Introduzione
In Europa, e non soltanto, la fatale combinazione di crisi economica, da un lato, e politiche di austerità degli ultimi anni, dall’altro, ha messo a dura prova la sicurezza alimentare di individui e famiglie, costretti a ricorrere a varie strategie per far fronte alle difficoltà economiche (Lambie-Mumford e Dowler, 2015; Pfeiffer et al., 2015). Nei Paesi ricchi, dove la disponibilità di cibo non costituisce un problema, l’insicurezza alimentare è, dunque, prima di ogni cosa una questione di reddito inadeguato (Riches e Silvasti, 2014). In Italia, come mostra l’ultimo rapporto di Caritas sulle povertà1, alla base della richiesta d’aiuto ci sono problemi economici (55%), occupazionali (43%) e disagio abitativo (18%). Il rapporto non fa esplicito riferimento al bisogno alimentare perché si ritiene che chi non può mangiare non disponga di un reddito adeguato a garantirsi uno standard di vita accettabile (Caritas, 2015). Infatti, nell’assenza di un apposito indicatore di insicurezza alimentare – elemento comune a molti Paesi europei (Lambie-Mumford e Dowler, 2015), Italia compresa2 – a fungere da campanello d’allarme è stato l’aumento della domanda di assistenza alimentare e il conseguente diffondersi di iniziative messe in atto per affrontare quest’emergenza (Caraher e Cavicchi, 2014). Senz’altro, le mense per i poveri sono sempre esistite, costituendo uno dei principali strumenti rivolti alla cosiddetta “alta marginalità”, con cui si è cercato di rispondere alle necessità di senzatetto, rifugiati e di quanti vivono in povertà cronica (Lambie-Mumford e Dowler, 2015). Almeno in Italia, tuttavia, il fenomeno degli ultimi anni si è caratterizzato per la “normalizzazione sociale” degli utenti (Caritas, 2014), il cui profilo sembra essersi esteso dall’alta marginalità, pur sempre presente, verso fasce di popolazione che si consideravano sicure dal punto di vista alimentare.
Al contempo, con la probabile complicità della crisi economica e della riduzione dei consumi, si è levato da più parti un forte interesse per la questione dello spreco alimentare. Nel 2012, il Parlamento Europeo ha approvato una “Risoluzione su come evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l'efficienza della catena alimentare nell'UE” (Parlamento europeo, 2012), con cui sollecitava la Commissione Europea e gli Stati Membri ad affrontare con urgenza il problema, mettendo in atto e incoraggiando misure di riduzione degli sprechi lungo tutta la filiera. Il 2014 è stato dichiarato “Anno europeo per la lotta allo spreco” e anche Expo ha dato visibilità al tema, promuovendo un dibattito che ha ottenuto una certa risonanza da parte dei media. Ulteriori spunti alla discussione sono poi giunti dalla Francia, dove di recente è stata approvata, come emendamento alla legge sulla transizione energetica, l’introduzione del reato di spreco alimentare e dell’obbligo, per i punti vendita maggiori di 400 metri quadrati, di donare le proprie eccedenze alle associazioni di volontariato affinché le distribuiscano agli indigenti3.
In Italia, è giunta al Senato proprio in questi giorni una proposta di legge4 anti-spreco la quale, attraverso un sistema di incentivi, incoraggia a risolvere il problema legandolo con l’attività di tutti quei soggetti che, a vario titolo, forniscono assistenza alimentare ai più bisognosi.
Per dare un’idea delle quantità potenziali di cibo in gioco, una recente indagine del Politecnico di Milano5 ha messo in evidenza che la filiera agroalimentare italiana, consumatori compresi, produce ben 5.6 milioni di tonnellate di eccedenze. Se è vero che recupero e ridistribuzione di queste eccedenze sono in aumento, arrivando al 9%, è pur sempre vero che più di 5 milioni di tonnellate di alimenti perfettamente commestibili finiscono in discarica ed è, pertanto, molto difficile essere in disaccordo con l’affermazione secondo cui “la coesistenza tra l’enorme spreco di cibo, l’insostenibilità ecologica e l’aumento della povertà alimentare è eticamente intollerabile” (nostra traduzione da Riches, Silvasti, 2014:8).
Se consideriamo le opzioni della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti alimentari” (Papargyropoulou et al., 2014), al primo posto troviamo la prevenzione, ossia le azioni che vanno nel senso di minimizzare a monte eccedenze e sprechi di cibo evitabili; la donazione del surplus per ridurre la povertà alimentare si colloca al secondo posto e, infine, la terza possibilità è quella della conversione per l'alimentazione animale.
In un contesto, come quello appena descritto, di forte attenzione verso lo spreco, da un lato, e di aumento della povertà e della domanda di assistenza alimentare dall’altro, tentare di combinare la risposta a questi due bisogni è diventato una sorta di imperativo per molti soggetti che svolgono attività di assistenza alimentare e che, almeno in parte, utilizzano e ridistribuiscono risorse altrimenti destinate a diventare rifiuti. Tuttavia, si possono identificare a partire dalla letteratura scientifica disponibile e facendo riferimento nello specifico ad alcune iniziative nazionali e locali, una serie di criticità legate all’incontro tra lotta allo spreco e lotta alla povertà. Il presente lavoro si propone, dunque, di evidenziarne i nodi problematici e proporre alcune riflessioni, rimandando l’approfondimento allo studio condotto in parallelo nell’ambito del progetto Transmango6, in cui viene identificato un set di pratiche che uniscono recupero delle eccedenze e assistenza alimentare ai bisognosi.
Recupero di cibo e assistenza alimentare: soluzione o compromesso?
Quello di offrire una strategia win-win per perseguire, al contempo, obiettivi ambientali di riduzione dello spreco e obiettivi sociali di lotta all’insicurezza alimentare è il cavallo di battaglia dei sostenitori della ridistribuzione di cibo altrimenti destinato ad andare sprecato (Vlaholias et al., 2015). Mentre questa prospettiva fa molta presa sulla società civile, dall’altra parte, una nutrita corrente di accademici vede nei food banks il segno di un welfare state in declino, nonché un palliativo che agisce solo sui sintomi del problema, depoliticizzando la povertà alimentare e consentendo ai governi di trascurarne le cause di fondo (Lang, 2015; Caraher, 2015; Dowler, O’Connor, 2013; Riches, 2011).
Ma che cosa, di preciso, si intende per surplus e spreco alimentare? La stessa Risoluzione del Parlamento europeo prende atto del fatto che “in Europa non esiste una definizione armonizzata di spreco alimentare” e della “confusione in merito alla definizione delle espressioni ‘spreco alimentare’ e ‘rifiuto alimentare’” (Parlamento europeo, 2012).
Un po’ di chiarezza viene da Garrone et al. (2014), che distinguono il ‘surplus’ – ossia il cibo perfettamente commestibile che per varie ragioni non viene venduto o consumato – dal vero e proprio ‘spreco alimentare’ – ovvero surplus che non viene destinato al consumo umano – e dal ‘rifiuto alimentare’, vale a dire ‘cibo del tutto inadatto al consumo umano’. Il raggiungimento della data di scadenza interna, la non conformità con gli standard commerciali (estetici, per esempio) e del packaging, errori di etichettatura, ordini rifiutati, restituzione di invenduti, residui di promozioni: le eccedenze sono determinate da queste cause molto comuni, con qualche differenza a seconda del tipo e del livello della filiera (Aiello et al., 2015; Garrone et al., 2014; Midgley, 2014).
All’origine del surplus non vi sono, dunque, ragioni legate alla qualità del cibo bensì ragioni economiche: il cibo rimane adatto al consumo umano e non solo mantiene intatte alcune caratteristiche di mercato, come il brand e il rispetto degli obblighi legali, ma ne acquisisce di nuove legate al valore attribuito al recupero, sia esso di natura ambientale o sociale (Midgley, 2014).
Secondo Alexander e Smaje (2008), è possibile che gli obiettivi dichiarati del recupero del surplus – ovvero ridurre lo spreco nella distribuzione, provvedere a una dieta sana e completa per gli utenti finali dell’assistenza e fornire alle associazioni caritative cibo a sufficienza perché queste possano spostare risorse su altre attività – entrino in conflitto tra loro. Già molti anni fa, negli Usa, Janet Poppendieck evidenziava come massimizzando l’efficienza lungo la filiera – riducendo errori di etichettatura, ordini sovradimensionati e tutti quei problemi che si traducono in genere in donazioni – si riducesse drasticamente la quantità di cibo convogliata da questa verso le associazioni caritative (Poppendieck, 1994).
Anche l’esperienza vicina e recente sembra rivelare una sorta di trade-off tra obiettivi di riduzione dello spreco e contrasto alla povertà. Nei supermercati italiani, l’attenzione ad evitare sprechi ha avuto un effetto inaspettato sulle associazioni caritative: quei prodotti in scadenza, che fino a poco tempo fa costituivano una buona fetta del surplus donato dai supermercati, vengono ora da molte catene di distribuzione messi in vendita a prezzo ribassato7.
A livello locale, per esempio, le eccedenze fornite da UniCoop Firenze alla Caritas tramite il progetto “Buon Fine” sono diminuite di ben due terzi; questa riduzione, che riguarda soprattutto prodotti freschi ora venduti a metà prezzo, è stata in parte compensata con donazioni tout court (in natura o in denaro) e con l’aumento della frequenza delle collette alimentari presso i punti vendita8.
Sebbene in questo caso si possa, da una parte, osservare come da pratiche anti-spreco si sia passati ad una logica di dono e beneficienza, dall’altra si può notare come in tal modo si scongiuri almeno in parte il problema dell’imprevedibilità della donazione, che può essere concordata o, nel caso delle collette, indirizzata verso un particolare tipo di prodotto.
Fonti di approvvigionamento dell’assistenza alimentare: oltre il recupero del surplus
Nell’assenza di una risposta chiara e strutturata da parte dei governi, organizzazioni non-profit e caritative hanno spesso agito in prima linea nel contrasto della povertà alimentare (Lambie-Mumford, Dowler, 2015). Sia da parte dei media che della ricerca, infatti, negli ultimi anni è stata osservata, nei cosiddetti Paesi ad alto reddito, la diffusione9 di mense per i poveri, food banks10 e altre iniziative messe in campo per affrontare un’emergenza, più che alimentare, economica. Il ricorso a questi strumenti rappresenta una delle strategie tra cui individui e famiglie si trovano a dover scegliere per far fronte all’insicurezza alimentare (Pfeiffer et al., 2015) o perché, in condizioni di necessità, possono essere indotti da altre spese meno flessibili, come luce, gas e affitto, a risparmiare proprio sul cibo (Tait, 2015; Dowler, 2003).
Se, da un lato, rivolgersi alle associazioni caritative rappresenta spesso l’ultima spiaggia (Tarasuk, Eakin, 2005), per via dello stigma e della vergogna che vi sono associati (Tarasuk, Eakin, 2014; Van der Horst et al., 2014), dall’altro occorre prendere atto che queste organizzazioni risultano essere, a livello operativo, più efficaci nell’intercettare le persone più bisognose (Campiglio, Rovati, 2009), soprattutto quelle escluse dai servizi di protezione sociale per assenza di titolarità, e che molte organizzazioni si stanno interrogando per provare a risolvere i problemi tradizionali del settore (Wakefield et al., 2013; Shimada et al., 2013) e sulle maniere di andare incontro a nuovi profili e bisogni dei riceventi (Popielarski, Cotugna, 2010).
Uno degli aspetti critici dei programmi alimentari d’emergenza è legato, in particolare, all’imprevedibilità dell’offerta, che rende le operazioni dipendenti dalle donazioni e dalla disponibilità di surplus più che dal bisogno dei riceventi, compromettendo così la continuità e la qualità nutrizionale del servizio (Vlaholias et al., 2015; Loopstra, Tarasuk, 2015; Midgley, 2014; Webb, 2013; Tarasuk, Eakin, 2005).
Anche per questo, dunque, le organizzazioni operanti in questo campo attingono, direttamente o tramite intermediari (come il Banco Alimentare in Italia o i vari franchise TrussellTrust e Feeding America nel Regno Unito e negli Usa) a diversi canali di approvvigionamento: sebbene una parte del fabbisogno debba spesso esser coperta tramite acquisti diretti sul mercato, le principali fonti rimangono donazioni, recupero di eccedenze ai vari livelli della filiera agroalimentare e nelle mense scolastiche e aziendali e raccolte nei supermercati, che coinvolgono direttamente anche i consumatori (Santini e Cavicchi, 2014; Lambie-Mumford, 2013; Poppendieck, 1994)
Se restringiamo il campo all’Europa, un canale primario è rappresentato dal Fondo di aiuti europei agli indigenti (Fead), recente evoluzione del Programme Européen d’aide alimentaire aux plus Démunies (Pead11), nato nel 1987 dalla proposta dell’allora Presidente della Commissione Europea, Jacques Delors. Il Pead, inserito in origine all’interno della Pac, prevedeva la distribuzione delle eccedenze produttive agli Stati membri, i quali aderivano su base volontaria. Concepito come misura economica in tempi in cui la produzione agroalimentare superava la domanda, il Pead si configurava come lo strumento più adatto a mantenere i prezzi dei prodotti agricoli, offrire un sostegno agli indigenti ed evitare, al contempo, la distruzione di cibo perfettamente commestibile (Caraher, 2015). Esso rappresentava, dunque, un punto d’incontro ufficiale e strutturato tra impiego delle eccedenze del sistema agroalimentare e assistenza agli indigenti, secondo un modello che, anche negli Usa, individua nei programmi pubblici di assistenza alimentare una combinazione di sostegno all’agricoltura e welfare state (Barrett, 2002).
Tuttavia, proprio il venire meno di questa funzione, dovuto al calo progressivo delle scorte d’intervento della Pac (che venivano compensate nel frattempo tramite acquisti alimentari sul mercato) ha innescato un dibattito interno all’Unione, giunto infine alla Corte di Giustizia europea e alla chiusura del programma nel 2013 (Caraher, 2015; Cavalli, 2015). Al suo posto, nel 2014 è stato istituito il Fead, obbligatorio per tutti gli Stati Membri e inquadrato non più nella Pac bensì nelle politiche sociali dell’Unione. Ciò ha determinato un analogo spostamento a livello dei singoli Stati Membri: in Italia, per esempio, l’attuazione del Fead è passata dal Mipaaf al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sebbene il compito diretto della gestione sia rimasto in capo all’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (Agea).
Anche nel caso degli aiuti europei, di provenienza pubblica, le associazioni caritative rappresentano l’ultimo anello della catena dell’assistenza: in Italia, otto enti caritativi riconosciuti[fb]Si tratta di: Croce Rossa Italiana, Caritas Italiana, Fondazione Banco Alimentare, Banco delle Opere di Carità, Associazione “Sempre insieme per la pace”, Comunità di Sant’Egidio, Associazione Banco Alimentare Roma. diramano i prodotti Agea attraverso una rete di 242 enti capofila a più di 15000 associazioni caritative periferiche (Agea, 2013). Tuttavia, mentre agli aiuti alimentari europei le associazioni accedono tramite una procedura standard, con una convenzione e precise norme di rendicontazione dell’impiego dei prodotti ricevuti, le altre modalità di approvvigionamento sono spesso frutto di relazioni dirette e di fiducia reciproca tra attori del territorio, nonché dell’impegno personale dei singoli, per lo più volontari, come è tipico di questo genere di organizzazioni (Eisinger, 2002).
Anche dal lato dei donatori, secondo Garrone et al. (2014), non c’è un processo strutturato e sistematico che regoli la donazione di eccedenze alle associazioni caritative, ma si tratta piuttosto dell’iniziativa del singolo individuo, il quale può cambiare ruolo o mansioni da un momento all’altro, determinando così la cessazione della pratica filantropica in questione. Secondo gli stessi autori, l’introduzione di procedure predefinite e chiare renderebbe più semplice, efficiente (in termini di tempo e personale dedicato) e prevedibile la gestione del surplus, possibilmente tenendo conto delle esigenze delle associazioni coinvolte (Garrone et al., 2014). Secondo Bazerghi et al. (2016), educando sia lo staff delle associazioni che i donatori riguardo ai prodotti più appropriati da ridistribuire, è possibile migliorare la capacità dei food banks di contribuire a ridurre l’insicurezza alimentare.
Dalla lotta allo spreco al diritto al cibo
Secondo alcuni autori (Booth e Whelan, 2014; Wakefield et al., 2013; Anderson, 2013; Lambie-Mumford, 2013), le associazioni che forniscono assistenza alimentare si trovano in una posizione unica per agire e indirizzare l’azione nelle tensioni tra aiuto caritativo, efficienza della filiera e diritti umani.
Allo stesso tempo, questi soggetti impegnano troppo tempo e risorse nell’ordinaria gestione del servizio per potersi concentrare efficacemente sull’esercizio di attività di advocacy, sacrificando alle inderogabili mansioni quotidiane quelle di più ampia portata politico-sociale.
Se, infatti, è necessario nel lungo periodo sostenere l’idea secondo cui un sistema agroalimentare che genera insicurezza e sprechi debba essere cambiato, è pur vero che, nel breve periodo, recuperare il cibo altrimenti destinato a diventare rifiuto per donarlo a chi non ce l’ha appare come la maniera più giusta di agire. Tuttavia, è lecito chiedersi: è giusto che siano associazioni non-profit e volontari a caricarsi dell’onere di rimediare alle inefficienze del sistema agroalimentare? Fino a che punto è auspicabile che le imprese e i governi demandino alla buona volontà e all’altruismo di una parte della società il compito di risolvere le pecche del sistema e del mercato, continuando a rimandare una discussione chiara, responsabile e inclusiva sul diritto al cibo? Non si tratta soltanto di rimediare alle inefficienze che causano gli sprechi o di individuare canali attraverso cui gestire, in maniera più efficace, situazioni d’emergenza: garantire il diritto umano al cibo implica andare ben oltre i confini del sistema alimentare, identificare titolari di diritti e titolari di doveri, analizzare i meccanismi che generano insicurezza alimentare e individuare precise responsabilità e soluzioni adeguate.
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- 2. Mentre in Canada e Usa esiste un apposito indicatore di food (in)security, in UE l’indice di deprivazione materiale dell’indagine EU-Silc è l’unico a contemplare la povertà dal punto di vista dell’insicurezza alimentare, definita in questo caso come il non potersi permettere un pasto adeguato almeno una volta ogni due giorni, cioè con proteine della carne, del pesce o equivalente vegetariano.
- 3. IlFattoAlimentare, 10 Febbraio 2016, “Spreco alimentare: la Francia stabilisce norme precise per i supermercati e i ristoranti. In Italia nessuna norma al riguardo”.
- 4. Proposta di legge Gadda ed altri: "Norme per la limitazione degli sprechi, l'uso consapevole delle risorse e la sostenibilità ambientale" (3057).
- 5. In occasione del Convegno “Spreco alimentare. Dalle parole ai fatti” del 6 ottobre 2015, è stato presentato a Expo il rapporto "Surplus Food Management Against Food Waste. Il recupero delle eccedenze alimentari. Dalle parole ai fatti" a cura di P. Garrone, M. Melacini, A. Perego del Dig - Politecnico di Milano, contenente i risultati dell’indagine citata.
- 6. Transmango (www.transmango.eu) è un progetto europeo finanziato nell’ambito del Settimo Programma Quadro (theme Kbbe.2013.2.5-01 - Assessment of the impact of global drivers of change on Europe's food security, Grant agreement no: 613532).
- 7. Ilfattoalimentare, 6 febbraio 2014, “Prodotti in scadenza: la lotta allo spreco alimentare si combatte nei supermercati. Coop, Auchan e Carrefour li vendono a metà prezzo”.
- 8. Da conversazioni personali con UniCoop Firenze, Caritas Pisa e Caritas Lucca.
- 9. Secondo Pfeiffer et al. (2015) in Germania i food banks sono aumentati del 54% solo tra il 2012 e il 2013. In Italia, le mense e i centri di distribuzione che ricevono prodotti Agea (vedi dopo) sono aumentati del 7,5% tra il 2010 e il 2013, ma il numero di persone raggiunte è quasi raddoppiato (+47,2%) nello stesso periodo (Agea, 2013). TrussellTrust, la maggiore Ong operante in questo settore nel Regno Unito, riporta “che più di 350mila persone si sono rivolte ai (suoi) food banks nel 2012-2013, quasi il triplo dell’anno precedente” (trad. nostra da TrussellTrust, 2013).
- 10. I food banks svolgono, in alcuni casi, un ruolo di intermediari tra associazioni e assistiti (come il Banco Alimentare italiano), mentre in altri hanno una relazione diretta con l’assistito (nel Regno Unito per esempio), al quale distribuiscono quanto viene recuperato dalla filiera alimentare. In questo caso specifico, si usa il corsivo per far riferimento alla letteratura scientifica esistente, soprattutto anglosassone, e il termine viene usato nella seconda accezione.
- 11. Spesso indicato anche come Mdp (Food Aid Programme to the Most Deprived Persons in the Community).