Abstract
Gli "assetti fondiari collettivi" sono istituzioni e situazioni di proprietà, gestione e uso delle risorse fondiarie come beni comuni. Hanno avuto ed hanno un ruolo fondamentale nel garantire nel tempo l’accesso alla terra. L’articolo presenta i punti fondamentali del dibattito intorno al tema e traccia un quadro della dimensione e distribuzione della proprietà collettiva in Europa e in Italia.
Introduzione
La denominazione ‘assetti fondiari collettivi’ viene utilizzata oggi per indicare un insieme di modelli di proprietà, uso o gestione delle risorse fondiarie accomunati da un elemento fondante: il permettere, regolare e garantire nel tempo l’accesso e l’uso della terra da parte di una comunità, variamente individuata.
Tali modelli sono diffusi con diverse connotazioni in tutto il mondo e ampiamente rappresentati sia in Europa (Bravo e de Moor, 2008) che in Italia (Nervi 2014; Bassi, 2016), dove interessano vaste porzioni di territori agricoli e silvo-pastorali, collocate generalmente in aree rurali, anche se non mancano situazioni peri-urbane. Nella letteratura internazionale sono indicati genericamente come commons; a livello nazionale assumono diverse denominazioni nelle lingue locali, in cui si possono tuttavia riconoscere elementi unificanti quali vicinia, comunità, università. Nel loro complesso, queste realtà, spesso di antichissima origine, presentano un quadro estremamente variegato per forma istituzionale e di proprietà, personalità giuridica, appartenenza dei membri, storia, dimensione. Si differenziano sia dalla proprietà privata in senso stretto che da quella pubblica (Bromley, 1991; Di Genio, 2012): proprio per affermare la loro unicità nel regolare l’accesso alle risorse fondiarie e naturali, sono stati definiti da Carlo Cattaneo nel 1853 "un altro modo di possedere" (Grossi, 1977).
A partire dagli scritti provocatori di Hardin (1968) sulla tragedia dei beni comuni, intorno a questo tema si è sviluppato un ricco dibattito, dove un riferimento fondamentale, ma non unico, è rappresentato dal lavoro di Ostrom (1990) e colleghi. Ad esso partecipano giuristi, economisti, sociologi, storici, geografi ed antropologi, arricchendo con contributi interdisciplinari una feconda discussione intorno a temi quali la natura dei diritti di proprietà ed il loro legame con la comunità e il territorio, il successo e la resilienza socio-ecologica di questi sistemi, la loro efficacia nella gestione delle risorse, nello sviluppo rurale e nella tutela ambientale, l’equità intra e intergenerazionale, la solidarietà, il ruolo presente e futuro di un modello comunitario di gestione delle risorse naturali.
Attraverso una lettura che si snoda lungo elementi salienti della discussione scientifica sul tema dei beni comuni, sia sotto l’aspetto teorico che empirico, il presente lavoro intende metterne brevemente in luce i punti di contatto con il tema dell’accesso alla terra, anche attraverso alcuni esempi concreti.
Accesso e diritti di proprietà negli assetti fondiari collettivi
Il tema dell’accesso è centrale negli assetti fondiari collettivi. L’analisi storiografica ha evidenziato come questi sistemi di uso delle terre rispondessero a precise necessità di accesso alle risorse in situazioni di scarsità. La difficoltà di vivere in territori marginali, isolati, in condizioni climatiche severe e aree a scarsa produttività rendeva impossibile l’uso e la gestione individuale delle risorse, richiedendone invece la completa condivisione. Secondo Casari (2007), storicamente i regimi di uso collettivo interessavano le terre alte a bosco e pascolo, mentre le aree più produttive e pianeggianti dei fondovalli erano destinate ad uso esclusivo alle produzioni per l’autoconsumo familiare. Questa organizzazione della struttura fondiaria si può osservare ancora oggi: le statistiche mostrano che le terre comuni sono localizzate principalmente nelle aree montane e interne (Greco, 2014), dove la minor pressione sulle risorse fondiarie ha preservato gli istituti collettivi.
Proprio per garantire l’accesso a tutta la comunità, i diritti non venivano concessi in forma incondizionata: le comunità si dotavano di istituzioni e regole, inizialmente informali, in seguito trascritte in Statuti e Carte di Regola, che definivano sia l’appartenenza alla comunità che le modalità di uso delle risorse. Sono questi i processi, lunghi e complessi, che trasformano i commons come intesi da Hardin, cioè risorse a difficile escludibilità ed alta rivalità, in beni club, connotati invece da escludibilità e, pertanto, da bassa o nulla rivalità.
Casari e Lisciandra (2011) hanno osservato come in Trentino (ma la situazione è generalizzabile all’arco alpino), in concomitanza di shock economico-sociali o ambientali quali pesti, guerre o carestie, le regole che definivano l’appartenenza andassero facendosi via via più restrittive, a spese soprattutto della componente femminile. Da un modello egualitario, la trasmissione dei diritti passò ad un sistema patrilineo ed infine al maggiorascato, e l’accesso alle risorse si fece più esclusivo. Come hanno evidenziato gli stessi autori, la progressiva "chiusura" dei modelli di gestione collettiva delle terre è stata una reazione adattativa del sistema a risorse che diventavano progressivamente o improvvisamente meno disponibili. Ma è proprio grazie a questa risposta che gli istituti collettivi sono riusciti a perpetuarsi fino ai giorni nostri, conservando le terre dallo sfruttamento eccessivo e dalla distruzione e consegnandoci intatte ampie porzioni di territori a bosco a e pascolo. Quello della resilienza dei sistemi di gestione delle risorse, della loro capacità di reagire ed adattarsi e del difficile equilibrio tra apertura e chiusura, tra inclusione ed esclusione, è uno dei temi nodali del dibattito attuale sui beni comuni.
Un altro tema connesso all’accesso è il diverso approccio, adottato dalla letteratura sui beni comuni, ad una concezione monolitica del "diritto di proprietà". Questo approccio riconosce l’esistenza di un insieme complesso e frammentato di diritti, di cui l’accesso è solo una delle molteplici sfaccettature. Schlager e Ostrom (1992) individuano due gruppi di diritti: d’uso e di decisione. Dei primi fanno parte i diritti di accesso in senso stretto (entrare nel fondo per un uso non consuntivo, ad esempio una passeggiata), di raccolta (dei prodotti spontanei del fondo), di sfruttamento (l’usare il fondo per trarne un vantaggio economico). Tra i secondi si annoverano invece i diritti di gestione (modificare parzialmente o totalmente le pratiche di gestione e/o la destinazione del fondo), di esclusione (il poter escludere alcuni individui o gruppi sociali dall’accesso alla risorsa) e, infine, di alienazione (trasferire, anche onerosamente, tutti gli altri diritti a un soggetto terzo). I diritti di decisione sono quindi i veri e propri diritti politici delle istituzioni collettive, tra cui rientrano il diritto di partecipare alle assemblee in cui vengono prese le decisioni circa l’uso e l’alienazione delle risorse collettive, la loro regolamentazione, la possibilità di decidere chi ne sia escluso (Casari e Lisciandra, 2011). Solo il possesso congiunto di tutti i diritti identifica la vera proprietà del bene (Schlager e Ostrom, 1992), mentre il possesso parziale individua profili minori che possono coesistere e sovrapporsi.
Questa visione dei diritti di proprietà rappresenta un interessante modello concettuale che consente di analizzare sotto una diversa luce il grado di libertà che il proprietario del bene può avere nell’accesso alle sue risorse. Nel nostro paese, contraddistinto da una gestione forestale altamente regolamentata (Pettenella, 2009), molti dei diritti di decisione sulle risorse agro-forestali sono in capo alle autorità statali o regionali, mentre ai proprietari forestali sono lasciati solo alcuni diritti d’uso. Ciò è avvenuto anche per gli assetti fondiari collettivi (Gios, 2017), nonostante la loro storica capacità intrinseca di auto-regolazione. Il caso estremo è la "tragedia degli anticommons" (Heller, 1998), un paradigma che si verifica quando i diritti di proprietà sullo stesso bene sono frammentati tra moltissimi soggetti, ciascuno dei quali ne possiede solo una piccola frazione, ma in modo esclusivo. Senza l’accordo di tutti i possessori del diritto, la gestione della risorsa diventa impossibile, e l’unica soluzione, spesso, rimane l’abbandono (Schlueter, 2008).
Infine, va ricordato che, se l’accesso è garantito dall’appartenenza alla comunità, anche questa caratteristica è stata intesa in modo diverso a seconda delle situazioni. Nella maggioranza dei casi, la comunità è identificata dalla residenza in un determinato luogo fisico: è questo il caso di molte situazioni di patrimoni collettivi in Italia, dove l’uso civico è attribuito a tutti i residenti di un comune o di una frazione. Nel caso delle Regole del Veneto, invece, l’appartenenza è esclusivamente legata alla discendenza da famiglie di antichi originari iscritti nell’Anagrafe Regoliera, e quindi, salvo eccezioni, la trasmissione del diritto avviene solo per via ereditaria. In altre situazioni, infine, la comunità degli aventi diritto può avere natura diversa, ed essere identificata, più che dalla appartenenza ad un luogo o a una comunità, da un comune interesse. Ad esempio, nel Grindelwald in Svizzera, i diritti di uso dei pascoli d’alta quota sono legati non agli individui o alle famiglie, ma agli appezzamenti nel fondovalle (Baur e Binder, 2013), o agli edifici nei villaggi rurali. In queste situazioni il diritto all’accesso e all’uso del bene comune si trasmette tramite compravendita e può non essere indiviso, ma differenziato anche in quote disuguali e proporzionate alla dimensione della proprietà.
La situazione internazionale
Sia a livello globale che europeo, i dati sulla distribuzione degli assetti fondiari collettivi sono molto frammentari ed è difficile fornire un quadro completo ed univoco dell’estensione dei patrimoni di comunità. Una delle ragioni che rende difficile produrre dati statistici coerenti tra diversi paesi è proprio l’ampiezza del concetto di demanio collettivo, che spazia da situazioni di proprietà piena al possesso di alcuni diritti d’uso, spesso tra l’altro consuetudinari e oggetto di dispute e di appropriazioni. Un’altra ragione sta nel fatto che queste forme godimento dei terreni, almeno nei paesi industrializzati, in diverse epoche storiche e sotto regimi anche di opposto orientamento politico, sono state marginalizzate perché considerate arcaiche ed inefficienti (McKean e Ostrom, 1995) e quindi le rilevazioni censuarie hanno non si sono preoccupate di rilevarle come forme di proprietà a sé stanti. Solo recentemente i patrimoni collettivi sono stati riproposti come modelli di governance delle risorse fondiarie, e con l’interesse da parte delle istituzioni politiche e della ricerca è rinata anche la necessità di quantificare e mappare l’estensione del fenomeno.
Un recente studio (Rights and Resources Initiative, 2015) ha analizzato i principali paesi in cui le forme di gestione o proprietà collettiva dei terreni sono legalmente riconosciute, per un totale di 64 Stati e una superficie pari all’82% della superficie terrestre del globo (per l’Europa lo studio ha preso in considerazione solo Russia, Svezia, Norvegia e Finlandia). Sono stati censiti 1,9 miliardi di ettari di demani collettivi a foreste, praterie, pascoli e sistemi agricoli estensivi, pari al 18% della superficie considerata; considerando i soli casi in cui le comunità locali detengono veri e propri diritti di proprietà, questo dato si riduce tuttavia al 10%. Il fatto che, tra i paesi più significativi per i demani collettivi, accanto al Messico (52% della superficie totale del paese) e al Canada (44%) ci siano anche la Russia (72%) e la Cina (49%) segnala la genesi spesso profondamente diversa dei regimi collettivi ed evidenzia come i dati debbano essere accompagnati da approfondimenti sulla natura e sulla situazione de facto dei diritti perché il loro significato sia realmente compreso.
L’Europa vanta una lunga storia in termini di assetti fondiari collettivi, che affonda le sue radici in epoche medioevali. Tuttavia all’inizio del XIX secolo, molti patrimoni di comunità si erano dissolti sotto la spinta di tentativi di statalizzazione e/o privatizzazione (Bravo e de Moor, 2008) e quelli che sono stati ricostituiti hanno preso forme molteplici, il che non aiuta a dare oggi una esatta quantificazione nemmeno in questo caso. La modalità con cui sono raccolti i dati statistici, con superfici agricole e forestali censite da fonti diverse, non contribuisce a chiarire la situazione. Come ha osservato Greco (2014) proprio in Agriregionieuropa, i demani collettivi includono principalmente aree a pascolo, a prato permanente e a bosco, ma queste ultime sfuggono alle rilevazioni delle statistiche agricole quando le unità in cui sono incluse sono esclusivamente forestali. Quindi le statistiche che riguardano Sat (Superficie Agricola Totale) e Sau (Superficie Agricola Utilizzata) riportano un quadro solo parziale della situazione. Secondo i dati disponibili, in tredici paesi europei, nel 2010, la Sau di proprietà collettiva (comprese terre di proprietà pubblica su cui viene esercitato l’uso civico, vedi definizioni dal sito Eurostat) ammontava a circa 10 milioni di ettari, pari al 7,6% della Sau complessiva di tali paesi ed era particolarmente rappresentata nel sud-est Europa, in paesi quali la Grecia, la Romania e la Bulgaria (Greco, 2014).
Oltre ai dati che quantificano il fenomeno, sono interessanti anche alcune esperienze grazie alle quali l’accesso alle terre è stato reso possibile ispirandosi al modello delle istituzioni collettive. Una di queste è il programma di riforme fondiarie denominato National Forest Land Scheme (ora Community Asset Transfer Scheme) lanciato dal governo scozzese nel 2005. Tale programma consente alle comunità rurali residenti in un determinato territorio di acquistare "coattivamente" terreni forestali dalla Forestry Commission, l’Ente gestore delle foreste di proprietà pubblica. Per l’alienazione deve essere dimostrata la generazione di benefici per l’intera comunità locale (non solo per alcuni individui), e l’assenza di costi sociali o ambientali. Dalla sua introduzione al 2011, allo schema hanno partecipato 22 progetti, con obiettivi di produzione di legname per i bisogni energetici delle comunità locali, realizzazione e gestione di impianti a energie rinnovabili e di edilizia residenziale sociale. Sono stati alienati 1.735 ettari di bosco e costruite 81 abitazioni (Forestry Commission, 2012). Questi progetti hanno rappresentato significative opportunità non solo di avviamento di attività imprenditoriali e di opportunità locali di impiego, ma anche di inclusione e collaborazione sociale (Ambrose-Oji et al., 2015).
Un’altra esperienza ispiratasi ai modelli collettivi riguarda la Svezia dove, tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, venne avviata una riforma fondiaria di privatizzazione dei terreni forestali appartenuti alla monarchia. Il governo, percependo un rischio di appropriazione delle foreste da parte delle grandi imprese di trasformazione del legno, ritenne che la soluzione più appropriata fosse quella di affidare le foreste alle comunità locali, assegnandone i diritti d’uso alle aziende agricole. Tuttavia, in contrasto con molta della letteratura che presenta la gestione collettiva come un modello di successo per la gestione delle terre, queste esperienze vengono oggi percepite in Svezia come fallimentari, a causa della loro genesi top-down e del forte controllo su questi terreni tuttora esercitato dall’autorità forestale, che limita fortemente ogni opportunità di sviluppo economico (Holmgren et al., 2010).
La situazione italiana
La situazione italiana dei demani fondiari collettivi riproduce su scala nazionale quanto già rilevato a scala internazionale circa la molteplicità di modelli esistenti. Numerosi autori hanno cercato di descrivere la complessità degli istituti collettivi in Italia, tra cui Bassi (2016), che distingue diversi modelli di governance in funzione degli elementi giuridici e amministrativo-gestionali con cui i diritti di uso e di decisione sui beni collettivi vengono distribuiti (Tabella 1).
Tabella 1 - Quadro dei diversi modelli di governance negli assetti fondiari collettivi in Italia
Fonte: Bassi, 2016
Dal quadro presentato in tabella 1 appare chiaramente la variabilità di situazioni di forma giuridica e organizzazione interna, figlia delle complesse e diverse vicende storiche e politiche che hanno attraversato i patrimoni di comunità nelle diverse regioni del paese. Come è ben noto, l’aver ignorato tale complessità, tentando di ricondurla ad un solo modello regolato dalla legge sul riordino degli usi civici del 1927, ha creato numerose difficoltà per la sopravvivenza delle istituzioni collettive e innescato, già a partire dai mesi successivi alla nascita della Repubblica, un dibattito politico-giuridico per il riconoscimento della loro specificità che è proseguito ininterrottamente fino ad oggi. Proprio finché si scrive, grazie alla vitalità e consapevolezza dei propri diritti e della propria storia da parte dagli istituti collettivi e delle loro associazioni (tra cui si ricordano la Consulta Nazionale delle Proprietà Collettive e il Centro Studi e Documentazione sui Demani Civici e le Proprietà Collettive di Trento), è stato raggiunto un importante risultato: il 31 maggio 2017 il Senato ha approvato una proposta di legge recante "Norme in materia di domini collettivi" (Camera dei Deputati, 2017). La proposta affronta, in soli tre articoli, i nodi principali delle definizione e del riconoscimento degli assetti fondiari collettivi "comunque denominati" (art. 1); distingue la diversa natura e genesi delle situazioni esistenti sul territorio nazionale ribadendone comunque gli elementi fondanti comuni e la necessità di collocare la materia in un'unica cornice; afferma il riconoscimento, da parte dello Stato, del diritto all’uso e gestione dei beni collettivi e all’autonormazione; estende la personalità giuridica di diritto privato a tutti gli enti che amministrano usi civici o terre collettive; infine, riafferma l’inalienabilità, l’indivisibilità e l’inusucapibilità dei beni appartenenti o amministrati dalle istituzioni collettive riconoscendone il ruolo fondamentale nello sviluppo locale, nella valorizzazione del patrimonio naturale e culturale e la gestione improntata alla trasmissione intergenerazionale.
Anche i molteplici appellativi con cui sono noti i patrimoni di comunità in Italia - Regole, Comunanze, Comunelle, Comunalie, Comunità, Partecipanze, Università Agrarie, Vicinie - sono indicativi della molteplicità di forme, che rende difficile la rilevazione precisa dei suoli sotto regime collettivo, e ancor più la possibilità di verificare la loro evoluzione nel tempo. Secondo stime Inea (1947), subito dopo la seconda guerra mondiale i patrimoni collettivi assommavano a più di 3 milioni di ettari, di cui circa 500 mila ettari classificati come appartenenti ad "associazioni agrarie" e 2 milioni e 500 mila come terre civiche dei comuni. I dati del 2010 (Tabella 2), da cui, bisogna ricordare, sono escluse le aziende esclusivamente forestali, riportano una Sat poco meno che dimezzata ed una Sau di 610 mila ettari1. Se si osservano tuttavia le percentuali riferite al totale nazionale, si osserva come la riduzione della superficie a demani collettivi sia in linea con la diminuzione delle superfici agricole a livello italiano, dato che la rappresentatività in termini di superficie agricola totale è rimasta intorno al 10% . Nella tabella 2 sono riportati anche i dati del 2013, di fonte sempre Istat ma provenienti dall’indagine sulle strutture. I confronti con il 2010, che mostrerebbero un’ulteriore drastica riduzione in parte forse spiegabile con l’uscita di alcune aziende dal campo di osservazione per perdita totale della Sau, sono tuttavia da considerare con estrema cautela, data la natura campionaria dell’indagine.
Tabella 2 - Aziende, Superficie agricola totale e Sau di Enti (Comunanze, Università, Regole) o Comuni che gestiscono proprietà collettive
Fonte: * Istat, 6° Censimento Generale dell'Agricoltura;**Istat, Indagine sulla Struttura e Produzione Agricola, 2013
A livello territoriale, la distribuzione delle superfici tra le diverse regioni è estremamente varia: il 46% si trova al Nord, principalmente nelle provincie di Trento e Bolzano; la regione con la maggiore estensione di Sat ad uso collettivo è l’Abruzzo con 262 mila ettari, quella con minore estensione la Valle d’Aosta con 1,2 mila ettari (Greco, 2014 - dati Censimento 2010)2. La dimensione media è considerevole: a livello italiano si parla di 747 ettari di superficie totale media per unità, con un’ampiezza che varia dai 1.367 ettari dell’Abruzzo ai 299 ettari dell’Emilia Romagna. Si tratta quindi di aziende con una dimensione territoriale notevole, soprattutto se confrontate con la proprietà privata, che pertanto rende possibile ed efficace anche una conduzione economica della proprietà. Infine, se si osserva la ripartizione per area altimetrica si può osservare che più del 70% (in termini di unità) e più dell’84% in termini di Sat delle proprietà collettive sono collocate in zone montane (Greco 2014), a testimoniare la prevalente destinazione silvo-pastorale di questi territori ma anche la loro sostanziale importanza dal punto di vista ecologico e ambientale (Bassi, 2016).
Per concludere: il ruolo degli assetti fondiari collettivi e le questioni ancora aperte
Rivisitare la questione degli assetti fondiari collettivi in relazione all’accesso alla terra è stata un’occasione per mettere in luce un tema che ancora non riceve tutta l’attenzione che merita, soprattutto in relazione alle sue numerose potenzialità nella gestione delle risorse naturali, nello sviluppo rurale, nell’inclusione e nell’innovazione sociale. Lungo la loro storia, le istituzioni collettive hanno avuto un ruolo insostituibile nella conservazione dai patrimoni naturali, evitandone la distruzione e mantenendone il valore ecologico, economico e culturale. Oggi, con una parte significativa delle risorse agro-forestali del paese affetta da problemi di non gestione, abbandono e perdita di funzionalità ecosistemica, i patrimoni di comunità propongono modelli ancora attuali di gestione e offrono alla società opportunità di accesso diffuso alle risorse naturali.
Va riconosciuto peraltro che gli assetti fondiari collettivi non sono una panacea per qualsiasi problema di gestione delle risorse naturali (Ostrom, 2001; Kissling-Näf et al., 2002; van Gils et al., 2013). La resilienza e la capacità di sopravvivere delle istituzioni collettive è legata al modello equo ed solidaristico attraverso cui i suoi membri accedono alle risorse e le distribuiscono, nonché al fatto che all’esercizio dei diritti si accompagnino il rispetto delle regole e la partecipazione alla vita comunitaria. Nel corso dei secoli, tuttavia, con il venire meno della stretta dipendenza delle comunità dalle risorse locali per la loro sopravvivenza, il significato reale e culturale di alcune regole ha parzialmente o totalmente perduto di valore. Il dibattito sull’appartenenza riservata ai soli discendenti degli antichi vicini, la trasmissione dei diritti alla sola linea maschile, i limiti posti nel concedere alle giovani generazioni il godimento dei diritti d’uso ma non di quelli politici, è molto acceso e spesso generatore di conflitti. Questi demotivano la partecipazione, impediscono il ricambio generazionale, creano avversione da parte degli esclusi, mettendo in discussione il concetto stesso di equità inter ed intragenerazionale alla base dell’istituzione collettiva e minacciandone quindi la sopravvivenza (Lorenzi, 2009; Gatto e Bogataj, 2015; Favero et al., 2016). Queste principali, ma non uniche, sfide che attendono gli assetti fondiari collettivi richiedono di essere attentamente considerate e risolte perché i patrimoni di comunità continuino ad offrire nel futuro occasioni ancora maggiori di un accesso alle terre inclusivo e sostenibile.
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Siti di riferimento
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- 2. Da osservare tuttavia che diverse regioni hanno avviato autonomamente una ricognizione delle terre soggette ad uso collettivo nel proprio territorio regionale, riportando dati decisamente superiori a quanto dichiara l’Istat nel 2010. Ad esempio nella Regione Veneto si parla di 150 mila ettari (Regione del Veneto, 2016) contro 50 mila di Sat del Censimento, nel Friuli Venezia Giulia di quasi 55 mila ettari (Carestiato, 2015) a fronte di 6,5 mila censiti dall’Istat. La significativa differenza va interpretata pensando che le stime regionali comprendano anche il territorio forestale.