Competere sui mercati agroalimentari per le imprese agricole è cum petere

Competere sui mercati agroalimentari per le imprese agricole è cum petere
Dall’azienda agricola, all’associazionismo sopraindividuale ai progetti integrati di filiera

Introduzione1

Dal funzionamento dei moderni mercati agroalimentari emerge, secondo l’opinione di (molti, non tutti) policy maker2, studiosi, operatori economici e organizzazioni dell’agricoltura, come l’obiettivo della competitività (sostenibilità economica) del settore primario abbia sempre di più a che fare con l’innovazione, una delle parole chiavi del nuovo periodo di programmazione comunitaria, da intendere in senso lato, e con la qualità, l’intensità e la durata delle relazioni intessute dall’impresa agricola con altre imprese agricole, nonché, semplificando, con imprese della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti, della logistica, della distribuzione e della ristorazione operanti nella stessa filiera o territorio3. Analogamente, l’obiettivo della sostenibilità ambientale dell’agricoltura, ai fini del perseguimento di un’elevata qualità ambientale degli agro ecosistemi, e, anzi, della resilienza dei medesimi, richiederebbe forme di collaborazione tra imprese agricole dello stesso territorio4. La sostenibilità economica e la sostenibilità ambientale si sarebbero, dunque, spostate dall’impresa agricola singola verso sistemi più complessi di ordine (grado) superiore, da riferire al fenomeno dell’associazionismo sopraindividuale. Il presente lavoro, che reca sullo sfondo la realtà agroalimentare del Piemonte, mira a dimostrare che:

  • l’associazionismo sopraindividuale costituisce, nelle sue diverse accezioni, uno strumento strategico di auto governo del mercato agroalimentare;
  • le Regioni hanno la possibilità di conferire maggiore efficacia ai Programmi di sviluppo rurale 2014-2020 traducendo, a certe condizioni, la specie dell’associazionismo sopraindividuale rappresentato dalle filiere agroalimentari nei Progetti integrati di filiera (Pif) ed attribuendo a questi obiettivi di sostenibilità economica, ambientale e sociale.

L’associazionismo sopraindividuale

L’associazionismo sopraindividuale che interessa in questa sede esaminare è tanto quello espressione dell’agricoltura (dei produttori agricoli), cui appartengono, secondo discipline, caratteristiche e modalità operative differenti, le reti di imprese agricole, le cooperative agricole, che svolgono attività di coltivazione del terreno, l'allevamento di animali e la silvicoltura, le cooperative agroalimentari, che esercitano l'attività diretta alla manipolazione, trasformazione, conservazione e commercializzazione di prodotti agricoli e zootecnici, e le organizzazioni di produttori, quanto quello riferibile all’agroalimentare, comprensivo delle organizzazioni interprofessionali e delle filiere  agroalimentari. A ben guardare la diffusione e la persistenza nelle stesse economie agricole e agroalimentari di forme diverse di associazionismo sopraindividuale, che tutte postulano la presenza di imprese agite da propensioni collaborative, sembrano contrastare:

  • sia con le linee di pensiero (solo del passato?) che ritengono l’organismo sociale “mercato” in grado di funzionare perfettamente sebbene ogni attore operi in autonomia, con scelte decentralizzate, e che individuano un aspetto fondamentale del funzionamento dei mercati in un meccanismo (la concorrenza) capace di trasformare, tramite la c.d. mano invisibile (di smithiana memoria), una sommatoria di interessi individuali perseguiti dalle singole imprese per il massimo utile (profitto) in benessere per tutta la società;
  • sia con la percezione assai diffusa tra gli operatori di mercato e la “gente comune” che individua nel mercato il luogo ideal-tipico in cui gli individui sono motivati all’azione dal solo interesse proprio e in cui l’unico giudizio di valore che conta è quello di efficienza, inteso come giudizio di adeguatezza dei mezzi rispetto alla massima realizzazione possibile degli interessi di chi prende parte alla contesa di mercato5.

In relazione, in particolare, ai moventi ideali dell’economia di mercato sono molti a ritenere, e non si tratta solo di operatori di mercato, che sarebbero in fondo i vizi e non già i valori (le virtù) a mandare avanti i mercati. Al riguardo, John M. Keynes (1883-1946), riflettendo nel 1931 sul rapporto tra “economia, vizi e virtù”, concludeva - citiamo a memoria - che per molti decenni ancora sarebbe stato necessario far buon viso a cattivo gioco, fingendo le virtù essere vizi ed i vizi essere virtù. Nelle citate proposizioni vi è un qualcosa di fuorviante, aspetto che merita sviluppare. In sintesi:

  • sono molteplici gli studi e le evidenze empiriche che relativizzavano, anche con riferimento alle economie agroalimentari, l’importanza dei meccanismi allocativi di mercato, a beneficio di meccanismi dialogici e del coordinamento delle decisioni tra le imprese, ricchi di potenzialità vietate ai postulati dell’assolutismo del mercato atomistico;
  • le imprese non si comportano come atomi (monadi) destinati a incontrarsi, o, meglio, scontrarsi, solo all’atto della compravendita dei prodotti per poi tornare nel proprio recinto aziendale, non fosse altro perché la divisione del lavoro è carattere costitutivo dei sistemi economici6;
  • non ha riscontro nella realtà la teoria per cui le decisioni assunte autonomamente dalle imprese conducono, in ogni caso, a una situazione di equilibrio di mercato, poiché così non si spiegherebbe il manifestarsi a livello “macro” di crisi economiche.

In definitiva, dall’osservazione delle stesse economie agroalimentari non trova sostegno la tesi che vuole le imprese intendere, comunque, la competizione di mercato in modo agonistico, mentre sono molte le imprese che per moventi ideali (Bruni L., Smerilli A., 2010) danno origine ad altre imprese (si pensi alle cooperative) o che per la loro stessa utile esistenza si inducono a collaborare con altre imprese dal punto di vista commerciale e non solo, dando vita a forme diverse di associazionismo sopraindividuale, di cui sono esempi, per quanto qui interessa, le cooperative, le organizzazioni di produttori e le filiere7.
In concreto, l’associazionismo sopraindividuale, sebbene di diversa specie, si esprime sempre nella costruzione di un “fattore organizzativo” consapevole e collettivo al di sopra delle singole imprese, in grado di produrre beni e servizi collettivi, di promuovere innovazione di processo e di prodotto, di determinare consenso tra i partecipanti sulle regole di partenariato occorrenti, di favorire l’integrazione delle fasi produttive e delle risorse, di tener insieme economie di scala, di scopo e di conoscenza e una distribuzione del reddito più perequata. L’associazionismo sopraindividuale si presta ad essere letto, nel caso in esame, anche come un mezzo in possesso dell’agricoltura per una “parziale” estraneazione rispetto agli effetti degli andamenti dei c.d. mercati internazionali delle commodity e dintorni. Non da ultimo, l’associazionismo sopraindividuale espressione dell’agricoltura e dell’agroalimentare si propone come orientamento all’implementazione di politiche pubbliche innovative dotate di maggiore efficacia8. Da parte sua, la presente crisi, tutt’altro che solo economica e che riguarda anche i mercati agroalimentari, si incarica di attestare come sia fallace quell’ideologia, travestita di scientificità, cui si sono approcciate le imprese, pubbliche istituzioni, ecc, nonché la scuola di pensiero economico ancora dominante, la quale, a partire dall’assunto antropologico (non una proposizione verificata) dell’homo oeconomicus (un uomo tutto avidità e egoismo), giunge alla conclusione che i mercati sono assetti istituzionali in grado di autoregolazione e ciò nel duplice senso di assetti capaci di darsi da sé le regole per il proprio funzionamento e, inoltre, di farle rispettare (Zamagni S., 2008; Bruni L., Zamagni S., 2009). La crisi attesta, altresì, che l’economia, come la vita di tutti i giorni, non ha un’esistenza possibile (utile) separata dai beni relazionali, quali fiducia, lealtà, trasparenza, reciprocità e equità. La crisi assume, infine, connotazione di giudizio severo sul principio della competizione esasperata, intrinseca al finanz-capitalismo9, una competizione senza fine e senza fini morali, e dimostra, a nostro avviso, che il mercato è fisiologicamente collaborativo (cooperativo) oppure non può funzionare e, anzi, fallisce per l’incapacità di perseguire il bene comune (bene di ciascuno e di tutti)10, conducendo a mondi convenzionali qual è quello della finanza creativa. Insomma, senza l’homo reciprocans non può darsi quell’economia del noi di cui abbiamo disperatamente bisogno.

Competitività e redditività dell’azienda agricola: il ruolo della cooperazione agroalimentare   

Nel paragrafo precedente si è argomentato intorno alla capacità competitiva dell’associazionismo sopraindividuale, senza approfondire più di tanto la nozione di competitività. Le definizioni di competitività richiamate tanto nel linguaggio economico quanto nella pratica economica evocano, con vari accenti, l’idea di lotta (spietata!) per riuscire vincitore, di contesa senza esclusione di colpi e con auto-esclusione di colpe (morali), di concorrenza in rivalità con altri. Il termine “competere”, a ben vedere, deriva dal latino cum-petere, dove il verbo petere ha significato di chiedere per avere, dirigersi verso, tendere a, mentre la preposizione cum indica specificamente aggregazione, unione. Qui accogliamo, anche sulla base della nostra esperienza di lavoro, la prospettiva dell’economia civile, per la quale l’idea di competizione - nella versione latina, appunto, del cum-petere - è da intendere come collaborare, cooperare11. In questa visione di “economia per progetto” la capacità di creare valori pubblici sociali e ambientali è considerata frutto di una cooperazione che dalle imprese private si apre, per esempio, ad istituti di ricerca e organizzazioni di consumatori e no della società civile e che è sottoposta, comunque, al vincolo della sostenibilità economica. L’obiettivo, dunque, è quello di massimizzare gli esiti comuni del processo, pur assicurando la remunerazione dei fattori produttivi impiegati (Di Iacovo F., Fonte M., Galasso A., 2014). Se la nozione di competitività può essere riferita, per quanto qui interessa, oltre che al settore agricolo, al sistema agroalimentare nel suo complesso, alle filiere agroalimentari e a sistemi territoriali, quali i distretti, a realtà diverse dell’associazionismo sopraindividuale agricolo ed agroalimentare, appare scontato che essa sia da riferire, stricto sensu, all’impresa singola e cioè, nel caso in esame, all’azienda agricola, la cui natura è quella di essere un sistema aperto. Cosa intendere, allora, per competitività dell’impresa agricola? Un’impresa agricola risulta competitiva se operando in mercati contendibili, in cui c’è ragione (possibilità concreta) di gareggiare, si mantiene vitale nel tempo acquisendo, conservando e magari accrescendo quote di mercato che consentano all’imprenditore di ottenere un reddito ritenuto soggettivamente adeguato. Detto in altro modo, un’impresa agricola mostra capacità competitiva quando, per rispondere alle esigenze della clientela, si “ingegna” a generare, con l’utilizzo di risorse interne e di componenti dell’ambiente esterno, flussi di benefici economici per remunerare i fattori della produzione. In ultima analisi, l’impresa agricola moderna persegue i suoi obiettivi di competitività attivando strategie e comportamenti in funzione della soddisfazione della clientela, secondo i casi consumatore intermedio o finale, una clientela sempre più esigente in fatto di qualità igienico-sanitaria, organolettica, tecnologica, ecc. dei prodotti che acquista. Il linguaggio del marketing aiuta a dire che il vantaggio competitivo per l’impresa agricola sta nel creare valore per il cliente12. Ne consegue che un’azienda agricola è tanto più competitiva quanto più vantaggiosamente riesce a stabilire, in virtù della differenziazione (specializzazione, personalizzazione) del prodotto o dei prodotti aziendali13, una relazione diretta14 e continuativa con il cliente diretto e quanto più contribuisce al successo commerciale del prodotto finale (Mazzarino S., Pagella M., 2003). La redditività, cioè la capacità dell’impresa di produrre reddito (utili), è un indicatore che riveste un ruolo di primo piano nel valutare il livello competitivo di un’impresa. Le strategie di cui l’imprenditore dispone per promuoverne la competitività, che è un processo continuo, a fini della massimizzazione del reddito aziendale - o dell’ottenimento di un livello di reddito aziendale ritenuto soddisfacente dall’imprenditore stesso - comprendono, avuto riguardo ai fattori interni (soggettivi ed oggettivi) ed esterni all’impresa, tanto la competitività da costi quanto la competitività da differenziazione qualitativa (dei prodotti), senza presupporre un’incompatibilità tra le due dimensioni della competitività. Atteso che le ragioni di fondo che spiegano la competitività dell’impresa agricola sono, mutatis mutandis, le stesse evocate per la competitività di sistemi di grado superiore, risulta evidente come “al giorno d’oggi” la competitività dell’impresa agricola non possa più prescindere dalla competitività dei sistemi di grado più elevato ed in primis di quelli espressione delle stesse imprese agricole. In effetti, la capacità competitiva, e dunque di ottenere reddito, delle imprese agricole, appare, tranne eccezioni, l’esito di relazioni culturali ed economiche a livello di territorio/filiera, in cui si “dipana” una complessa trama di attività (produzione, trasformazione, commercializzazione, servizi annessi, ricerche e sperimentazioni, ecc.) ed in cui si è di fronte ad un’estrema eterogeneità di attori che contribuiscono alla produzione di beni e servizi. Anche la competitività delle imprese agricole piemontesi, sottolineata una loro permanente difficoltà di accesso al mercato, dipende, con una realtà di mercato globalizzata, sempre più dalla creazione, dall’interazione e dall’integrazione sul territorio/filiera con altre imprese. La stessa economia agricola ed agroalimentare subalpina offre numerosi esempi di tali sistemi, quali le filiere dei cereali, del latte bovino e derivati, della frutta e del Moscato, i distretti dei vini e del riso, per non parlare del distretto floricolo del Lago Maggiore. C’è, tuttavia, da notare che pure in Piemonte alcuni di questi sistemi - si pensi, tra gli altri, al distretto del riso - paiono, per quanto rivesta importanza tale distinzione, più aggregazioni che sistemi, poiché grande rilievo assume ancora l’intermediazione commerciale, stentano a diffondersi forme consolidate di economia contrattuale15 tra produzione e trasformazione (riserie) non cooperative e ancora modesta, tranne eccezioni, è in genere la concentrazione dell’offerta primaria.  In effetti, l’evidenza empirica mostra come solo in alcune realtà produttive o territoriali piemontesi l’associazionismo agricolo, nonostante gli interventi comunitari in materia di organizzazione e concentrazione dell’offerta agricola, sia riuscito ad assumere a pieno il ruolo richiesto dai mercati agroalimentari moderni, nei quali la concentrazione della produzione costituisce “necessità economica” per consolidare la posizione degli agricoltori ed aiutarli ad affrontare le sfide su cui la medesima nuova Pac scommette. Le stesse differenziazioni del prodotto (denominazioni di origine, sistemi di garanzia della qualità, ecc.), di cui pure il Piemonte è particolarmente ricco e che costituiscono, a ragione, “vanto” delle cooperative subalpine, rappresentano, per specifica ammissione degli stessi operatori della cooperazione, condizioni necessarie ma non sufficienti a recare adeguati e duraturi vantaggi di prezzo ai produttori agricoli, in mancanza di organizzazione e concentrazione dell’offerta agricola. In generale, la teoria economica e l’esperienza dimostrano che, a causa dello spostamento del potere di mercato lungo le filiere verso la trasformazione e, ancor più, verso la distribuzione moderna, è il resto della filiera e non i produttori agricoli a trarre i maggiori vantaggi dall’istituzione dei suddetti segni della qualità (Frascarelli A., 2009). Se, dunque, anche in presenza di segni della qualità il potere di mercato continua a restare nelle mani degli acquirenti ciò conferma l’esistenza di un problema irrisolto di concentrazione dell’offerta primaria; in positivo, possiamo concludere che la concertazione dell’offerta dei produttori nelle cooperative e nelle organizzazioni di produttori, tanto più efficace quanto più realizzata a lotti differenziati, costituisce il fattore competitivo per eccellenza in mano alle imprese agricole (Sabbatini M. 2007) e rappresenta, al contempo, il presupposto indispensabile perché le imprese agricole possano partecipare, come filiere cooperative di prodotto, in modo profittevole alle filiere e cioè al mercato (Giacomini C., 2011). Inoltre, quanto più l’ambiente competitivo si amplia dal punto di vista geografico, quanto più i mercati si diversificano, quanto maggiore è l’effetto dei fattori esogeni all’impresa rispetto a quelli interni, tanto maggiore è l’interesse dell’impresa agricola ad essere parte, per garantirsi maggiore competitività, dei citati sistemi di ordine superiore. Il Rapporto 2014 dell’Osservatorio della Cooperazione agricola italiana conferma tali tesi (Osservatorio della Cooperazione agricola italiana, Mipaaf, Rapporto 2014); a più riprese nel Rapporto si legge che la capacità competitiva nelle filiere agroalimentari delle cooperative più organizzate, grazie alla progressiva implementazione delle funzioni di trasformazione e di proiezione commerciale sul mercato “domestico” ed estero, si riflette, a fronte di un’analisi di lungo periodo, in una differenza tra i prezzi di liquidazione della materia prima conferita dai soci e quelli di mercato di produzioni agricole omogenee. La nostra conoscenza del sistema cooperativo piemontese ci porta, peraltro, a sostenere che a fini della fidelizzazione della base sociale, oltre all’esercizio di una governance democratica, elemento centrale di valorizzazione del rapporto socio-cooperativa, la garanzia del pagamento e del ritiro della materia prima ha importanza eguale se non superiore alla sua adeguata remunerazione16. Grande rilievo assume anche in Piemonte la fornitura da parte delle cooperative di mezzi tecnici e/o di servizi funzionali all’attività produttiva agricola (sperimentazione applicata, formazione professionale, assistenza tecnica utile indirizzare i prodotti dei soci in modo coerente all’evoluzione del mercato, assistenza contabile e fiscale, ecc.). Si consideri, inoltre, che una sfida per la cooperazione piemontese è quella, da un lato, di essere polo di attrazione degli imprenditori agricoli più avanzati e che dispongono di aziende di maggiori dimensioni economiche e, dall’altro, di promuovere il ricambio generazionale nella propria base sociale. Insomma, l'autonomia operativa e la vitalità di centinaia di migliaia di aziende agricole in Italia e di decine di migliaia in Piemonte, anche in prospettiva, appaiono legate alla cooperazione.

Imprese agricole, cooperative e filiere agroalimentari

Tra le caratteristiche strutturali delle filiere agroalimentari italiane che ne determinano il livello di efficienza e di competitività ci si limita a citare in questa sede la polverizzazione della fase produttiva, l’insufficiente grado di aggregazione, l’elevato grado di concentrazione nella fase distributiva/commerciale, la dipendenza dall’estero per molte produzioni (anzitutto materie prime agricole). In effetti le filiere agroalimentari in Italia non paiono né eque rispetto alla distribuzione del valore aggiunto, né efficienti, poiché oltre la metà della spesa alimentare degli italiani va a remunerare i beni/servizi offerti da imprese dei settori dell’intermediazione bancaria, del packaging, del trasporto e della logistica, il cui peso è fortemente cresciuto negli ultimi 15 anni. Emerge, dunque, che la sempre maggiore integrazione dell’agricoltura italiana - reale od auspicata - non garantisce di per sé i risultati di reddito attesi e necessari alla sua vitalità. Un recupero di efficienza sul piano dei costi interni e esterni delle imprese sarebbe in grado sia di liberare risorse, sia di sostenere i ridotti utili dei vari operatori della filiera e innanzitutto di quelli degli imprenditori agricoli e sia di ridurre i prezzi al consumo. Sembra richiesto, quindi, un cambiamento strategico delle filiere agroalimentari italiane e piemontesi che poggi, come sostenuto, su una maggiore concentrazione dell’offerta primaria in capo alle cooperative, condizione necessaria, questa, per la stessa diffusione dell’economia contrattuale17. Le filiere agroalimentari sono chiamate, in altri termini, a scegliere a quale modello di competizione di mercato tendere, cioè se realizzare quello di tipo posizionale, tuttora prevalente, oppure imboccare il modello di competizione cooperativo (collaborativo). La stessa fase della produzione agricola è necessitata a cogliere le opportunità legate in primo luogo ai noti benefici che derivano da un’organizzazione aggregata (economie di scala, esterne e di agglomerazione). L’integrazione tra imprese può assumere diverse forme secondo le funzioni da assolvere. È un dato di fatto che, “complici” programmi pubblici specificamente orientati, sono sempre più numerosi i giovani che ricorrono a forme di associazionismo/collaborazione con altre imprese o partecipano a progetti di integrazione, per meglio affrontare problematiche critiche e spesso decisive per l’avvio di attività, per collocarsi in un contesto di mercato caratterizzato da elevata instabilità e competitività, per accedere al credito, per realizzare cospicui investimenti iniziali, per necessità di interventi di formazione e innovazione. E’ da segnalare l’interesse della cooperazione agroalimentare piemontese a promuovere presso la base sociale la costituzione di nuove cooperative di conduzione associata di terreni ed allevamenti, che possono vedere protagonisti in specie giovani agricoltori, a favore dei quali prevedere azioni di accompagnamento, orientamento e sostegno nella realizzazione di progetti di crescita imprenditoriale o per l’avvio di nuove iniziative. Così come interessante è la prospettiva del movimento cooperativo piemontese di offrire soluzione innovative, in termini anche di intercooperazione, a realtà cooperative insediate in aree montane, si pensi ai caseifici di valle, per garantire ad esse il proseguimento economico di un’attività produttiva “fatta” di prodotti pregiati ed alla collettività il presidio del territorio. Appare, dunque, compito della politica regionale di sviluppo rurale dar vita a strumenti di intervento ad approccio integrato che valorizzino, al fine del perseguimento di beni (obiettivi) pubblici legati all’agricoltura (sicurezza, qualità e salubrità degli alimenti, occupazione, coesione sociale, equità, conservazione del suolo, riproduzione risorse naturali, paesaggio ecc.), la centralità delle forme di integrazione tra le imprese delle filiere secondo il modello collaborativo.

Competitività, redditività e filiere: parole chiave dello sviluppo rurale e del Psr 2014-2020 della Regione Piemonte

Termini quali competitività, redditività e filiere, ed ancora integrazione, beni pubblici e territorio, compaiono come parole chiave dello sviluppo rurale del nuovo periodo di programmazione. Si consideri, ad esempio, la terza priorità dello sviluppo rurale per la quale per “migliorare la competitività dei produttori primari” occorre integrare meglio questi ultimi “nella filiera agroalimentare attraverso i regimi di qualità, la creazione di un valore aggiunto per i prodotti agricoli, la promozione dei prodotti nei mercati locali, le filiere corte (ed accorciate), le associazioni e organizzazioni di produttori e le organizzazioni interprofessionali”. Ai problemi dell’integrazione di filiera dedica significativa attenzione l’analisi di contesto del Psr 2014-2020 della Regione Piemonte (Regione Piemonte, Programma di sviluppo rurale, 2014), trasmesso ai servizi della Commissione il 1° settembre 2014 ed in fase avanzata di negoziazione, in cui si evidenzia che in Piemonte “la componente agricola mostra un’ampia presenza di organismi associativi ma la capacità di concentrare l’offerta è nel complesso ancora insufficiente”. Coerentemente il fabbisogno 7 Sviluppare forme di integrazione orizzontale e verticale nelle filiere agroalimentari, no food e forestali sottolinea che “la qualificazione produttiva, essenziale per incrementare la quota di valore aggiunto trattenuta dalle imprese, richiede la condivisione di strategie di mercato di medio e lungo periodo che necessitano di irrobustiti meccanismi di raccordo verticale (ad esempio attraverso lo sviluppo della cooperazione, la realizzazione di contratti di filiera e contratti interprofessionali) e di integrazione orizzontale (in particolare per quanto concerne la concentrazione e la gestione dell’offerta)”. La strategia del Psr della Regione Piemonte si articola in tre obiettivi fondamentali: 1. Stimolare la competitività del settore agricolo, agroalimentare, no food e forestale; 2. Contribuire alla gestione sostenibile delle risorse naturali e all’azione per il clima; 3. Contribuire a un equilibrato sviluppo economico, sociale e territoriale delle aree rurali. Il Psr precisa che “la competitività del sistema agroalimentare e forestale regionale può essere supportata con azioni di innovazione tecnologica e organizzativa volte a favorire la qualificazione produttiva e la riduzione dei costi, la diversificazione, una migliore integrazione di filiera, il ricambio generazionale, il supporto alla penetrazione dei mercati”. Esaminando la prima versione del Psr 2014-2020 della Regione Piemonte ci è parso cogliere, tra l’altro, quanto segue:

  • la difficoltà del settore primario subalpino, nel suo complesso, di incrementare il valore aggiunto regionale e di contrastare l’insoddisfacente trend della redditività delle aziende agricole subalpine, con gli indicatori a mostrare livelli di redditività inferiori alle regioni italiane comparabili, è fenomeno riconducibile alla modesta capacità della componente agricola di aggregare l’offerta, nonostante la presenza di organismi associativi specie in alcuni comparti (cerealicolo, frutticolo e vitivinicolo), nonché a molteplici altri elementi di criticità all’interno dei rapporti delle diverse filiere;
  • l’evoluzione del sistema agroalimentare piemontese richiede di intervenire sulle strutture aziendali singole ma anche e soprattutto sull’assetto organizzativo complessivo quali i rapporti di integrazione orizzontale e verticale dentro le filiere;
  • è da meditare attentamente l’opportunità che il nuovo Psr della Regione Piemonte faccia “sua” la forma dell’associazionismo sopraindividuale rappresentata dalla filiera e la traduca nello strumento di attuazione denominato Pif, valutando, anche, che in seno od in collegamento ai Pif si provveda a promuovere l’associazionismo sopraindividuale connesso, da un lato, all’integrazione tra imprese agricole per la conduzione associata di terreni ed allevamenti e, dall’altro, ad un’applicazione interaziendale delle misure agro climatico ambientali.

Il Pif strumento per conferire maggiore efficacia ai Psr e per sostenere la ristrutturazione e l’innovazione delle filiere

Nel seminario propedeutico al nuovo Psr, organizzato dalla Regione Piemonte il 27 novembre 2014, è stato sostenuto che i Pif sono in grado di garantire un approccio multisettoriale con il coinvolgimento di attori e risorse della filiera, di rafforzare le prassi partenariali, di sostenere la ristrutturazione e l’innovazione delle filiere, con un aumento della qualità e della distintività commerciale delle produzioni, di mirare alla conquista di nuovi mercati in specie esteri, di consolidare reti contribuendo a creare capitale sociale, di migliorare l’offerta, la gestione e l’utilizzo di beni collettivi, di portare maggiore equità nelle filiere. Si è inteso essere fondamentalmente il valore aggiunto dei Pif quello di favorire (derivare da) una visione sistemica dello sviluppo, offre maggiori garanzie di efficacia al Psr stesso nella risoluzione dei nodi e dei nodi strutturali del settore agricolo ed agroalimentare. Non a caso nel Seminario si è fatto esplicito riferimento alla seguente definizione di filiera agroalimentare: “l’insieme delle attività che concorrono alla produzione, distribuzione, commercializzazione e fornitura - corsivo nostro - di un prodotto agroalimentare strettamente interconnesse dalla fitta rete di relazioni instauratesi tra operatori economici, sociali e istituzionali” (Rrn, 2010). A nostro avviso, il Pif nell’ottica del Psr è, dunque, uno strumento di valorizzazione a fini pubblici dell’economia per progetto che implica una nuova visione di responsabilità di impresa (Bruni, L., 2012), cioè, come avvertito, un’idea di competizione collaborativa tra attori privati che, per quanto sottoposta al vincolo della sostenibilità economica, si apre a valori pubblici sociali e ambientali. In sintesi:

  • il Pif appare lo strumento idoneo per conferire maggiore efficacia al Psr rispetto all’approccio tradizionale delle politiche pubbliche fondate sull’intervento singolo;
  • il soggetto capofila del Pif non può che essere un’organizzazione di produttori in ragione del ruolo svolto nelle filiere e della sua capacità di mobilitare attorno a sé il partenariato privato e pubblico;
  • il Pif si prospetta come l’occasione per favorire, mediante un’apposita strumentazione (criteri di ammissibilità e di selezione, appropriata “batteria” di incentivi, ecc.), una maggiore concentrazione dell’offerta agricola, ciò che postula l’attribuzione nel Pif di una funzione centrale alla filiera cooperativa;
  • il Pif è l’esito di una strategia comune e condivisa nel partenariato filiera per una sostenibile intensificazione della produzione agricola, per perseguire congiuntamente l’obiettivo della produttività fisica (propedeutico all’obiettivo della redditività) e l’obiettivo della sostenibilità ambientale dei processi produttivi, ha da tradursi in un insieme organico di interventi individuali e di sistema di operatori economici, sociali e istituzionali e trova fondamento nella cessione dei prodotti dalle imprese della fase agricola alle imprese delle fasi a valle e dunque nell’economia contrattuale18;
  • nel Pif il soggetto perno è costituito dalle imprese, cooperative e no, di trasformazione e commercializzazione dei prodotti, da ciò derivando che la misura “regina” dei Pif, cui destinare adeguate risorse finanziarie, è quella per esse disciplinata dall’articolo 17, Investimenti in immobilizzazioni materiali, comma 1, lettera b del Reg. 1305/2013;
  • il Pif deve portare vantaggi concreti e misurabili per le imprese agricole aderenti in termini di garanzia di collocamento/ritiro del prodotto nel medio periodo e di reddito;
  • un Pif per essere credibile deve prevedere accordi di collaborazione tra le imprese coinvolte che vadano oltre i Pif stessi e per ciò stesso interventi sul versante dell’innovazione di processo e di prodotto;  
  • il Pif deve allargarsi ai temi dell’adattamento ai cambiamenti climatici, alla gestione sostenibile del suolo e delle risorse idriche, per cui soccorrono azioni coordinate tra gli agricoltori della filiera e gli altri gestori del territorio.

Insomma, il Pif pare essere lo snodo centrale per avviare, tramite i Psr, una politica di sviluppo rurale di segno diverso ed in discontinuità con il passato, dove le leve e i fattori su cui intervenire riguardano l’organizzazione produttiva, le infrastrutture, la commercializzazione (l’economia contrattuale, l’internazionalizzazione, nuove relazioni con la Gdo, un importante beneficiario indiretto dell’approccio di filiera, e la logistica ecc.), il sistema socio-economico (le infrastrutture, il credito), la pubblica amministrazione e l’ambiente.
Quanto esposto ha cercato di declinare il Pif sotto le dimensioni della sostenibilità economica, sociale ed ambientale (Canali G., 2014), il che, se ha come base un diverso sentiment delle imprese delle filiere, deve vedere protagonista l’infrastrutturazione istituzionale19. Solo così sarà possibile avviare grazie a Pif di nuova generazione una stagione di equità concertata lungo le filiere agroalimentari, che si risolva a favore innanzitutto dei produttori agricoli, dei consumatori e dell’ambiente.

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  • Zamagni S. (2008), L’economia del bene comune, Città nuova Editrice, Roma

  • Zamagni S. (2008), La lezione e il monito di una crisi annunciata, Working Paper n.56, Università di Bologna in collaborazione con Aiccon

  • 1. Il lavoro è frutto delle lezioni tenute dall’autore al Master dell’Università degli studi di Torino, Anno accademico 2014-2020, “Sostenibilità del territorio e della filiera agroalimentare”, Corso di “Economia del territorio e del settore agroalimentare”. L’autore ringrazia il Dr Roberto Cagliero di Inea, il Dr Stefano Massaglia di Disafa dell’Università di Torino ed il Direttore di Fedagri Piemonte, Domenico Sorasio, e collaboratori per i suggerimenti espressi nei confronti di una prima versione dell’elaborato. Ogni responsabilità per quanto scritto resta, comunque, dell’autore.
  • 2. L’arte della politica economica partecipata (democratica), se si vuole fare tesoro dell’insegnamento di Federico Caffè, deve certo partire dalla conoscenza della realtà istituzionale, sociale, comportamentale ma non può che fondarsi sulla capacità di indignarsi per ciò che viola i principi etici fondamentali e quelli della razionalità economica e non può che orientarsi a porre rimedio a disuguaglianze ed inefficienze. Insomma, non basta concepire programmi adeguati ma occorrono strumenti “giusti” per la loro attuazione, strumenti che chiamano in causa la responsabilità degli attori privati.
  • 3. La scuola di pensiero economico ancora dominante si è occupata della relazionalità umana ma rinchiudendosi nei territori dell’individuo e della sua razionalità e arrestandosi sul limitare delle dimensioni più importanti della vita. La cultura individualista, che, per esempio, in Italia contesta il personalismo della nostra Costituzione, nega che le relazioni siano costitutive dell’umanità dell’uomo.
  • 4. Come noto, il I pilastro della Pac 2014-2020 prevede la possibilità di ottemperare collettivamente all’obbligo di costituzione delle Aree d’Interesse Ecologico purché adiacenti e nel rispetto di un complesso di ulteriori vincoli. Nel caso del II pilastro toccherà ai Programmi di sviluppo rurale 2014-2020 orientare l’applicazione delle misure agro climatico ambientali considerando, almeno così si auspica, in maniera adeguata la dimensione territoriale dei beni pubblici ambientali. D’altronde, la mitigazione dei cambiamenti climatici e l’adattamento ad essi, la conservazione della biodiversità, la gestione sostenibile delle risorse idriche, la valorizzazione del paesaggio rurale, ecc., appaiono obiettivi concretamente raggiungibili solo promuovendo un’azione coordinata tra gli agricoltori e gli altri gestori del territorio operanti in una medesima area. Per la strutturazione degli interventi sono da tenere presenti sia i benefici di tale approccio, sia le difficoltà nell’implementare in maniera efficace strategie integrate a livello territoriale.
  • 5. In tale ambito non può attribuirsi agli attori del processo di mercato altro scopo se non quello del più alto possibile profitto. Ne deriva che un mercato siffatto non può farsi carico di fini di giustizia sociale e, dunque, nel caso in oggetto, di una più equa distribuzione, a favore delle imprese agricole, del valore aggiunto delle filiere agroalimentari.
  • 6. I processi economici sono primariamente processi di interazione tra persone.  Lo stesso atto di compravendita non è riducibile allo scambio di equivalenti, merce contro denaro, ma è l’incontro tra persone che proprio per questo è destinato spesso a replicarsi. Insomma, nei processi economici oltre che il valore d’uso e il valore di scambio ha rilievo il valore di legame. L’economia standard studia le interazioni sociali ma rischia di assimilarle alle relazioni interpersonali in cui l’identità dei soggetti coinvolti è costitutiva della relazione stessa.
  • 7. L’ampia evidenza empirica conferma che le persone del mondo reale entrano in rapporti di cooperazione non solo per perseguire il proprio interesse ma anche perché interessate a vivere valori come democrazia, giustizia sociale, libertà.
  • 8. I livelli organizzativi dell’associazionismo sopraindividuale sono quelli dell’integrazione orizzontale, verticale e territoriale.
  • 9. Identificando l'economia di mercato con quella capitalistica e non potendo mettere più in discussione l’economia di mercato si finisce per non porre più in discussione neanche il capitalismo od il modello liberista. L'economia di mercato nasce prima del capitalismo e conosce varie forme non-capitalistiche che hanno convissuto e convivono con il capitalismo; si pensi al movimento cooperativo.
  • 10. Sui fallimenti del mercato che interessano i sistemi agricoli ed agroalimentari si rinvia a Frascarelli A. e Sotte F, 2010 Per una politica dei sistemi agricoli e alimentari dell'UE, Agriregionieuropa, anno 6, n°21, Giugno 2010 [link], non senza aver notato che i fallimenti nei mercati agroalimentari sono alla base, a guardar bene, della stessa Pac.
  • 11. Qui si intende per economia civile l’insieme di esperienze e teorie economiche che nascono dal primato del principio di reciprocità. Per l’economia civile il mercato, l’impresa, l’economico sono in se stessi luoghi di amicizia, reciprocità, fraternità. Per Luigino Bruni la storia della cooperazione italiana mostra, in particolare, la possibilità di retrodatazione dell’azione cooperativa alla lunga tradizione italiana di economia civile (Bruni L., 2012). Su economia civile, economia cooperativa ed economia cooperativa agroalimentare vedere anche Cassibba. L. (2013).
  • 12. Le indagini di mercato mostrano un consumatore, complice la crisi economica, sempre più attento e orientato verso acquisti consapevoli, rivolti a prodotti alimentari che includano elementi di qualità, di sostenibilità ambientale e sociale. Da questo punto di vista la stessa valutazione della competitività dell’azienda agricola si è ampliata nel tempo dal consumatore alla creazione di benessere per l’intera collettività, con la considerazione delle esternalità positive e negative che l’azienda stessa determina sull’ambiente circostante. La maggior consapevolezza da parte del consumatore finale della storia di prodotto induce gli attori della filiera a comportamenti per migliorarne la sostenibilità nel suo complesso. Comunque molto c’è ancora da “fare” perché maturi e si diffonda la responsabilità sociale del consumatore anche nei confronti dei prodotti agroalimentari, affinché sia la domanda “a creare l’offerta” (Cassibba, L., 2013).
  • 13. L’imprenditore agricolo è consapevole che un prodotto di massa non interessa gli attori della filiera, così come è consapevole che non ha senso mettere un prodotto differenziato nelle mani dell’intermediazione commerciale.
  • 14. E’ il caso di richiamare l’importanza in tale contesto del marketing relazionale con cui si completa il processo di spostamento della filosofia aziendale da “prodotto-centrica” a “cliente-centrica”. Gli strumenti del marketing relazionale paiono “adatti”, per ragioni plausibili, in specie all’impresa agricola e alle Pmi agroalimentari (Cassibba, L. 2012).
  • 15. In merito la Pac per il periodo 2014-2020 contiene importanti innovazioni di cui è espressione il Regolamento n. 1308/2013, detto dell’“Ocm Unica”. La normativa modifica la posizione della Commissione Europea rispetto allo strumento dell’aggregazione, precedentemente promossa e sostenuta entro gli stretti limiti di alcune Ocm (pomodoro, semi oleosi, ortofrutta, olio) e del rispetto delle norme sulla concorrenza ed estende le Organizzazioni di Produttori (OP) e le Organizzazioni Interprofessionali (OI) a tutti i comparti produttivi, perché siano strumento per l’organizzazione dell’offerta, per disciplinare il funzionamento del mercato e per aumentare il potere contrattuale degli agricoltori.
  • 16. A sollecitare le imprese agricole verso l’integrazione è la presenza sui mercati di elevati costi di transazione (acquisizione di informazioni, tempi di conclusione contratti, specificità del rischio agricolo, ecc.).
  • 17. Il fatto che diverse cooperative anche in Piemonte abbiano il riconoscimento come O.P. rafforza e completa la loro funzione di supporto alle attività dei soci. Ora, se le O.P. devono avere quale oggetto sociale la concentrazione dell’offerta e la commercializzazione della produzione degli aderenti, assicurando la programmazione della produzione e l'adeguamento della stessa alla domanda dal punto di vista quantitativo e qualitativo, ne deriva che aspetti quali quelli del numero di produttori associati e del valore o volume di produzione commercializzata, ceduta e/o conferita dai soci, sono decisivi perché le O.P. siano organizzazioni realmente competitive.
  • 18. Ai soggetti del partenariato aderenti al Pif è dato sottoscrivere un Accordo di filiera con cui essi si impegnano sia a adempiere in modo puntuale agli obblighi progettuali del Pif e sia a sottoscrivere contratti di fornitura dei prodotti agricoli implicati, nel caso si tratti di imprese della produzione primaria e di imprese della trasformazione, nonché eventualmente della distribuzione.
  • 19. La Regione Piemonte, “l’accademia” e il mondo agricolo organizzato, in specie quello cooperativo, sono depositari di un’importante cultura (della programmazione) dello sviluppo rurale che ha la sua origine nei Piani agricoli di zona della l.r. n. 20/78 e che si è arricchita nel tempo di varie esperienze quali, per esempio, i piani integrati di filiera ed i progetti collettivi territoriali di cui al Programma operativo dell’Obiettivo 5b, i piani di distretto “vini”, le bozze dei piani di distretto agroalimentare di qualità, di cui alla l.r. 26/03 e s. m. i., tutte iniziative a diverso grado di elaborazione e attuazione e che si prestano ad essere lette, in certo  modo, come anticipatrici e propedeutiche dei Pif.
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