Energia in ettari

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Energia in ettari
a Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

Introduzione

La questione energetica, entrata nel dibattito politico, economico e scientifico degli ultimi anni ha influenzato l’immaginario sociale soprattutto in termini di impatti ambientali e inquinamento, per quanto riguarda le fonti fossili, e di controversie e dibattiti nel caso delle rinnovabili. Se poi la si analizza attraverso la dimensione dell’«uso del suolo» questa assume una connotazione sempre più complessa e problematica. La diffusione delle tecnologie rinnovabili, nonostante la loro millantata “bontà”, infatti, si accompagna a tutte le ambiguità, alle distorsioni e ai rischi tipici di qualsiasi artefatto tecnologico.
Quand’anche, infatti, risulti improprio da un punto di vista epistemologico parlare di land grabbing, la complessità delle tecnologie energetiche diffuse sul territorio calabrese - che vanno dagli impianti a biomassa di piccole e grandi dimensioni a campi fotovoltaici ed eolici fino allo sfruttamento idroelettrico e geotermico - mostra come la “corsa” alle rinnovabili si traduca in maniera prepotente in una crescente occupazione di terreni di pregio agricolo e paesaggistico.
Proprio questo processo di diffusione e di relativa occupazione di spazi, agevolato da forme di incentivazione fino a un certo punto indiscriminate - sia per dimensione che per tipologia tecnica - si è tradotto anche in Italia, e in Calabria in questo caso, in un processo simile a quello dell’accaparramento che si osserva nei paesi in via di sviluppo (Pvs).
Nonostante l’intero processo della diffusione delle fonti energetiche rinnovabili nel territorio regionale appaia essere particolarmente interessante agli occhi del sociologo dell’ambiente, nel corso di questo articolo ho deciso di analizzare, con i limiti propri del singolo caso di studio, gli effetti più o meno perversi della diffusione del solare fotovoltaico a terra in Contrada Serragiumenta, frazione del comune di Altomonte in provincia di Cosenza. L’analisi del caso mi ha dato lo spunto per approfondire, attraverso interviste in profondità a testimoni privilegiati, la complicata relazione tra questione energetica e utilizzo del suolo definendo, attraverso le narrazioni degli attori coinvolti, quale è da un lato l’«immagine tecnologica» del fotovoltaico e dall’altro quali siano le opportunità che la tecnologia stessa offre a coloro i quali scelgono di “utilizzarla”.
L’ambiguità del processo di diffusione di fronte a quella che McMichael (2009) definisce la crisi del capitalismo ecologico – che si traduce nella “triplice crisi” (climatica, energetica e alimentare) – fa sì che si riproponga in maniera forte, a partire dalla “scarsità” del “bene terra”, la questione se essa (come l’acqua o anche l’energia) sia un common, un bene collettivo da preservare per le future generazioni, o una commodity, ovvero una merce da votare all’altare del profitto e della crescita economica.
Sebbene il solare fotovoltaico rappresenti una delle tecnologie con più ampia potenzialità in termini di “transizione energetica possibile” (Cilio, 2012), esso porta con sé l’ambivalenza dell’essere per alcuni versi un’interessante opportunità per l’agricoltura in quanto particolarmente duttile e “integrabile” sia in edifici sia in zone improduttive; per altri, però, la bassa densità dell’energia solare fa sì che ai fini del suo utilizzo, nella struttura energetica attuale, sia necessaria una crescente occupazione di ampie zone di terreno (Coiante, 2004).
Ma proprio la sua estrema duttilità, l’assenza di una qualche forma di regolazione passata e una pioggia di finanziamenti ha dato l’avvio a un processo di occupazione di terreni che ha destato non poche perplessità e malumori nelle popolazioni locali residenti nei territori coinvolti.
Tanto che la diffusione dei progetti di impianti fotovoltaici a terra, dati i presupposti affinché gli imprenditori agricoli permettessero l’occupazione di ampie fette della superficie utilizzabile da parte di investitori esterni al settore, hanno imposto al legislatore di mettere un freno al processo e creare una qualche forma di disincentivazione di questa tipologia di impianto - già tra il terzo e il quarto conto energia - scoraggiando di fatto la creazione di impianti a terra e regolamentando la possibilità per gli imprenditori agricoli di utilizzare per la produzione energetica solo il 10 per cento della disponibilità agricola del proponente (Dm 5/5/2011). Ciononostante, pur mutando la tecnologia di riferimento, non sembra mutare il processo a cui si assiste.
A partire da queste considerazioni e attraverso la definizione che altri danno del fenomeno del land grabbing energetico, tipico dei paesi in via di sviluppo - dove i terreni agricoli vengono praticamente sottratti all’agricoltura di sussistenza per le coltivazioni intensive di biomassa energetica – le domande sono: è possibile un connubio tra questione energetica e questione agricola in Italia e in Calabria soprattutto? Quale definizione dare al fenomeno in atto: land grab?land rush? O altro (forme più o meno palesi di green grabbing)? E soprattutto, a partire dalla definizione e dall’immagine della tecnologia in oggetto, qual è la rappresentazione che gli attori hanno della terra? E quanto questa è influenzata dalle logiche economiche?
L’ipotesi che ha indirizzato la ricerca è che le istanze energetiche guidate da un crescente attaccamento alle logiche proprie della crescita economica stanno diventando i presupposti paradigmatici e concreti di una nuova forma di colonizzazione della terra.
Nonostante l’ambizione dell’obiettivo cognitivo, il caso che andrò di seguito a descrivere rappresenta un importante tassello di un puzzle ancora in costruzione e che merita ulteriori approfondimenti.

Il caso di studio

Località Serragiumenta è una contrada del comune di Altomonte (CS), piccolo centro calabrese di poco più di 4 mila abitanti che si estende su una superficie di 65 km2. L’insediamento urbano, sito nei pressi del Parco nazionale del Pollino, è noto per essere uno dei centri storici più interessanti del sud Italia ed è inserito nella rete dei borghi medievali italiani, mentre la parte valliva, cioè quella di Serragiumenta, rappresenta l’area produttiva del comune e si sviluppa su un’area collocata sulle colline che rimontano dalla pianura di Sibari verso la catena costiera e per questo particolarmente adatta alla produzione agricola. Tuttavia, nella zona convivono realtà di differente tipologia: industriale, agricole ed energetiche.
Nel corso dell’indagine ho focalizzato la mia attenzione sulla presenza di diversi impianti fotovoltaici a terra che hanno la peculiarità d’avere diversi assetti proprietari, analizzandone in particolare alcuni: gli impianti di proprietà della Esse, Altomonte1 e Altomonte2, joint venture italo – giapponese composta da Enel Green Power e Sharp Solar Energy; l’impianto a terra della Fattoria Serragiumenta, azienda agricola storica; l’impianto fotovoltaico a terra di proprietà della Edison, che affianca la centrale termoelettrica di proprietà della stessa azienda energetica, e una serie di piccoli impianti “domestici”, con una potenza non superiore ai 12 kW e finalizzati all’autoproduzione e all’autoconsumo, sparsi su tutto il territorio.
La numerosità degli impianti e la dimensione di alcuni di essi fa sì che, all’interno della singola contrada, le installazioni fotovoltaiche occupino una superficie territoriale di poco meno di 100 ha, pari a circa il 3,34% della Sau totale del comune di Altomonte1.
L’avventura fotovoltaica del comune di Altomonte inizia nel 2008, tra il primo e il secondo conto energia, quando, su proposta di alcuni amministratori, imprenditori e di una società energetica con sede a Roma, la Resit, viene progettata l’installazione di un campo fotovoltaico da 20 MW. Tuttavia, nel 2009 la Altomonte Energia srl, società creata ad hoc per la gestione dell’impianto, in sede di Conferenza dei servizi regionale, si vede ridimensionato il progetto a 5 MW per la mancata approvazione della valutazione di impatto ambientale (Via).
A questo punto, uno dei proponenti, la Resit, decide di non investire più nell’opera e vende l’intero pacchetto di progettazione all’Enel Green Power che grazie ad un ricorso al Tar in sede transattiva riesce a riottenere dalla Regione tutti i 20 MW previsti.
Fin dal suo nascere il progetto di impianto ha visto il suo sito “naturale” in località Serragiumenta, su terreni di proprietà della Serragiumenta Agricola S.n.c., che ospitavano, fino all’inizio dei lavori, pescheti e coltivazioni di ortaggi. Ai malumori della cittadinanza e delle associazioni di categoria2, che profilavano una violenza al paesaggio, si unisce presto la voce dell’amministrazione comunale che si vede negati dall’Enel Green Power il contributo di 5 mila euro annui di royalty per ogni megawatt installato previsto dalla convenzione stipulata con la Resit srl nel maggio del 2009.
Ciononostante, nei terreni di proprietà della Serragiumenta Agricola Snc, nel marzo del 2011 nasce Altomonte 1, un impianto a terra della capacità di 5 MW che utilizza dei moduli Sharp monocristallino, e nel marzo del 2012 nasce, sul terreno vicino, Altomonte 2 un impianto a terra della potenza installata di 8,2 MW che utilizza moduli 3Sun a film sottile multifunzione (moduli amorfi).
Ma perché è importante in questo caso sottolineare la tipologia di modulo installato? Tale sottolineatura non è casuale; in linea di massima la produzione energetica media del modulo cristallino risulta essere pressappoco pari al doppio di quello amorfo. Se si segue un ragionamento imprenditoriale che guarda alla massimizzazione del profitto allora tale scelta, a meno di variabili non conteggiate, risulterebbe abbastanza strana poiché per eguagliare il regime produttivo del campo in monocristallino, utilizzando moduli amorfi, si dovrebbe occupare all’incirca il doppio dello spazio. Sicuramente il vantaggio del modulo amorfo risiede nella sua caratteristica di “lavorare” a luce diffusa e quindi senza la necessità di irradiazione diretta, a differenza del monocristallino che ha la necessità di irradiazione diretta; con l'amorfo quindi si ha una efficienza minore sul singolo modulo, ma si ottiene una produzione continua. Il modulo 3Sun, inoltre, ha una caratteristica peculiare, ovvero è un modulo fabbricato da un’azienda siciliana per conto di Enel e Sharp. La scelta dei moduli da utilizzare per Altomonte 2, moduli 3Sun a film sottile, risponde alla ratio di creare un circuito di diffusione per una tecnologia relativamente nuova attraverso una “sperimentazione” su “larga” scala.
I due impianti hanno consentito alla Esse l’installazione di 14,4 MW di capacità fotovoltaica solo nel 2012, occupando nel complesso una quarantina di ettari, e con in progetto di farli crescere fino a raggiungere una capacità totale (tra Altomonte 1 e Altomonte 2) di 20 MW.
Un altro impianto interessante dal punto di vista conoscitivo è rappresentato dall’impianto di 3,3 MW situato in prossimità della centrale termoelettrica di proprietà della Edison, che occupa una porzione di territorio non utilizzato a fini agricoli (anche per la vicinanza alla centrale), ma che svolge un’azione cumulativa in termini di “uso del suolo” se inserito in un contesto di occupazione di terra. La centrale della potenza di 780 MW è alimentata a gas naturale ed è in funzione dal 2006. È composta da due unità produttive da 390 MW ciascuna ed è stata resa difficilmente identificabile, per stessa ammissione della casa energetica, ai fini di mascherarne l’impatto visivo. Il campo fotovoltaico è il risultato della programmazione aziendale 2009 - 2011 nella sezione “attività in campo ambientale” ed è interamente gestito da Edison Energie Rinnovabili, Ricerca e Sviluppo di Edison e EDF e occupa una superficie totale di 22_ha per un investimento di 100 mila euro. C’è, inoltre, da sottolineare che nella programmazione di R&S Edison e Edf è stato portato a termine, nel luglio del 2009, un progetto di sperimentazione di produzione fotovoltaica con sistemi innovativi per un impianto dai 30 ai 50 kWh di potenza collegati agli ausiliari di centrale. A questo segue l’impianto fotovoltaico della Fattoria Serragiumenta che nasce nel 2006 e ha una capacità di circa 2 MW (2036,70 kWh). Gestito da “Serragiumenta Energia” è stato posizionato su di un terreno non utilizzato ai fini della produzione agricola del podere, e finalizzato alla sola vendita dell’energia; infatti, tutta l’energia prodotta viene direttamente immessa in rete e non utilizzata ai fini dell’autoconsumo “[…] per l’attività che si svolge in azienda non necessitiamo di una grande quantità di energia elettrica […]” (Testimone Privilegiato FG).
L’azienda è diventata così un’azienda agricola multifunzionale in cui alle tradizionali attività agricole si è aggiunta la produzione di energia da fonte rinnovabile con un impatto minimo (a detta di uno dei miei interlocutori) sul terreno e sulla proprietà; creando, nel contempo, i presupposti affinché ci sia una sicurezza nelle entrate che prima non c’era3 . È, inoltre, in progetto la realizzazione sui terreni della Fattoria di una centrale a biomassa da 999 kWp, e di due piccole centrali eoliche.
Infine, ho canalizzato la mia attenzione sui piccoli impianti a terra per l’autoconsumo dispersi sul territorio con una potenza che va dai 6 ai 12 kW che, oltre ad essere utilizzati per il consumo diretto dell’energia prodotta, con la formula dello scambio sul posto cedono alla rete il surplus elettrico. Ciò dimostra quanto sia mutata nel giro di pochi anni la “fiducia sociale” nei confronti della tecnologia fotovoltaica.

Risultati e note conclusive

L’analisi del caso di studio, ma anche l’eterogeneità degli assetti proprietari, mi ha permesso di approfondire la complessa vicenda dell’uso di suolo per fini energetici. Poste le caratteristiche della tecnologia fotovoltaica, che qui si danno per scontate, di particolare interesse mi è apparsa la rappresentazione che gli attori sociali danno e della tecnologia in sé per sé e della terra in quanto “substrato materiale”. Nondimeno - è da trascurare l’impatto che le istallazioni energetiche hanno sul territorio e sul paesaggio e i relativi malumori, più o meno palesi, che si innescano nella popolazione residente.
Particolarmente interessante è osservare il differente impatto visivo, ma anche socio-territoriale, che questi impianti producono. La dimensione ridotta degli impianti “user”, per esempio, tende sostanzialmente a rendere l’impianto, quand’anche a terra, parte integrante del terreno su cui è posto4.
La mancanza di pianificazione e di regole certe in materia energetica ha portato a un processo di diffusione delle tecnologie energetiche rinnovabili che tiene poco conto del valore della terra e a uno scollamento del legame culturale con essa. “[…] La terra è un bene scarso, più dell’acqua e del cibo[…]”, dice Domenico Cersosimo, e in un quadro energetico confuso e schizofrenico come quello calabrese il caso di Località Serragiumenta appare emblematico.
La dimensione degli impianti riflette fedelmente lo “stile” e la tipologia degli attori che utilizzano la tecnologia, così come è diretto riflesso anche la rappresentazione simbolica che della terra si esplicita.
La medesima tecnologia, al di là degli aspetti puramente tecnici, ha un impatto differente sul paesaggio e sul “consumo di suolo”.
In primo luogo abbiamo le grandi aziende energetiche (Edison ed Enel) che al mantenimento di uno status quo profittevole, si muovono, in un contesto favorevole, per la costruzione di grandi impianti finalizzati non solo alla “sicurezza energetica” ma anche alla “sperimentazione” di tecnologie nuove, giustificando il loro operato con la necessità di forme di “sviluppo green” e con l’eventuale impatto sul livello di occupazione locale. Nel caso specifico i vincoli legislativi espressi in termini di quantità di potenza dell’impianto (20 MW nel caso di Altomonte 1 e 2) ma non di percentuale di terreno produttivo occupabile fa sì che la scelta aziendale non guardi alla minimizzazione della quantità di terra occupata quanto piuttosto ai vantaggi che l’utilizzo di una tecnologia, seppur maggiormente “ingombrante”, porta. La necessità di riprodurre il loro status e il controllo della loro fetta di mercato energetico fa sì che la terra, a prescindere dalla sua quantità e qualità, diventi un anonimo spazio da occupare. A fronte di una forte sensibilità nei confronti della tecnologia fotovoltaica – anche e soprattutto in termini di mercato nel caso della Sharp e del settore R&D della Edison – risultano assolutamente indifferenti alle modalità di utilizzo – ovvero all’impatto territoriale che la stessa tecnologia può avere. La terra fertile, in un’ottica di mercato, viene sostanzialmente equiparata a una qualsiasi altra superficie funzionale allo scopo, che sia un tetto, una pensilina o una serra fotovoltaica. Abbiamo, poi, l’imprenditore agricolo schiacciato dalla crisi e dallo squeeze tra costi e ricavi in campo agricolo, preoccupato per l’instabilità climatica, preoccupato dall’insicurezza atavica del mercato agricolo che nella “multifuzionalità aziendale” vede, nella produzione energetica da fonte rinnovabile, e negli incentivi ad essa connessa, un modo sicuro per diversificare la propria produzione e assicurarsi entrate certe. L’utilizzo del fotovoltaico diventa, così, nel caso della Fattoria Serragiumenta, parte integrante della produzione aziendale e ha lo scopo di ridurre il “rischio d’impresa”. Quand’anche il fine ultimo resti il profitto questo si traduce nella volontà di mantenere in piedi l’azienda agricola. La terra occupata dall’impianto è quella meno pregiata e diventa il mezzo attraverso cui assicurarsi il proprio status di imprenditore agricolo senza danneggiare l’attività principale dell’azienda; un mezzo da preservare anche perché condizione necessaria per la propria sopravvivenza. Il rapporto con la terra rimane in questo caso ancora forte anche se allentato: “[…] Di terra ce n’è tanta perché non usarne un po’ per produrre energia?”(Testimone privilegiato FG)
Il legame con la terra appare molto più forte laddove la posta in gioco non è il profitto. Nel caso dell’auto produttore, infatti, la tecnologia fotovoltaica è il mezzo attraverso cui raggiungere l’autosufficienza energetica. Attraverso l’autoproduzione energetica si raggiunge il duplice obbiettivo del soddisfacimento del proprio fabbisogno elettrico (con la relativa riduzione dei costi nel lungo periodo) e l’obbiettivo di un guadagno futuro con lo scambio sul posto del surplus elettrico prodotto nel momento in cui si rientra dell’investimento iniziale. La terra “occupata” dall’impianto rimane il luogo in cui si vive anche se lievemente mutato nell’aspetto. La qualità di quello che sta intorno “casa” resta un fattore fondamentale per la sua vivibilità.
Nella problematica relazione tra “terra” ed “energia” si definisce, insomma, la duplice questione di un “cambiamento energetico possibile” e i tempi e modi con cui debba essere gestito, regolato e pianificato da parte del policy maker il processo di diffusione tecnologica. L’annosa scelta: se e quanto incentivare una innovazione tecnologica che sia ambientalmente, economicamente e socialmente sostenibile, ha subito mutazioni crescenti nel passaggio dal primo al quinto conto energia, passando dagli incentivi a pioggia a incentivi ponderati, se così si può dire, a forme di disincentivazione nel caso del fotovoltaico a terra rispetto agli impianti fotovoltaici integrati. Chi decide si trova di fronte alla scelta se incentivare piccoli impianti user, in una prospettiva domestica, che puntino all’autoproduzione e all’autoconsumo, oppure incentivare la creazione di grandi impianti che hanno un impatto più o meno negativo sul territorio e sui luoghi in cui nascono. In entrambi i casi si raggiunge, anche se in maniera differente, l’obbiettivo della sicurezza energetica ma muta in maniera sostanziale la posta in gioco in termini di controllabilità dall’alto dell’intero processo. Allo stesso tempo è mutata, almeno per quello che si può osservare in Calabria, la sensibilità e il controllo sociale sul proprio territorio; proliferano, anche se scarsamente collegati, i comitati locali di protesta sull’installazione di impianti più o meno impattanti; questo appare particolarmente evidente nei progetti di nuovi impianti a biomassa proposti sul territorio.
Il caso di studio esposto dimostra, a partire dalla dimensione degli impianti e degli assetti proprietari, come la “terra” subisca un’alterazione simbolico/semantica che implica differenti visioni e diversi atteggiamenti che permettono di dire che a seconda della “posta in gioco” la “terra” diventa spazio da colonizzare attraverso pratiche discorsive green.
Land grabbing, land rush, green land grabbing, a questo punto, divengono concetti e pratiche che in linea di massima fanno riferimento a forme di occupazione e spossessamento del suolo che tendono ad operare a discapito delle peculiarità di un territorio attraverso pratiche discorsive giustificative che celano nella millantata necessità di una crescita verde, che superi qualsiasi forma di crisi (ambientale, energetica o alimentare che sia), le potenti ambiguità del processo speculativo in atto.

Nota metodologica

La ricerca a cui si riferisce l’articolo è stata portata avanti da novembre 2012 a febbraio 2013. Oltre alla consultazione ed all’analisi di documenti – delibere di giunta, articoli di quotidiani e materiale documentario reperito tramite web – si sono svolte 15 interviste semi-strutturate in profondità a testimoni privilegiati – amministratori, impiegati, imprenditori – e cittadini residenti.

Riferimenti bibliografici

  • Cilio D. (2012), Energia Politica. Forma tecnologica idrogeno: vecchie e nuove visioni di cambiamento energetico. Aracne Editrice, Roma

  • Coiante D. (2004), “Fonti rinnovabili: il vero, il falso e il da farsi”. [link]

  • Fairhead J., Leach M., Scoones I. (2012) Green Grabbing: a new appropriation of nature?. Journal of Peasant Studies, vol. 39, 2, pp. 237-261, [pdf]

  • Istat, “6° Censimento generale dell’agricoltura in Calabria”, pubblicato il 27/02/13, www.istat.it

  • McMichael P. (2009), “A food regime analysis of the ‘world food crisis”, Agriculture and Human Values, 26(4): 12–27

  • 1. La Sau totale comune di Altomonte è pari a 3415,03 ha. Dati Istat, “6° Censimento generale dell’agricoltura in Calabria”, pubblicato il 27/02/13, www.istat.it
  • 2. Comunicato stampa 22/03/2012 Confsal Fna Confederazione Nazionale Agricoltura sede di Altomonte: [link]
  • 3. Non ci è dato, però, sapere quale sia la reale redditività dell’impianto.
  • 4. [pdf]
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