volte accennato in letteratura (Vagnozzi et al., 2006; Materia ed Esposti, 2008), non dispongono di una tempestiva e regolare attività di monitoraggio delle attività.
Il rischio di azzardo morale è alto nel caso di completa mancanza di conoscenza da parte dei finanziatori della platea di ricercatori aspiranti ai fondi, e occorre porre un rimedio di fronte al rischio che la ricerca non dia gli esiti sperati nonostante le risorse (non solo finanziarie) impiegate. Il meccanismo di concessione dei fondi su parere di esperti potrebbe essere così integrato con forme di incentivo sulla scorta dei risultati ottenuti, condizionando, cioè, una parte dei fondi erogati dalle Regioni all’output prodotto in modo da spostare energie dalla fase di predisposizione delle proposte (spesso troppo dispendiosa) a quella di realizzazione.
Perché ciò sia possibile, occorre che già nella fase di presentazione delle proposte i ricercatori esplicitino i risultati attesi e che le procedure di valutazione e controllo siano sistematiche e tali da costituire un segnale verso la platea dei beneficiari che consenta di ridurre l’indesiderata auto-selezione avversa e l’azzardo morale. Questo chiama in causa anche la necessità di garantire un continuo aggiornamento e raffinamento delle procedure di selezione, con la conseguenza di rivedere i termini del contratto, ovvero i bandi, alla luce delle informazioni progressivamente emerse. Oltre all’affidamento al gruppo degli esperti occorrerebbe incentivare il ricorso a fattori quali i rapporti di integrazione e collaborazione che il ricercatore ha mostrato di avere con altri ricercatori, così come la storia pregressa del rapporto del ricercatore con l’ente erogatore e gli esiti di precedenti progetti finanziati. Solo la Regione può avere conoscenza di questi elementi e garantire dunque una selezione che non sia svantaggiosa proprio per i migliori.
Peraltro, individuazione degli indirizzi di ricerca, progettazione, selezione, validazione e valutazione delle ricadute di quanto prodotto richiedono un coordinamento che può estendersi al complesso del sistema di ricerca italiano, a partire dalle stesse Regioni, di modo che si possano condividere procedure e finanziamenti di ricerca che, pur tenendo conto delle specificità di ogni contesto (es. Regioni), ne consentano una condivisione ed una maggiore efficacia degli sforzi.
Concludendo, sarebbe in tal senso auspicabile che le Regioni trovassero un terreno comune a livello nazionale in cui confrontare le proprie esperienze in modo da dotarsi di una comune metodologia di valutazione anche degli impatti della ricerca, di un repertorio di buone pratiche, di una banca dati delle ricerche in corso, ed in cui sperimentare congiuntamente forme innovative di finanziamento.

Riferimenti bibliografici

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  • Vagnozzi A., Di Paolo I, Ascione E. (2006), “La ricerca agro-alimentare promossa dalle Regioni italiane nel contesto nazionale ed europeo. Quali peculiarità nei contenuti e nella gestione”, Rivista di Economia Agraria, LXI (4), pp. 479-518.
  • Vieri S., Prestamburgo M., Marotta M., (a cura di), (2006), L’agricoltura italiana. Sfide e prospettive di un settore vitale per l’economia della nazione, INEA, Roma.
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