Il processo di rafforzamento della politica europea di qualità si è ulteriormente evoluto con la pubblicazione nel Novembre del 2012 del Regolamento (UE) 1151/12 (del Parlamento Europeo e del Consiglio) sui “regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari in materia di Dop, Igp e Stg”, conosciuto come “Pacchetto Qualità”. Al Regolamento si è aggiunto il Decreto recante le “Disposizioni nazionali per l’attuazione” pubblicato nell’Ottobre del 2013 dalla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana che aggiorna le procedure di registrazione e di controllo in tema di produzioni tipiche. Il Pacchetto Qualità assume le caratteristiche di vero e proprio strumento che accompagna la riforma della Pac in quanto si collega direttamente alla “nuova Ocm unica” e al “Pacchetto latte” offrendo nuove possibilità di valorizzazione delle filiere di qualità italiane.
Quali sono le principali innovazioni contenute nel nuovo Regolamento, quali saranno le conseguenze che potranno derivare da questo importante documento per i consumatori e, soprattutto, per le imprese agroalimentari italiane che vedono nella qualità uno strumento per competere nei mercati a livello nazionale e internazionale? Obiettivo dell’articolo è quindi di presentare le principali caratteristiche innovative del Regolamento (UE) 1151/2012 e valutarne le implicazioni a vantaggio delle imprese e delle loro organizzazioni.
Un percorso lungo verso una qualità europea
Il regolamento (UE) 1151/2012 è l’ultima tappa di un percorso lungo, e un po’ estenuante, cominciato subito dopo l’entrata in vigore dei Regolamenti 509 e 510 del 2006 sulle Specialità Tradizionali Garantite (Stg) e sulle Denominazioni di Origine Protette (Dop) e Indicazioni Geografiche Protette (Igp), che a loro volta avevano innovato e sostituito i due primi Regolamenti sulle produzioni di qualità n. 2081 e 2082 del 1992. Già nel 2006 la Commissione aveva promosso una serie di audizioni con le parti interessate (agricoltori, produttori, consumatori, trasformatori e dettaglianti) a cui era seguita una conferenza a Bruxelles sullo sviluppo delle politiche di qualità (Canali, 2010). Nel 2008 è apparso il famoso “Green paper” (Comunicazione 234 del 2009) che, sulla base di possibili linee di revisione delle Dop, Igp e Stg, aveva avviato in tutta l’UE una consultazione tra i portatori di interesse conclusasi con la conferenza sulla politica di qualità dei prodotti agricoli tenutasi a Praga nel marzo 2009. Le proposte della Commissione contenute nel Green paper evidenziavano la volontà di modificare abbastanza radicalmente il sistema europeo che gestiva i prodotti di qualità sforzandosi di semplificarlo e di renderlo più comprensibile per i consumatori. Il documento individuava tre ambiti di azione utili a rafforzare la politica della qualità europea: le norme di commercializzazione, i sistemi di qualità dell’UE, compresa la produzione biologica, e i sistemi di qualità privati.
Il dibattito e le proposte contenute nei documenti di lavoro (si veda il documento della Commissione “Sintesi della valutazione d’impatto” - Sec 671/09) lasciavano intravedere una volontà politica di riformare abbastanza radicalmente le regole che fino ad allora avevano definito e gestito i prodotti tipici con una Indicazione Geografica. L’obiettivo dichiarato era di ridurre la permanente condizione di asimmetria informativa sia tra produttori e consumatori che tra sistema legislativo e consumatori. Nel documento veniva giustamente evidenziato come i consumatori non fossero ancora in grado di individuare il giusto rapporto prezzo-qualità per i prodotti alimentari di qualità, ma neanche di districarsi rispetto alle “incongruenze” della Politica Agricola Comunitaria in tema di qualità e ai “segnali” contradditori che ne derivavano. Nello specifico, la Commissione appariva conscia del fatto che il sistema delle denominazioni di origine fosse particolarmente complesso e non presentasse una sufficiente visibilità per i consumatori a fronte di un proliferare di regimi di certificazione (pubblica e privata) che incrementavano ulteriormente il livello di confusione nei consumatori. Nelle proposte si parlava chiaramente di “semplificazione” dei regimi Dop e Igp e “snellimento” delle procedure esistenti da sviluppare mediante diversi strumenti (potenziali) quali la “fusione delle designazioni Dop e Igp”; la creazione di un unico strumento per la registrazione dei vini, delle bevande alcoliche e dei prodotti agricoli e alimentari; l’autorizzare un sistema nazionale di protezione delle indicazioni parallelo al regime Ue; l’abolizione dell’attuale sistema sui generis Dop e Igp a livello dell’Ue e l’applicazione del vigente sistema dei marchi commerciali; la “chiarificazione della normativa Dop e Igp”.
Con riferimento a questo ultimo punto, gli aspetti individuati dagli stakeholder per i quali veniva richiesta una chiarificazione espressa attraverso il Green paper (Commission Services, 2009) era individuata nel bisogno di rendere più trasparenti i diritti, gli obblighi e i compiti delle associazioni che richiedevano una denominazione; l’applicazione degli articoli relativi alla protezione e alle relazioni tra i marchi e le denominazioni di origine e di indicazione geografica del Regolamento 510/2006 nonché l’uso delle indicazioni geografiche come ingredienti nei prodotti trasformati.
Questa breve storia, per sottolineare che il lavoro fatto fino all’approvazione del Regolamento 1151/2012 è stato tanto e ai massimi livelli ma, anticipandone il giudizio complessivo, con un risultato inferiore a quello atteso.
Le novità del nuovo Regolamento
Benché si tratti del “Pacchetto qualità” il nuovo regolamento norma solo una parte degli elementi che caratterizzano una offerta alimentare di qualità: disciplina in un unico testo le Dop, Igp e Stg, semplifica e rafforza il sistema delle protezioni e rende possibile l’uso, assieme ai segni della qualità (Dop e Igp) di rappresentazioni grafiche, testi e simboli dell’area di appartenenza e dei marchi collettivi geografici.
Una “novità” non secondaria è che, nonostante il lungo dibattito, si sia ritenuto di mantenere, per le diverse categorie di prodotti di qualità riconducibili ad una Indicazione Geografica (IG), la suddivisione tra Dop, Igp e Stg. Ci si può chiedere se effettivamente questa distinzione sia utile e soprattutto a chi. Le tre tipologie di Indicazione Geografica presentano lo stesso livello di protezione sui mercati europei ed internazionali e non sono da considerare di qualità superiore l’una rispetto all’altra. Con riferimento alle sole Dop e Igp, quello che cambia è il diverso legame con il territorio di origine, che nel caso dei prodotti Dop è sicuramente molto forte, o comunque dovrebbe essere più forte, di quello dei prodotti Igp. Ma, del maggior legame con l’area di origine, siamo effettivamente sicuri? Scorrendo i disciplinari di molti prodotti Igp sino ad ora registrati, si evince come per alcuni di essi (soprattutto per quelli ortofrutticoli) il legame con il territorio di origine non è inferiore rispetto quello delle Dop (Door database, Rosati, 2013), in quanto le fasi di “produzione”, “trasformazioni” e “elaborazione” avvengono nella medesima regione che porta il nome della Indicazione Geografica. E’ chiaro come, almeno in Italia, la definizione posta dal Regolamento 510/06 e dalle successive disposizioni ministeriali, ha creato dei problemi interpretativi nell’applicazione delle procedure di registrazione, per cui si evidenzia il paradosso che alcuni prodotti Igp (ad esempio nel settore ortofrutticolo) presentano un legame con il territorio di origine più forte rispetto ad alcuni prodotti Dop (ad esempio nel campo delle carni trasformate).
Una differenza tra Dop e Igp, non scritta nel Regolamento comunitario, ma che ne è una diretta conseguenza, è rappresentata dalla strategia produttiva e commerciale che i produttori possono sviluppare nei due sistemi di riconoscimento. Se i disciplinari relativi ai prodotti Dop prevedono che debba esistere una coincidenza tra zona di origine delle materie prime e zona di trasformazione, i disciplinari Igp offrono un maggiore grado di libertà rispetto all’origine delle materie prime. Questi disciplinari, infatti, consentono alle imprese di superare i vincoli legati alla disponibilità delle materie prime in aree molto ristrette e, allo stesso tempo, accettano tecniche produttive che, pur nel rispetto del sapere e della tradizione locale, si prestano alla lavorazione di elevati volumi produttivi.
Per questo motivo i prodotti Dop presentano una specificità maggiore e una (potenziale) differenza in termini di qualità e reputazione rispetto ai prodotti Igp, soprattutto per il fatto che dovrebbero essere più legati alla fase agricola. Mentre i prodotti Dop, seppur con qualche eccezione, possono essere considerati produzioni di nicchia – con prevalenza di tecniche di lavorazione artigianali, volumi produttivi limitati e destinati a mercati di prossimità – le produzioni Igp, specialmente quelle trasformate, si addicono meglio a produzioni più industriali, se non di massa, destinate a mercati più ampi. Nella realtà è vero anche il contrario, in quanto si trovano prodotti Dop con alti volumi produttivi, destinati a mercati ampi, e prodotti Igp con volumi molto contenuti destinati prevalentemente a mercati di prossimità. La distinzione tra Dop e Igp è quindi funzionale soprattutto ai produttori, che in questo modo possono sviluppare strategie produttive e commerciali funzionali alle caratteristiche del mercato a cui fare riferimento (Arfini et al., 2009).
Se guardiamo al problema della distinzione tra Dop e Igp dal lato dei consumatori, dei 254 disciplinari di produzione relativi a prodotti Dop e Igp fino ad ora registrati in Italia (al 30 ottobre 2013), rispetto al vero legame con il territorio, si evidenzia una notevole variabilità di situazioni che porta i consumatori ad accomunare le Igp alle Dop e all’idea che queste due tipologie di denominazioni presentino lo stesso legame con il territorio penalizzando le produzioni (Dop e Igp) con maggiori vincoli produttivi e un elevato livello di qualità.
Da questo punto di vista, il Regolamento 1151/2012 introduce in piccolo ma significativo miglioramento verso la semplificazione e la “chiarificazione” utile ai produttori. Nel nuovo regolamento infatti, per i prodotti Dop sparisce la distinzione tra le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione che devono avvenire nell’area delimitata per lasciare spazio ad un più generico “le fasi della produzione”; allo stesso modo per i prodotti Igp la distinzione delle tre fasi, con la richiesta che una di essa venga svolta nell’area di produzione, viene sostituita dalla richiesta che la produzione si svolga per almeno una fase nella zona geografica (Tabella 1). Questa nuova riformulazione non modifica il senso con cui la Commissione distingue tra produzioni Dop e Igp ma, almeno, la rende più comprensibile evitando, si spera, futuri errori nell’adottare un sistema o un altro da parte dei produttori. Conseguentemente, si spera, che anche i consumatori potranno valorizzare più correttamente il legame tra prodotto e area di origine.
Tabella 1 - Distinzione tra produzione Dop e Igp ai sensi dei Regolamenti 510/06 e 1151/12
Un aspetto nuovo introdotto dal Regolamento 1151/2012 relativamente ai requisiti per il riconoscimento di Dop e Igp, è legato alla possibilità di equiparare allo status di Dop alcuni nomi geografici, anche se la materia prima dei relativi prodotti proviene da una zona più ampia della zona geografica delimitata. L’equiparazione è consentita purché anche la zona di produzione delle materie prime sia delimitata e sussistano condizioni particolari per la produzione della materia prima oltre alla presenza di un regime di controllo e al periodo di riconoscimento della Denominazione). Questa nuova norma va nella direzione di “sanare” alcune situazioni relative ai prodotti (soprattutto di natura zootecnica e ortofrutticola) che prevedono nel disciplinare aree di origine della materia prima molto più vaste rispetto all‘area di effettiva produzione del prodotto ma, comunque, ben definita e regolamentata. E questo il caso della quasi totalità dei prosciutti Dop italiani che, di fatto, delimitano due aree: quella di approvvigionamento della materia prima e quelle di trasformazione. Tutto ciò rientra nella logica di creare una distinzione più netta rispetto al “legame con il territorio” , rendere più trasparenti le logiche commerciali che seguono le aziende e valorizzare miglio, agli occhi dei consumatori, il legame con l’area di origine. In prospettiva, quindi, dovremmo attenderci che alcuni prodotti possono cambiare designazione rendendo più esplicito il legame tra la fase agricola e quella di trasformazione.
La nuova stesura del Regolamento 1151/2012 cerca quindi di rendere il sistema che gestisce la qualità più trasparente e più esplicito. Lo sforzo fatto si evidenzia in diversi aspetti. Il primo è il tentativo di “irrobustire” le regole che gestiscono l’uso di “nomi, simboli e indicazioni”. Se nel Reg. 2010/2006 l’argomento era trattato in 3 commi (art. 8) nel nuovo Regolamento l’argomento è trattato in ben 7 commi (art. 12). Questi ultimi ribadiscono come le Dop e le Igp possono essere usate da qualsiasi operatore che commercializza un prodotto conforme al proprio disciplinare, consentendogli di utilizzare i “simboli associati” ai prodotti, e indicati nella procedura di registrazione, direttamente nell’etichettatura assieme al nome del prodotto e, su base volontaria, riproduzioni della zona di origine, grafici o simboli dello Stato membro o della Regione in cui è collocata l’area di origine, nonché di marchi collettivi geografici.
Queste ultime “novità” sottolineano da un lato la volontà di rendere più esplicito e evidente il ruolo dell’origine, ma dall’altro si ribadisce il ruolo comunicativo dei “marchi collettivi geografici”, cioè dei “nostri” Consorzi, nel processo di costruzione della reputazione e nell’attività di promozione del prodotto.
Una vera novità presente nel Reg. 1151/2012 è rappresentata dalla possibilità di utilizzare elementi di differenziazione dell’origine dei prodotti Dop e Igp mediante l’uso di “indicazioni facoltative di qualità” (art. 29). Questa norma è consentita per IG che hanno una dimensione europea – deve trattarsi, cioè di una caratteristica presente o potenzialmente presente in tutta la UE –, ottenute in zone specifiche e con l’obiettivo di accrescerne il valore rispetto alla stessa tipologia di prodotti. Le aree che beneficiano della possibilità di usare indicazioni facoltative per le loro IG sono quelle di “montagna” e “insulari”. Relativamente ai prodotti di montagna è da notare che l’uso di questa menzione richiede che la trasformazione abbia luogo esclusivamente nelle zone di montagna; al contrario, le materie prime destinate all’allevamento possono provenire, anche se in misura non prevalente, da altre aree. Questa scelta consente di tenere conto di vincoli naturali particolarmente limitanti, e allo stesso tempo, permette di ampliare la produzione utilizzando relazioni commerciali con le aree di pianura. La Commissione, al riguardo, si riserva la possibilità di adottare delle deroghe che normano le condizioni dell’approvvigionamento delle materie prime per gli animali nonché la trasformazione, consentita, in particolari situazioni, in aree che non sono di montagna.
L’uso delle menzioni “prodotto di montagna” e “prodotto dell’agricoltura delle isole”, sono sicuramente molto importante per l’Italia, sia per le caratteristiche orografiche di quasi tutte le regioni Italiane, sia per la possibilità di sviluppare politiche di differenziazione qualitativa all’interno di IG non omogenee, dove alti costi di produzione e bassa produttività, penalizzano le aree geografiche più svantaggiate. L’obiettivo è chiaro: dare maggiori opportunità alle aree meno favorite (di montagna e insulari) consentendo l’attivazione di un circolo virtuoso che permetta una corretta remunerazione dei fattori della produzione e il rafforzamento della sostenibilità economica, ambientale e sociale. Proprio questo ultimo aspetto mette in evidenza come la Commissione affianchi alle politiche di tutela, le politiche di comunicazione e di marketing da parte delle imprese.
A questo riguardo, allo stato attuale (Santini et al., 2013), molti prodotti alimentari di montagna riportano sulle etichette, in modo diretto o indiretto, immagini o sinonimi riferite alle montagne. In molti casi, l'etichetta riflette la vera origine del prodotto ma, in altri casi, il messaggio è interpretabile fornendo elementi comunicativi che lasciano intravedere, non definendolo esattamente, il vero legame con la montagna (Santini et al., 2013). Molte etichette che fanno esplicito riferimento ad aree di montagna uniscono diversi segni di qualità (indicazione geografica, un marchio regionale o la conformità con la produzione biologica) o riportano un nome che era legato alle aree di montagna in un passato ormai lontano (come nel caso del Jamon Serrano ormai diventato un nome generico attualmente tutelato come Stg). In aggiunta, molti produttori hanno registrato, beneficiando di diritti di proprietà intellettuale, i propri marchi aziendali comprensivi di termini espliciti, come “montagna”, “massiccio” o loro sinonimi o riferimenti grafici. Non sempre però la marca commerciale evidenzia il vero legame con il territorio. In Francia, ad esempio, si stima (Santini et al., 2013) che, nel rispetto delle norme legislative francesi, che definiscono in modo preciso le regole per fregiarsi come latte di montagna, ben il 12% del latte di montagna etichettato come “lait de montagne” non è trasformato in formaggi Dop e viene commercializzato con marche commerciali lasciando spazi a interpretazioni sull’origine da parte dei consumatori non sempre corrette.
La “questione” dell’uso delle indicazioni facoltative di qualità, nell’ambito della legislazione sulle Dop e Igp, può sembrare minoritaria ma diventa invece rilevante se si pensa alla diffusione dei prodotti di montagna. Attualmente (Santini et al., 2013) quasi il 40 % delle IG registrate in UE si riferiscono a prodotti montani o semi-montani. Questi ultimi, spesso, sono riconoscibili solo attraverso la Dop e Igp piuttosto che dal termine esplicito “prodotti di montagna” con alcune differenze tra Paesi: in Italia, ad esempio, è possibile includere all'interno della Denominazione il riferimento che indica “prodotto di montagna” consentendo, come nel caso dell’Asiago o del Montasio, una segmentazione intra-Dop. Per contro, questa possibilità è vietata dalla normativa francese che impedisce una distinzione “montagna” all'interno della stessa Dop.
E’ evidente come per un Paese come l’Italia questa norma rappresenti una grande opportunità da cogliere non solo per il mercato interno (Italiano) ma soprattutto per il mercato europeo dove il binomio IG (sia essa Dop o Igp) prodotto di montagna (o insulare) potrà rappresentare un forte elemento di distinzione e di attrazione.
Va da sé che per commercializzare i prodotti Dop e Igp non è sufficiente essere riconoscibili agli occhi dei consumatori, ma occorre che i nomi delle IG vengano tutelate nei confronti di competitor sleali e che si sappia organizzare l’offerta, promuovendo le Denominazione e i relativi prodotti sui mercati. A questo riguardo il Regolamento 1151/2012, rispetto al precedente Regolamento 510/2006 presenta innegabili spunti di interesse e offre vantaggi significativi ai produttori.
Per quanto riguarda il rafforzamento della protezione, quest’ultima viene estesa anche ai prodotti a marchio utilizzati come “ingredienti” per prodotti che non richiedono l’uso di una registrazione (art. 13). Questa norma, anche se già in vigore, è particolarmente rilevante considerando l’ampio impiego di prodotti con IG nella preparazione dei piatti che hanno reso famosa la “cucina italiana” nel mondo e sia la diffusione, presso la Gdo, dei “convenience food” che offrono, in misura sempre più cospicua, piatti regionali semi-preparati o già preparati.
Altro aspetto di particolare rilevanza stabilito dal nuovo Regolamento è l’obbligo da parte degli Stati membri di tutelare i marchi registrati non su iniziativa di parte, ma ex officio, sulla base di specifici piani di intervento (art. 13). Quest’ultimo aspetto, da un punto di vista teorico, è davvero di grande importanza per quei Paesi, come l’Italia, che possono vantare le IG più famose e copiate al mondo. Nella pratica, con circa 1.180 Denominazioni distribuite nei 27 Paesi europei suscita qualche dubbio come sia realmente possibile “prevenire” ma soprattutto “far cessare” l’uso illecito della Denominazione sul proprio territorio nazionale. Un‘azione di confronto seria ed efficace presuppone la piena conoscenza da parte delle “autorità” che devono effettuare l’azione di vigilanza di tutte le Denominazioni e dei marchi registrati. Per le Denominazioni più famose è sicuramente possibile, ma per molte nostre Denominazioni più di nicchia l’esposizione a rischi di usurpazione appare sicuramente elevata. Al riguardo si potrebbe obiettare se esista davvero un interesse a usurpare le Dop di nicchia. Al momento è difficile dirlo e comunque il rischio non può essere escluso a priori lasciando l’obbligo della tutela in toto di tutte le denominazioni europee. Infine, rimane singolare come le “procedure” previste per l’azione di prevenzione e repressione possano essere diverse tra gli Stati Membri europei, con il risultato scontato di una diversa efficacia delle “autorità” nazionali nella azione di controllo e prevenzione all’interno dell’Europa. L’Italia ha affidato il compito della sorveglianza all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqfr) che opera in conformità con le disposizioni del Regolamento (CE) 882/04 e che vanta una innegabile conoscenza ed esperienza. Purtroppo, le frodi nel capo alimentare sono davvero tante e il lavoro svolto, anche in collaborazione con il Nucleo Antifrodi Carabinieri (Nac), è davvero imponente, lasciando immaginare la difficoltà nell’azione di tutela delle Denominazioni non solo nei Paesi UE a bassa cultura alimentare, ma anche in Italia (Monti e Ponzi, 2013; Coldiretti, 2013). Certamente l’iniziativa promossa dall’Associazione Italina Consorzi Indicazione di Origine (Aicig) , Ismea, Federdoc e Fondazione Qualivita di creare un portale europea (www.dop-igp.eu) in cui raccogliere informazioni e fornire strumenti pratici agli operatori del settore per contrastare le contraffazioni delle denominazioni di origine, segnalare le infrazioni a tutti gli operatori d'Europa, potrà aiutare. Tuttavia le difficoltà sono oggettivamente molto elevate.
La “questione” del controllo dell’offerta
Relativamente alle “attività” che i produttori possono sviluppare una volta che hanno ottenuto lo status di Denominazione per i loro prodotti, il Reg. 1151/2012 introduce importanti elementi di novità in quanto, rispetto al precedente Regolamento 510/2006, attribuisce una “identità” e un “ruolo” ai produttori e alle loro organizzazioni che hanno definito il disciplinare di produzione e seguito la procedura di registrazione. In precedenza, il Regolamento 510/2006 si riferiva a “Associazioni”, il cui compito specifico consisteva unicamente nella presentazione delle domanda (inclusa la proposta per la definizione del disciplinare di produzione). Per contro, il Regolamento 1151/2012 distingue tra “gruppo richiedente” (qualsiasi persona fisica o giuridica che sottopone allo Stato membro la domanda di Denominazione) dai “Gruppi” chiamati a svolgere delle azioni che coprono i diversi aspetti della gestione del prodotto, riassumibili nelle (art. 45):
- azioni di controllo e monitoraggio sul mercato contribuendo alla garanzia della qualità, notorietà e autenticità dei prodotti;
- azioni di tutela della proprietà intellettuale;
- azioni di informazione e promozione finalizzata ad accrescere il valore aggiunto dei prodotti;
- azioni di vigilanza nei confronti dei produttori rispetto alla conformità al disciplinare;
- azioni di sostegno del settore e di valorizzazione dei prodotti finalizzate a migliorare l’efficacia della Denominazione nonché le competenze tecnologiche e economiche dei produttori.
Queste attività si inseriscono in quadro normativo nazionale che in Italia attribuisce già ai Consorzi di Tutela, una precisa azione di governance del sistema delle Denominazioni. In particolare, la Legge Comunitaria n. 526 del 1999 in materia di competenze dei Consorzi, prevede tre funzioni fondamentali: 1) la tutela della denominazione; 2) la promozione e la valorizzazione della denominazione; 3) l’informazione del consumatore. I Consorzi possono i) avanzare proposte di disciplina regolamentare; ii) definire programmi finalizzati al miglioramento qualitativo delle produzioni (in termini di sicurezza igienico-sanitaria e delle caratteristiche qualitative ); iii) collaborare all’attività di vigilanza e di salvaguardia da azioni di concorrenza sleale. Quest’ultimo aspetto da realizzarsi con la stretta collaborazione tra Consorzi di Tutela e l’Ispettorato Centrale Repressioni Frodi, finalizzata alla verifica dei requisiti previsti dal disciplinare e l’attività di vigilanza sui prodotti commercializzati sul territorio dell’Unione Europea da realizzarsi mediante un Piano di Controllo (D.M. 12/10/2000).
Risulta ovvio come per il legislatore italiano le attività di verifica assegnate ai Consorzi di Tutela sono da intendersi rivolte “prevalentemente” alla commercializzazione e, in ogni caso, dopo che è stata completata l’attività di controllo da parte dell’organismo di certificazione autorizzato. Il controllo nella fase di commercializzazione viene considerato quindi come un elemento importante per fornire ai consumatori la necessaria garanzia della qualità e al contempo una protezione nei confronti degli stessi produttori verso comportamenti sleali che si realizzano nella fase di commercializzazione (Arfini et al., 2010).
Va da sé che per svolgere queste attività nel concreto il Consorzio ha bisogno di risorse e, anche se la Legge Comunitaria consente la possibilità di ripartire i costi di gestione della Denominazione, non sempre i Consorzi “tassano” i produttori per affrontare gli investimenti richiesti nel campo pubblicitario, comunicativo e di tutela delle proprietà intellettuali (Arfini et al., 2010).
La Commissione, quindi, anche sulla base della notorietà e della qualità di alcune Denominazioni italiane, ottenuta proprio grazie all’azione nel tempo dei Consorzi di Tutela, ha inserito nel nuovo testo legislativo, che governerà una parte importante del sistema di qualità europeo, i presupposti per un apparato gestionale più efficiente. Purtroppo, l’azione innovativa finalizzata a migliorare il governo delle relazioni commerciali appare incompleta, in quanto non viene consentito ai Gruppi di adattare l’offerta dei prodotti all’evolversi della domanda di mercato disattendendo la proposta di Comagri del PE. Nella realtà solo le Denominazioni del settore lattiero-caseario possano intervenire per programmare le quantità dei prodotti e “adattare” l’offerta alla domanda in quanto previsto dal Pacchetto Latte (Reg. (UE) n. 261/12).
Come noto, la “vicenda” dell’esercizio della funzione di controllo sull’offerta da parte dei Consorzi di Tutela è iniziata in Italia nel 1996 allorché l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, considerava lesiva delle norme sulla libertà di concorrenza l’azione di controllo dell’offerta sviluppata dai Consorzi di Tutela (Decisione n. 3999/1996 e 4352/1996). I Consorzi del settore lattiero-caseario sono corsi ai ripari chiedendo un’autorizzazione temporanea in deroga, ma solo nel 1998 con il D.L. 173 veniva concessa loro la possibilità di effettuare piani di produzione per prodotti Dop, Igp, Stg e di agricoltura biologica la cui azione fosse limitata nel tempo. Non si trattava di una vera e propria autodisciplina produttiva quanto, invece, mediante la creazione di un apposito organismo interprofessionale di filiera, di realizzare una sorta di “osservatorio della produzione” che, attraverso il monitoraggio del mercato, effettua previsioni sull’andamento della domanda, fornendo indicazioni non vincolanti ai produttori (Arfini et al., 2010). Rimane la possibilità di effettuare un controllo dell’offerta non in funzione dell’adattamento del mercato, ma solo in funzione di migliorare la qualità dei prodotti. Tale possibilità tuttavia in Italia non è mai stata utilizzata contrariamente ad alcune Denominazioni lattiero-casearie francesi, come il Comtè (Jeanneaux et al., 2009; Giacomini et al., 2011; Barjolle et Jeanneaux, 2012).
Solo con l’approvazione del D.M relativo all’applicazione del Pacchetto latte viene superato lo scoglio della Commissione Antitrust. Al riguardo, il D.M. 15164/2012 definisce i soggetti legittimati alla presentazione del Piano di regolamentazione dell’offerta (Piano). Questi ultimi vengono distinti in tre categorie: Organizzazioni dei Produttori (OP), Organizzazioni Interprofessionali (OI), (entrambe riconosciute ai sensi del Regolamento 1234/2007) e Gruppi (riconosciuti ai sensi del Reg. 1151/2012).
Ai fini dell’attuazione del Piano, quindi, diventa rilevante la forma organizzativa e l’effettivo livello di rappresentatività della filiere da parte delle singole organizzazioni che presentano e gestiscono il Piano. Il D.M 15164/2012 prevede nello specifico che debba essere stipulato un “accordo preventivo di adesione al Piano sottoscritto dai due terzi dei produttori di latte o dai loro rappresentanti che rappresentino almeno i due terzi del latte crudo utilizzato per la produzione di formaggio”. Allo stesso modo, deve “sussistere un accordo preventivo di adesione al Piano sottoscritto da almeno due terzi dei produttori di formaggio che rappresentino almeno due terzi della produzione di formaggio”.
Non può non sfuggire come il Reg. 1151/2012 non intervenga nella composizione dei Gruppi e sul loro effettivo livello di rappresentatività della filiera (Art. 45). Al contrario, il legislatore italiano, per i Consorzi di Tutela, interviene distinguendo il ruolo dei suoi membri tra soggetti «produttori e trasformatori interessati alla denominazione» e soggetti «produttori e utilizzatori» (Legge Comunitaria n. 526/99) con l’obbligo che questi ultimi rappresentino la filiera. L’obbligo della rappresentanza previsto dalla Legge comunitaria era finalizzato alla corretta gestione dei marchi consortili e della ripartizione delle spese consortili legate alla gestione della Denominazione ma, nel caso della adozione del “Pacchetto latte”, diventa dirimente nella definizione del Piano di regolazione dell’offerta. Occorre considerare che alcune filiere di formaggi Dop si stanno evolvendo in una chiave sempre più industriale, dove i produttori di latte nella filiera svolgono il ruolo di “semplici” fornitori di input, ma anche i trasformatori industriali in alcuni casi, pur avendone la possibilità, non sono rappresentati all’interno dei Consorzi di Tutela (Giacomini et al., 2011). Questa condizione lascia intravedere dei rischi di una non corretta gestione dei Piani con alcuni “soggetti” che possono imporre la loro strategia ad altri che la subiscono.
Come è facile immaginare, e il settore lattiero caseario non fa eccezione, ogni Denominazione presenta peculiarità e filiere specifiche, dove il livello di rappresentatività dei soggetti coinvolti cambia di volta in volta a seconda che predomini la struttura cooperativa o quella industriale. Il fatto di equiparare i Gruppi alle OP e alle OI attribuisce ai Consorzi di Tutela italiani una responsabilità ed un compito aggiuntivo a quelli già riconosciuti sia dal nuovo Regolamento che dalla Legge Comunitaria. Il rischio è di avere organizzazioni che non rappresentano nel modo appropriato le rispettive filiere produttive e soprattutto dove i principi di “rappresentatività”, “parità”, e “unanimità”, che sono la condizione centrale per la gestione corretta ed efficace dell’interprofessione (Giacomini et al., 2011), siano presenti solo in parte. Va da sé che i Consorzi sono di fatto equiparati alle OP senza esserlo con il rischio di limitare la loro azioni ai soli prodotti tutelati e non all’intero comparto lattiero-caseario.
A questo riguardo si deve ricordare che l’art. 45 dedicato, appunto, ai Gruppi comincia precisando che il loro ruolo non deve andare a pregiudizio di quello delle OP e degli OI, come disciplinato dall’Ocm unica, per cui forse il Parlamento ha voluto chiarire così che la governance spetta alle OP e alle OI, compresa la programmazione della produzione. Se ne deduce che è necessario distinguere nettamente il ruolo dei Gruppi dalle altre forme organizzative della filiera previste dall’Ocm Unica. Questo per dire che in futuro, quando le OP e le OI saranno istituite anche in Italia, forse dovremo attenderci una separazione tra l’azione di governance dei Gruppi da quella delle OP e delle OI rispetto alla gestione dell’offerta.
Se per il settore dei formaggi Dop, che da solo vale circa la metà del fatturato complessivo del sistema delle Denominazioni italiane, è stata trovata una soluzione che consente di gestire l’offerta alternativa al Reg. 1151/2012, quali sono le prospettive per gli altri comparti? Per il settore ortofrutticolo la strada che lo stesso Reg. 1151/2012 consente è il ricorso alle OP e alle OI previste dal Reg. 1234/2007. In questo caso, come è noto (Frascarelli et Salvati, 2012; Giacomini, 2011) la storia dell’Interprofessione in Italia è contrassegnata da luci e ombre e, di fatto, lo strumento dell’Interprofessione è ancora sottoutilizzato rispetto alle sue potenzialità. L’Interprofessione si caratterizza per essere una organizzazione privata, riconosciuta dallo Stato, che unisce operatori che agiscono a monte e a valle della filiera, con l’obiettivo di elaborare delle scelte di politica contrattuale, di garantire l’equità tra i membri, di sviluppare le performance di filiera e difendere i suoi interessi. In virtù di questo riconoscimento le Organizzazioni Interprofessionali dispongono di un reale potere regolamentare e di razionalizzazione del mercato migliorando le performance di filiera. Questo obiettivo è però difficile da raggiungere perché spesso al suo interno gli operatori hanno interessi contrastanti, con il rischio che gli operatori di una fase possano far prevalere i propri interessi su quegli degli altri. Questo rischio è superato solo dalla regola della parità della rappresentanza delle diverse componenti e dalla regola dell’unanimità (Giacomini, 2011), ma, l’agricoltura italiana e anche il settore ortofrutta mancano tuttora di una efficace ed efficiente organizzazione di filiera.
La strada percorsa da alcune OP nel campo ortofrutticolo è stata quella di cercare di trasformare i loro marchi e i segni di qualità europei (Dop e Igp) in vere e proprie marche (Giacomini et al., 2007). Questo risultato però è stato ottenuto in pochissime situazioni (un esempio ne è Melinda) solo grazie ad un grande lavoro di connotazione qualitativa del prodotto, sviluppo di una chiara ed univoca politica di comunicazione al mercato e, appunto, un’efficace organizzazione dell’offerta.
Per quanto riguarda il terzo grande comparto che caratterizza il sistema delle Denominazioni italiane, quello delle “Carni trasformate”, la strada al momento perseguibile per migliorare le perfomance di mercato è solo quella di sviluppare una “politica di marca”. In alcuni casi la marca, intesa come brand, è rappresentata proprio di marchi consortili (un esempio molto famoso è quello del Prosciutto di Parma), ma in altri casi prevale la marca dell’impresa che produce e commercializza il prodotto. In questo senso il riconoscimento del ruolo dei Gruppi dato dal nuovo Regolamento e la visibilità che questi possono avere grazie alle iniziative di informazione e promozione può favorire la crescita reputazionale dei marchi dei Consorzi di Tutela. Occorre essere consapevoli che questo risultato presenta due insidie: la prima è data dell’evoluzione del sistema distributivo che richiede la notorietà delle aziende dei prodotti da loro commercializzati, la seconda è che i Consorzi debbono sviluppare importanti investimenti comunicativi e informativi.
Anche per gli altri comparti che compongono l’offerta italiana dei prodotti di qualità tutelata la strada che si delinea è lo sviluppo di strategie reputazionali ma con un fine di valorizzazione di filiere più corte all’interno di percorsi spesso legati a politiche di sviluppo locale.
Conclusioni
Il Regolamento 1151/2012 offre un quadro normativo più chiaro rispetto al precedente e, pur in presenza di alcuni elementi di criticità, consente l’adozione di più strumenti di differenziazione del prodotto e di creazione del valore, maggiori di quanto previsto dal precedente Reg. 510/2006.
Certamente tutte queste iniziative supportano l’azione riformatrice della nuova Pac finalizzata a ridurre gli aiuti accoppiati e a incrementare il valore della produzione attraverso ad un miglioramento dei rapporti di mercato. Tuttavia, secondo alcuni (Aicig), l’elemento mancante nel nuovo Pacchetto Qualità è proprio la possibilità di governare l’offerta. Ci si può chiedere se la gestione dell’offerta da parte dei Gruppi sia realmente rilevante per valorizzare il sistema delle Denominazioni Italiane. Posto che la gestione dei volumi produttivi è possibile se è in funzione della qualità (Pezzoli, 2008), sicuramente la programmazione della produzione è un momento fondamentale, ma non è l’unico. Occorre mettere sullo stesso piano anche le politiche di “brand value” sviluppate attraverso le attività di comunicazione, informazione e promozione. Queste ultime, spesso, si registrano solo grazie all’uso di risorse pubbliche (Arfini et Mancini, 2011) e non mediante scelte aziendali e investimenti dei Consorzi. Certamente un’evoluzione della Ocm unica che apra la possibilità anche alle “altre” produzioni fino ad ora non comprese (come si prospetta per il Prosciutto di Parma, Aicig), potrà consentire lo sviluppo di forme aggregative dell’offerta e di governace della filiera capaci di rendere più efficace l’azione dei Gruppi (cioè i nostri Consorzi) nell’accrescere il valore delle produzioni di qualità. Occorre vedere se il nuovo testo normativo consentirà l’apertura all’interprofessione anche agli altri settori, ma allora sarà davvero importante applicare i principi di “rappresentatività”, “parità” e “unanimità”.
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