Introduzione
In un recente rapporto commissionato dalla Commissione permanente della Commissione Europea per la ricerca agricola (Scar, 2011), un gruppo di esperti ha classificato le ricerche esistenti intorno al problema della sostenibilità in due “narrative”. Queste narrative danno risposte parzialmente diverse al problema - ormai ampiamente riconosciuto - di sempre più evidente scarsità delle risorse in un pianeta la cui popolazione continuerà a crescere per diversi decenni. La prima narrativa, chiamata la “narrativa della produttività”, sottolinea la necessità di migliorare l’efficienza dei processi di produzione, ovvero la riduzione dell’uso di input per unità di output. Uno slogan molto usato all’interno di questa è “produrre di più con meno” che è alla base del movimento della “intensificazione sostenibile”. La seconda viene identificata come “narrativa della sufficienza” che, sviluppando le implicazioni del paradosso di Jevons (Giampietro et al., 2000), che postula l’incremento dei consumi generato dai miglioramenti di efficienza (il cosiddetto effetto rebound1 ), sottolinea l’importanza di concentrare l’attenzione sul contenimento – se non della riduzione - dei livelli assoluti del consumo (si veda anche Segré, 2008). Il concetto di consumo sostenibile si inserisce nel dilemma tra efficienza e sufficienza.
Le politiche per il consumo sostenibile
Il concetto di consumo sostenibile nelle istituzioni internazionali
Il concetto di consumo sostenibile è diventato un elemento chiave delle agende politiche internazionali a partire dal 1992, in occasione della Conferenza mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite tenutasi a Rio de Janeiro, con la sottoscrizione del primo accordo politico internazionale sul consumo sostenibile. Il tema del consumo sostenibile è affrontato nel capitolo 4 dell’Agenda 21 “Cambiare i modelli di consumo” (Onu, 1992). In questo capitolo sono definite due aree d’intervento: l’analisi di modelli di produzione e consumo non sostenibili e lo sviluppo di strategie politiche nazionali che incoraggino cambiamenti nei modelli di consumo non sostenibili.
Dieci anni dopo la Conferenza di Rio de Janeiro, si tiene a Johannesburg il Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile. Nel corso della Conferenza è messo a punto il Piano di Implementazione del Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile, che definisce i campi d’azione per la strategia politica internazionale in tema di sviluppo sostenibile. Consumo e produzione sostenibili sono trattati nel capitolo 3 del documento, “Cambiare i modelli di consumo e produzione non sostenibili”, nel quale tra l’altro viene menzionato l’impegno a identificare “…dove appropriati, analisi del ciclo di vita e indicatori nazionali”. Il documento invoca inoltre un impegno nello sviluppo di programmi volti ad aumentare la consapevolezza dei consumatori attraverso informazione ed educazione.
Un anno dopo il World Summit di Johannesburg si svolge a Marrakech il primo di una serie di meeting internazionali con cadenza biennale, che ha dato vita a quello che viene indicato come il processo di Marrakech, un processo globale a supporto dell’elaborazione di un programma quadro decennale su consumo e produzione sostenibili, secondo quanto disposto dal Piano d’Azione di Johannesburg. Allo scopo di facilitare il lavoro dei diversi Paesi e di articolarne le visioni, vengono individuate sette task forces governative, tra cui quella per l’educazione al consumo sostenibile, quella per gli stili di vita sostenibili, quella per gli acquisti pubblici sostenibili.
Nel 2003 il Dipartimento di Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite pubblica le linee guida per la protezione del consumatore (Onu, 2003). Tra gli obiettivi generali delle linee guida c’è la promozione del consumo sostenibile attraverso strumenti che consentano ai Paesi sviluppati di definire e implementare modelli di consumo più sostenibili. Si evidenzia come il consumatore informato svolga un ruolo cruciale nel promuovere il consumo sostenibile da un punto di vista economico, sociale e ambientale. Oltre a ciò, sono date disposizioni ai Governi per lo sviluppo e l’implementazione di strategie che promuovano il consumo sostenibile, attraverso politiche che possono prevedere: regolamenti, strumenti economici e sociali, politiche di settore come l’uso del suolo, i trasporti, le energie e le costruzioni, i programmi di informazione e le azioni per aumentare la consapevolezza dell’impatto dei modelli di consumo.
Alla 18° Sessione della Commissione sullo Sviluppo Sostenibile, riunitasi dal 3 al 14 maggio 2010, viene presentato e sottoposto a discussione il rapporto sullo stato di avanzamento del Processo di Marrakech. Il rapporto presenta i progressi fatti nell’ambito delle sette task forces attivate, le quali hanno sviluppato attività e programmi per la promozione di consumo e produzione sostenibili a livello nazionale e regionale, contribuendo alla definizione di politiche per il consumo e la produzione sostenibili e implementando progetti dimostrativi. Tra i risultati delle task forces sono evidenziati: a) il miglioramento della comprensione degli stili di vita sostenibili attraverso un’indagine su scala globale; b) le linee guida per l’educazione al consumo sostenibile (“Here and Now”). Nel documento viene sottolineata la necessità di lavorare su ricerca e innovazione, coordinamento e costruzione di reti, l’attenzione al lato della domanda e degli stili di vita, comunicazione. Inoltre, si suggerisce di adottare una prospettiva di intervento basata sul ciclo di vita dei prodotti, in modo da dare ai consumatori informazioni sempre più accurate sull’impatto ambientale e sociale delle proprie scelte.
La conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, meglio nota come Rio+20, è stata giudicata da molti osservatori un fallimento. Nel più benevolo dei giudizi, essa ha dato luogo a dichiarazioni di principio ma senza impegni concreti. La grande enfasi posta nei documenti ufficiali sulla crescita, ancorché sostenibile o verde, è per molti il segnale di un ritorno indietro rispetto allo spirito che aveva animato la conferenza dell’Onu a Rio de Janeiro del 1992. Ciononostante è utile identificare gli aspetti che, proprio perché ribaditi all’interno di un contesto non favorevole, segnalano se non altro il consolidamento di principi su cui far leva nei contesti nazionali. Per quello che riguarda il consumo sostenibile, questo è oggetto di uno specifico documento (Onu 2012) che delinea il quadro di azione 2012-2022 in attuazione del processo di Marrakesh. In questo documento si ribadisce che “.. Per ottenere uno sviluppo sostenibile globale sono necessari cambiamenti fondamentali nel modo in cui le società producono e consumano”. A tale scopo, si ribadisce la necessità di adottare un approccio basato sul ciclo di vita dei prodotti, e identifica tra le possibili aree di intervento a) l’informazione ai consumatori b) l’educazione e i gli stili di vita sostenibili; c) il public procurement.
Il consumo sostenibile nelle politiche comunitarie
L’Unione Europea è tra le istituzioni che maggiormente hanno lavorato all’implementazione delle politiche di sviluppo sostenibile. Nel 1997 lo sviluppo sostenibile è stato incluso nel Trattato di Amsterdam come obiettivo fondamentale delle politiche europee, ma l’adozione di una strategia per lo sviluppo sostenibile ha luogo soltanto nel 2001, con il Consiglio Europeo di Goteborg (Consiglio Europeo, 2000), che tra l’altro integra la strategia di Lisbona con la dimensione ambientale. Questa strategia viene aggiornata, dopo un’ampia consultazione, nel 2006 (Consiglio Europeo, 2006). Il primo piano di azione sulla produzione e consumo sostenibili è adottato nel 2008 (Commissione Europea, 2008). In questo si legge:
"La sfida consiste nel creare un circolo virtuoso: migliorare la resa ambientale generale dei prodotti durante tutto il loro ciclo vitale, promuovere ed incentivare la domanda di prodotti migliori e di tecnologie di produzione migliori, aiutando i consumatori a scegliere meglio grazie ad un'etichettatura maggiormente coerente e semplificata."
Nel documento si fa esplicito riferimento al processo di Marrakesh. Le azioni previste dal piano riguardano: a) la progettazione ecocompatibile; b) il ‘green public procurement’; c) un’estensione della sfera di intervento dell’etichettatura ecologica; d) l’attivazione di un forum tematici con la partecipazione di una molteplicità di portatori di interesse. Per quello che riguarda la progettazione ecocompatibile si fa riferimento esclusivamente a prodotti industriali.
Per quello che riguarda il ‘green public procurement’, un gruppo di esperti identificato dalla Commissione Europea ha portato a 18 i criteri cui il green procurement dovrebbe ispirarsi. Nel 2010 la Commissione ha inoltre definito le procedure per l’aggiornamento di tali criteri, con l’obiettivo di creare sinergie con altri strumenti delle politiche di consumo e produzione sostenibile, come l’ecolabel e l’ecodesign. Le politiche per il green procurement in relazione alle mense scolastiche sono state oggetto di uno specifico approfondimento su questa rivista (Galli e Brunori, 2012).
L’etichettatura ambientale è nata e si è sviluppata nell’ambito di prodotti industriali e in un primo momento ha concentrato la sua attenzione sull’efficienza energetica. A seguito del piano di azione sulla produzione e il consumo sostenibili (Commissione Europea, 2008), è stato promosso uno studio dell’estensione dell’etichettatura ambientale ai prodotti alimentari (Deegan, 2011). Lo studio suggerisce che l’estensione dell’etichettatura ambientale è interessante per i prodotti che abbiano un significativo impatto ambientale durante le fasi della trasformazione, trasporto e consumo del loro ciclo di vita. Rientrano in questa categoria i latticini, il pane, le bevande non alcoliche, i prodotti trasformati a base di pesce.
Per quello che riguarda i forum tematici, sono stati attivati a) un ‘retail forum’, con lo scopo di scambiare le buone pratiche sulla sostenibilità nel settore della distribuzione e per identificare barriere e opportunità per il perseguimento del consumo e la produzione sostenibile, e l’European Food Scp roundtable, specificamente rivolto agli alimenti. L’idea che muove il retail forum è che i dettaglianti sono collocati in una posizione strategica tra i consumatori e i produttori tale da consentire loro di influenzare in modo rilevante tanto la domanda che l’offerta. Il retail forum ha prodotto tra l’altro un ‘codice per la sostenibilità della distribuzione al dettaglio’, norma volontaria che si inserisce nell’ambito delle iniziative per la responsabilità di impresa. Il codice regola l’approvvigionamento sostenibile di alcuni prodotti come legname e pesce, l’efficienza ecologica dei negozi, l’ottimizzazione del trasporto e della distribuzione, una migliore gestione dei rifiuti e un miglioramento della comunicazione ai consumatori. I firmatari si impegnano a comunicare al pubblico il progresso in questi ambiti.
Un altro forum di rilievo è il European Food Sustainable Consumption and Production Roundtable, che ha avuto avvio nel 2010. I lavori del forum sono articolati in gruppi di lavoro intorno a tre obiettivi: a) stabilire metodologie affidabili per l’analisi dell’impatto ambientale dei prodotti alimentari e delle bevande, b) identificare strumenti adatti e linee guida per la comunicazione ambientale volontaria ai consumatori e agli altri stakeholders; c) promuovere misure per un miglioramento costante della performance ambientale lungo l’intera filiera; d) esplorare gli aspetti non ambientali della sostenibilità.
La difficile transizione verso nuovi modelli di consumo
Le istituzioni internazionali sopra citate hanno definito gli obiettivi e i possibili strumenti di intervento per perseguire il consumo sostenibile. Ma modificare modelli di consumo non sostenibili implica una “rottura” di quelle che si possono definire cattive abitudini, per l’affermazione di nuove abitudini nell’ottica del consumo sostenibile, nuove abitudini che si formano attraverso il rafforzamento e la ripetizione. Come generare questa rottura e poi consolidare nuove abitudini? E come fare in modo che questo processo non venga sofferto come lesivo della libertà individuale? Iniziative che venissero vissute come un’imposizione dall’alto, oltre ad essere di dubbia efficacia, sarebbero fortemente instabili, generando ritorni alle vecchie abitudini non appena cambiasse il sistema di incentivi o il contesto di azione.
Il processo verso il consumo sostenibile deve dunque basarsi su una profonda conoscenza dei meccanismi di comportamento dei consumatori. Come osserva Jackson (2005), le scelte del consumatore sono influenzate da fattori emotivi, morali, normativi, sociali, che rendono i modelli di comportamento particolarmente resistenti al cambiamento. La motivazione a cambiare individuale, ad esempio, potrebbe non essere sufficiente a generare cambiamenti per effetto dei condizionamenti sociali e delle condizioni materiali in cui si esercita la libertà di scelta. Eppure, se analizzati attentamente, i comportamenti cambiano continuamente e, come ad esempio accade in tempo di crisi, cambiano anche radicalmente in un periodo di tempo relativamente breve.
In che modo possono dunque agire le politiche? Le opzioni possibili riguardano i modelli di regolazione dei rapporti tra governi, imprese e società civile (Stuckler e Nestle, 2012). Il primo modello è quello dell’autoriforma del settore privato. Spinta da una crescente critica sul suo impatto ambientale e sulla salute, e sollecitata da sempre più stringenti pressioni provenienti tanto dall’opinione pubblica che dal mondo della politica, l’industria alimentare ha intrapreso un percorso di adeguamento delle proprie politiche a criteri di responsabilità sociale (Maloni e Brown, 2006). L’esempio forse più noto è quello di Wal-Mart che si è recentemente impegnata a ridurre del 10% il contenuto di grassi, zuccheri e sale nei prodotti presenti sui propri scaffali. Per quanto queste iniziative generino un giustificato scetticismo (Stuckler e Nestle, 2012) sulla loro reale efficacia e soprattutto sulle motivazioni – spesso dettate da ragioni di marketing più che da una genuina convinzione – non si può negare che la grande forza di orientamento del ‘Big food’, mobilitata a fini benefici, può essere in grado di generare cambiamenti su larga scala.
Il secondo modello implica un ruolo più forte dei governi. In questo caso, oltre alle azioni volontarie, i governi dovrebbero sviluppare delle vere e proprie partnership e alleanze con le imprese private per perseguire gli obiettivi desiderati. In questo modo le imprese sarebbero vincolate ad impegni precisi su obiettivi e standard definiti in collaborazione con organismi non in conflitto di interessi.
Un terzo modello, che si basa su una visione più critica del rapporto tra Stato e sistema alimentare, centra l’attenzione sulla crescente consapevolezza del ruolo che i consumatori possono giocare come attori di cambiamento – la possibilità di esercitare il potere di scelta per far leva sulla sfera politica. Questa consapevolezza ha generato un’elaborazione più compiuta del concetto di cittadino-consumatore, ovvero di un soggetto che cerca di conciliare i valori individuali e sociali – insiti nel concetto di cittadinanza – con le scelte di consumo. I dati di un recente Eurobarometro (Gallup 2009) mostrano che 8 cittadini europei su 10 sostengono di fare attenzione all’impatto ambientale all’atto dell’acquisto. Peraltro, lo stesso rapporto mostra come la strada per la piena consapevolezza ambientale dei consumi sia ancora lunga. Infatti, se un 55% degli intervistati sostiene di essere consapevole dell’impatto ambientale dei propri consumi, in paesi come Bulgaria, Cipro e Lituania questa percentuale si riduce al 40%. In questo quadro la presenza, nella varietà dei soggetti e delle pratiche di consumo, di consumatori-cittadini che si spingono su forme radicali di contestazione dei modelli attuali di consumo, suggerisce che i processi di consumo sostenibile possano essere incoraggiati da politiche che sostengano le azioni dal basso e facciano leva su motivazioni etiche e sociali oltre che su quelle, sempre fondamentali, economiche.
Consumo sostenibile e sviluppo sostenibile: quali prospettive?
L’analisi fin qui svolta mostra una chiara affermazione dei principi del consumo sostenibile nei documenti ufficiali. La rassegna ha peraltro messo in mostra le difficoltà del passaggio dalla consapevolezza alla pratica, difficoltà che risiedono sia nelle contraddizioni che tali principi sollevano in relazione ad altri principi ben più solidamente affermati – primo tra tutti quello della libertà di circolazione delle merci – che negli interessi che l’affermazione di questi principi tocca. Non è un caso che gran parte delle iniziative sullo sviluppo sostenibile vengano oggi ispirate alle norme volontarie e alle partnership pubblico-privato, secondo una logica che privilegia un cambiamento graduale con il coinvolgimento anche di quelli che secondo molti sono i principali responsabili dell’insostenibilità degli attuali modelli di consumo.
C’è da chiedersi, peraltro, se il solo far leva sulla volontarietà possa agire un modo efficace sull’obiettivo finale delle politiche di consumo sostenibile, ovvero una radicale riconfigurazione delle pratiche di consumo, che nel caso del cibo consenta una transizione dal confezionato al fresco, dal destagionalizzato allo stagionale, dal convenience food al recupero delle competenze gastronomiche, da una dieta basata sulle proteine animali ad una dieta prevalentemente vegetale, da un approvvigionamento globale ad uno prevalentemente locale. Queste pratiche potranno affermarsi su larga scala solo quando gruppi di numerosità crescente di consumatori, produttori e distributori abbiano potuto sperimentarle con successo, adattando non solo le proprie preferenze ma anche il contesto culturale, istituzionale e infrastrutturale in cui le preferenze si formano.
E’ un fatto che la velocità con cui avanzano questi processi è drammaticamente inadeguata alla crisi ambientale che viviamo. Accanto allo stimolo al settore privato è dunque necessario pensare a forme di intervento in grado di incalzare tutti i soggetti al fine di perseguire maggiore coerenza e radicalità di approccio. La leva per il cambiamento, a questo proposito, non può non partire che da un’alleanza tra le istituzioni pubbliche e la società civile, facendo leva sul ruolo dei consumatori-cittadini. Qui di seguito si evidenziano quattro passaggi che dovrebbero caratterizzare le politiche per il consumo sostenibile. Il primo passo per un consumo sostenibile è mettere in grado i consumatori di esercitare la propria libertà di scelta all’interno del contesto di mercato, penalizzando prodotti ritenuti meno sostenibili o premiando quelli ritenuti più virtuosi. La condizione necessaria perché questa libertà sia effettivamente esercitata è la disponibilità di informazione sui prodotti. Sotto questo profilo, i produttori e i dettaglianti hanno nel tempo adeguato la propria comunicazione alla crescente domanda di informazione, anche se moltissimo rimane da fare per standardizzare le fonti, i metodi di rilevazione e le modalità di comunicazione. Per quello che riguarda l’etichettatura, sarà importante capire se alcune etichette premianti come l’ecolabel non rischino di generare confusione e contraddizione. Se, come proposto dallo studio commissionato dalla Commissione, l’etichetta va a premiare prodotti che in generale hanno un alto impatto ambientale, l’etichetta potrebbe infatti legittimare prodotti che in un’ottica più radicale potrebbero essere del tutto eliminati dalla dieta.
Il secondo passo riguarda la possibilità per il consumatore di partecipare alle decisioni sulle regole che influenzano le modalità di produzione, distribuzione e consumo. Se si considera il consumo sostenibile come un processo evolutivo, non si può prescindere dalla necessità di garantire ai consumatori spazi pubblici in cui esercitare il potere di critica e di controllo e nei quali accedere ad informazioni di origine indipendente. E’ infatti ampiamente riconosciuto che i produttori e soprattutto i distributori agiscono sul consumatore attraverso la cosiddetta ‘choice editing’, ovvero la selezione dei prodotti da offrire al consumatore. In assenza di altre informazioni, la libertà di scelta può rivelarsi dunque illusoria o estremamente limitata. Esiste oggi una crescente varietà di tali spazi, dai movimenti ambientalisti ai vari forum di cittadinanza. Più recentemente, soprattutto nel mondo anglosassone, si sono moltiplicati i cosiddetti ‘food councils’, che concorrono attraverso varie modalità di governance alla definizione delle politiche alimentari urbane. Il terzo passo è legato all’introduzione dei principi del consumo sostenibile nell’organizzazione delle mense pubbliche. La possibilità di implementare il concetto di dieta sostenibile ha una valenza in grado di orientare tanto la produzione che il consumo e, facendo leva sugli aspetti educativi, agire sui valori di fondo delle giovani generazioni nell’interazione con le famiglie.
Il quarto passo è legato al supporto a forme alternative di produzione e distribuzione, come nel caso dei Farmers’ market e dei Gruppi di Acquisto Solidale in Italia (Brunori, Guidi e Rossi, 2011). In questo caso i consumatori gestiscono in proprio segmenti della logistica e della comunicazione con i produttori per recuperare spazi di socialità e garantirsi l’accesso al cibo di qualità in un contesto di crisi dei redditi. Più che rappresentare delle alternative in termini quantitativi, queste forme possono rappresentare una forma di democrazia economica in grado di sollecitare il settore privato ad un costante adeguamento, e al tempo stesso sono generatori di innovazione nell’ambito della produzione, distribuzione e consumo.
I quattro passaggi sono del tutto compatibili con le politiche sopra descritte: essi tendono a favorire lo sviluppo di dinamiche di cambiamento dal basso e allo stesso tempo sollecitare la necessaria innovazione istituzionale in grado di rendere compatibili i cambiamenti su una scala più ampia. Resta da vedere quale livello di priorità verrà dato a questi obiettivi. Come sono ormai molti a sottolineare, ‘business as usual’ non è più possibile.
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Siti di riferimento
- 1. In economia energetica — in particolare, nell'ambito del risparmio energetico — l'effetto rebound (in inglese, rebound effect o take-back effect) si riferisce a specifiche risposte sistemiche conseguenti all'introduzione di tecnologie efficienti nei cicli di produzione. Tali risposte hanno la peculiarità di compensare, ovvero ridurre, gli effetti benefici della nuova tecnologia o di misure equivalenti adottate [link]